giovedì 30 marzo 2023

The Necks – Travel (2023)

 

As an enigmatic band out of Australia over the last three decades with a large cult following, The Necks have consistently made some of the most alluring but most hard to pin down instrumental music. Thirty-four years after their first release, they are going as strong as ever.

Travel represents their nineteenth studio album, but it’s a studio album that comes closest to being a ‘live’ album because these tracks come closest to reflecting unadulterated live tracking of improvisations in the studio, with only some mild subsequent edits. And this time it’s four, twenty-minute-ish tracks, a departure from the usual single, hour-long tracks. As such Travel is also a double-disc affair, also unusual for this band.

Getting four distinct performances is an abundance of new material from guys accustomed to offering them up one at a time, even if we were actually treated to three of them on the prior album, whose title seemed to highlight that fact.

But the band’s blueprint for organic minimalism remains the same, and improvisation is at the heart of that formula. Maybe ironically, because they can recycle the same approach to making a record over and over and yield different results each time. Travel — aside from the extended length — is an entity separate from other Necks albums, just as the other records in their canon stand alone.

Anyone seeking to settle the argument of whether or not The Necks is ‘jazz’ won’t get that resolved with Travel. Sure, Chris Abrahams does his jazzy flourishes on the piano, Lloyd Swanton lays down his insistent vamps on a standup bass and drummer Tony Buck always has a faint swing in his gait. But the resulting music doesn’t really follow the widely-accepted rules of jazz, because jazz moves fast; these lads are in no rush.

For the opener “Signal,” Swanton’s acoustic bass line — as is often the case — declares the riff that will stay with us for the next twenty minutes, but the steadiness is merely the foundation in barely-perceptible variations by Abrahams using the organ to set sonic washes and piano to insert that improvisational jazz element. His minutely subtle buildups gradually regulates that bass to the background but by that time it’s ingrained in your brain, anyway.

With “Forming,” Swanton is dancing on the single chord, and Buck is paint brushing so much of the audial imagery with toms, cymbal splashes and percussion, as Swanton saws his double bass to discreetly alter the procession.

Buck’s profile is even higher on “Imprinting,” where he constructs an insistently funky, almost jungle rhythm situated right in the middle while Swanton plays in that pocket on the left channel and Abrahams leaves precious notes on the right.

A churchly organ establishes the sacred mood for “Bloodstream,” and Swanton’s saws organically establishes a drone right alongside it. Buck’s rolling snare enters minutes later to complete the picture, punctuating with tom-tom and cymbal hits whenever a slight mood alteration is called for.

It probably goes without saying that if you like The Necks previous records, you’re going to like Travel, too, guaranteed. It’s a familiar sound but the songs will still take you on an engaging journey where you’re not sure beforehand where they wind up.

Travel is releasing on February 24, 2023 via Northern Spy Records. Bandcamp

Pubblicato su somethingelsereviews.com 2023/02/18

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“Travels” celebra trentaquattro anni di costante ostinazione stilistica, oltreché di reinvenzione del legame che intercorre tra avant-garde, jazz e minimalismo.

Quattro tracce per  un album che consolida il rapporto con la Northern spy , quattro brani che corrispondono alle facciate del doppio vinile (una scelta della band, non un’esigenza commerciale), quattro folgorazioni creative che narrano una delle migliori prove discografiche del gruppo.

“Travels” è il loro “Koln Concert” (in senso figurato non stilistico), un disco che nasce live in studio, per poi nutrirsi di strati sonori di organo hammond e mantra chitarristici dall’intrigante natura slowhand.

A Lloyd Swanton è offerto il ruolo di maestro di cerimonie e supporto costante della prima facciata, venti minuti e cinquanta secondi per “Signal”, un brano che si dipana su di un minimale e magnetico riff di contrabbasso, sensuale come una jam di Miles Davis e rituale come un brano di Sun Ra, tinto da poche note di piano, alle quali si avvicendano cosmiche arie d’organo ed il vellutato fragore del rullante, che intercettano il ritmo base, prima che la chitarra ed il piano accennino esotismi world che ora rafforzano il ruolo del contrabbasso, ora l’addomesticano ai dettami free delle jam-session; a dettare ulteriormente tempi e ritmo v’è il flusso costante della batteria, che nell’apparente immobilismo tecnico nasconde un furore dinamico che dona ulteriore slancio emotivo.

I primi ardori di “Forming” (venti minuti e tredici secondi) sono pochi accordi di piano in libertà armonica, elevati ad onirica visione afro-jazz dal fruscio dei piatti e delle percussioni, una musicalità sospesa e notturna simile ad una partitura orchestrale, affine per creatività e ricercatezza, ad alcune delle pagine più nobili della musica jazz e sperimentale degli anni 70, una delle vette assolute della band australiana.

L’organo hammond, il brusio metallico del frastagliato corpo ritmico, l’adulterato timbro del basso, note di piano apparentemente disordinate, il sofferto vagare della chitarra elettrica, danno alfine corpo all’esoterica jam blues-jazz-etno-ambient di “Imprinting”, diciassette minuti e quattordici secondi di divagazioni di stili e linguaggi, che tracciano un immaginario ponte tra John Coltrane, Miles Davis, i Can e Jon Hassell.

Ennesima saga musicale anche per l’ultimo insieme di “Bloodstream” - diciotto minuti e trentotto secondi - poche cicliche note duplicate all’infinito, messe in fila da un organo a canne dall’incedere sacrale, da accordi di piano più generosi, e da un’evoluzione di canoni funk, di jazz modale e accenni rock grevi, che si frantumano e si rigenerano.

Ancora una volta i Necks onorano l’approccio originario e creativo che da “Sex” fino ad oggi ha reso la loro musica identificabile e peculiare, “Travels” è l’ennesima magia che si ripete, a prima vista non dissimile da quanto elaborato in passato, eppur discordante ed originale, settantasei minuti e cinquantacinque secondi di una musica radicata nel jazz e nell’avanguardia sperimentale, altresì libera da vincoli di genere, un piccolo capolavoro che si candida già da ora tra i migliori album dell’anno.

Pubblicato su ondarock.it 02/03/2023 di Gianfranco Marmoro

 


PACIFICTION di Albert Serra (2022)


Location: Tahiti, la più grande isola nel gruppo delle Isole del Vento della Polinesia Francese. Nella prima sequenza vediamo arrivare dal mare in un porticciolo un gommone con un gruppo di marinai insieme al loro capitano che comanda la squadra dei militari, siamo al tramonto su quella che ancor oggi si può definire, a ragione, un autentico paradiso terrestre. Subito dopo, nello stesso locale notturno dove si sono recati i marinai, scopriamo un signore elegante e inconfondibile, di cui conosceremo, nel corso del film lungo la bellezza di 165 minuti solo il cognome, sempre vestito in maniera impeccabile con un completo doppiopetto bianco su una camicia fantasia hawaiana. È sicuro e calcolatore ma anche felpato e sfuggente come un gatto; apprendiamo che si chiama De Roller (Benoît Magimel) ed è l’Alto Commissario, il rappresentante del governo francese in loco. Un uomo che pur avendo a che fare con persone molto diverse – tanto nelle occasioni e nei ricevimenti ufficiali quanto nelle riunioni e/o nei luoghi appartati e sospetti – si aggira e mantiene un aplomb assolutamente impenetrabile, senza lasciar mai trasparire nulla dei suoi sentimenti e ancor meno di quanto realmente pensi. Il suo compito dunque – tra il bonario e l’amichevole (quasi sempre) ma sfoderando talvolta qualche unghia minacciosa quando serve per mostrare il suo potere (per quanto piccolo) – consiste nel tastare il polso della situazione, capire e placare un possibile malcontento della popolazione locale che potrebbe esplodere in qualunque momento. Soprattutto adesso che si sta piano piano spargendo la voce a Tahiti della presenza di un sottomarino o di una unità navale fantasma, con la possibilità non remota che possano venir ripresi in zona i test nucleari della Francia, dopo quelli effettuati nel 1996 nell’atollo di Mururoa, che avevano portato a grandi proteste e poi interrotti dal presidente Chirac.

De Roller vorrebbe calmare le acque ma lui stesso non è ben informato sulla situazione e sulle intenzioni reali del suo governo, cerca dunque di indagare su indizi sfuggenti, nella notte, tipo una barca con un gruppo di donne locali, diciamo così disponibili, che si allontanerebbero misteriosamente sul mare forse per compiacere l’equipaggio del sottomarino fantasma. E poi si aggira furtivo ed attento, come un pesce vigile in un acquario variegato, nel sottobosco dell’isola, fatto di lotte di galli e danze tribali, di potenziali rivoluzionari che combattono l’indipendenza e di agenti stranieri americani oltre ad avventurieri come il padrone della principale discoteca dell’isola, il Paradis. Oppure si incontra con uno strambo diplomatico (???) portoghese che ha perso passaporto e memoria, e con una scrittrice di successo rientrata a Tahiti ma in crisi d’ispirazione, ecc. ecc.

Se un debole De Roller lo ha, è soltanto nei confronti di Shannah, la bella receptionist di un hotel, la cui identità sessuale è fluida come tutto il film, che piano piano avanza di ruolo, diventando collaboratrice e probabilmente amante del nostro spregiudicato Alto Commissario – in parallelo a quanto è accaduto a chi lo/la interpreta, cioé Pahoa Mahagafanau inizialmente previsto/a come una comparsa e che poi ha sempre più preso peso nel film, diventando un perfetto esempio di māhū.

La sequenza finale con cui si chiude circolarmente il film, all’alba, vede allontanarsi in mare la squadra di marinai dell’inizio con il comandante che spiega in macchina allo spettatore cosa stia realmente per avvenire – una sequenza forse obbligata  e non voluta dal regista che potrebbe essere stata una concessione nei confronti della produzione, a chiudere un’opera che invece sino a quel momento aveva vissuto in una straordinaria atmosfera di sospensione della consecutio narrativa, per abbondonarsi ad un mood tanto allusivo e oscuro, quanto meravigliosamente criptico. 

Ispirato all’autobiografia dell’attrice polinesiana Tarita Tériipaia (la terza moglie di Marlon Brando), Pacifiction di Albert Serra – autore per altro poco noto al grande pubblico ma viceversa, già da anni, un must della cinefilia più attenta che qui però fa un grande salto di qualità rispetto al passato – è dunque un formidabile rondò di incontri, illusioni e allusioni. Una ronde, un girotondo in un mondo attraversato dalla crisi del post colonialismo con tutto ciò che ciò significa, dagli interessi strategici a quelli turistici, morali ed ecologici. Un film affascinate, ascondito e misterioso come il suo titolo che potrebbe significare “pacificazione” o “fiction nel Pacifico” o ancora altro. Ma non è solo il fascino esotico del luogo a diventare in sé una calamita straordinaria di interesse – già la lunga, ultra-spettacolare sequenza di surf è di una bellezza cinematografica e di una forza a dir poco emozionate (pari a quelle straordinarie di un John Milius o di una Kathryn Bigelow) e lei sola basterebbe a consigliare un film che passato quasi in sordina negli ultimi giorni dello scorso Festival di Cannes (e in Italia al Torino FF) non ha riscosso il successo e l’interesse che per noi merita. Accanto alla formidabile regia del regista catalano (classe 1975) con la passione per la Storia francese che qui per la prima volta lascia il passato per raccontare l’oggi, oltre alla bontà della rara fotografia di Artur Tort, l’eccellenza del risultato è gran merito dell’interpretazione a dir poco superlativa di Benoît Magimel. A lui, a ragione, è andato di recente il Cesar 2023 per la migliore interpretazione maschile – non meritato, meritatissimo. 

Pacifiction/Tourment sur les îles – Regia e sceneggiatura: Albert Serra; fotografia: Artur Tort; montaggio: Albert Serra, Artur Tort, Ariadna Ribas; musica: Marc Verdaguer, Joe Robinson; scenografia: Sebastian Vogler; interpreti: Benoît Magimel (de Roller), Pahoa Mahagafanau (Shannah), Marc Susini (l’ammiraglio), Matahi Pambrun (Matahi), Alexandre Mello (il portoghese), Montse Triola (Francesca), Michael Vautor (il capitano), Cécile Guilbert (Romane Attia), Lluís Serrat (Lois), Mike Landscape (Mr. Mike); produzione: Idéale Audience Group (France), Andergraun Films (Spain), Tamtam Film (Germany), Rosa Filmes (Portugal); origine: Francia/Spagna/Portogallo/Germania, 2022; durata: 165 minuti; distribuzione: Movie Inspired.

Pubblicato su close-up.info, 30/3/2023 di Giovanni Spagnoletti

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Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia.  “Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni”.

È perfettamente logica, dunque, la rinuncia di Pacifiction a qualsiasi inseguimento affannoso di una temporalità conseguenziale. Proprio perché tutt’intorno è l’Eden, siamo nello spazio che precede il peccato e la caduta. La trama non è che un’infinita divagazione, un alto commissario del governo francese alle prese con una serie interminabile di appuntamenti, incontri, colloqui con personaggi di vario genere. Europei, polinesiani, politici, militari, gente comune. Un continuo discorrere senza un punto. Ma quando non c’è la possibilità racconto, molto spesso non resta che la contemplazione. E così, su tutto, trionfa l’immagine di una natura sublime.

Ma Serra sa benissimo che l’esperienza estetica e panica di un mondo incontaminato non è che la versione estrema di una sofisticazione intellettuale, l’ultima ipotesi d’evasione di una cultura ormai esausta, che ha già sperimentato la dissoluzione organica dei suoi simboli istituzionali e delle sue aspirazioni libertarie (o libertine). Cioè quella consunzione messa in mostra in La mort de Louis XIV e Liberté. Oltre la quale, non rimane che la constatazione di un mondo svuotato. Dove tutto ciò che nasce è già consumato. Dove anche la fascinazione esotica ha compiuto il breve passo per trasformarsi nella vacuità di un’esperienza turistica. Turismo elitario, ma pur sempre venduto a pacchetti. E quindi, tra le meraviglie del paesaggio, è tutto un pullulare di resort di lusso, di night club. Un paradiso da vacanzieri e da surfisti, in cui, tra le note dei Beach Boys, attendi l’ebbrezza della grande mareggiata. Che puntuale arriva, nella stupenda scena delle barche che cavalcano la cresta delle onde.

Rispetto a tutto questo, il protagonista, questo incredibile Benoît Magimel in libera decadenza fisica, col suo abito bianco, assomiglia a una specie di Fitzcarraldo stanco. Il residuo raffinato di un colonialismo decadente, fuori tempo massimo. La cui conversazione, arte intimamente politica, è diventata una digressione infinita, un flusso di pensieri, appunti, notazioni, umori. Una specie di monologo, visto che gli altri, molto spesso, non sembrano neanche capire davvero. E a poco a poco, si va quasi alla deriva. Che sia questo il Paradiso? Come in un esercizio estremo di liberazione cinematografica, avvertiamo la possibilità di perdere tempo, di staccarci dagli obblighi di una visione istituzionale, di uscire e entrare dal film, dalla sala. Anzi, nella accurata composizione delle sue immagini concluse, verrebbe quasi voglia di consumare il film a frammenti, magari su una spiaggia, distesi su una sdraio, con un cocktail in mano. Per capitare distrattamente tra le scene, sedersi ogni tanto ad ascoltare le farneticazioni di Magimel, all’ombra di una palma. Anche se, poi, ti rendi conto di tutti quei segni inquieti, di un sottofondo di mistero e complotto, che si nasconde sotto la superficie del mare, per emergere sul finale, in tutta la sua forma definita e minacciosa. Il tempo torna urgente e la storia si prepara a distruggere il paradiso. L’apocalisse definitiva della bellezza.

Pubblicato  su sentieriselvatti.it , 27 Maggio 2022 di Aldo Spiniello

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Nell’isola di Tahiti, nella Polinesia francese, l’Alto Commissario della Repubblica De Roller, rappresentante dello Stato francese, è un uomo di calcolo dalle maniere perfette. Nei ricevimenti ufficiali come gli stabilimenti loschi, prende costantemente il polso di una popolazione locale da cui può emergere rabbia in qualsiasi momento. Tanto più che una voce si fa insistente: è stato visto un sottomarino la cui presenza spettrale annuncerebbe una ripresa dei test nucleari francesi. [sinossi]

Quando esordì diciannove anni fa, nel 2003, con l’oramai dimenticato Crespià: the Film not the Village, l’allora ventottenne Albert Serra affermò: “Volevo fare un’opera d’arte, ma non sono stato in grado di realizzare la mia ambizione. Ho finito per fare un film d’autore”, per poi aggiungere “Odio i documentari. Sono la scusa perfetta per le persone prive di immaginazione. Ma se questo film è il ritratto di un mondo che è prossimo a svanire, può essere considerato un ‘documento’”. Nonostante siano trascorsi quasi due decenni da quelle affermazioni Serra non sembra in alcun modo aver modificato il proprio punto di vista, continuando a rifuggire in maniera decisa il documentario ma mettendo in fila un numero non indifferente di documenti, e ricercando l’opera d’arte pur essendo incasellato oramai nel “film d’autore”. È questa la nicchia in cui è stato accolto per il concorso del Festival di Cannes, dove ha fatto la sua prima apparizione con Pacifiction (il titolo francese è Tourment sur les îles, grondante romanticismo), dopo le precedenti selezioni in Un certain regard (Liberté), séances spéciales (La Mort de Louis XIV) e Quinzaine des Réalisateurs (Honor de cavaleria, El cant dels ocells). Accolto con estrema freddezza, quasi spaesamento, Pacifiction a prima vista sembra scrollarsi di dosso il peso del passato per tornare a confrontarsi con un tempo presente per la prima volta dopo l’esordio: niente più Diciottesimo Secolo, niente più Ancien Régime, ma la Francia repubblicana, senza più colonie ma con le “collettività d’oltremare”. Il film si svolge infatti nella Polinesia Francese, un paradiso terrestre dove ci si può lasciare cullare da onde mostruose, sorvolare atolli da lasciare senza fiato o addormentarsi di fronte a un tramonto da cartolina. È quella la terra che amministra De Roller, Alto Commissario della Repubblica: lo fa muovendosi di incontro in incontro, dialogando con i locali, con gli statunitensi, con gli europei, con chi gestisce un’attività. Lo fa saltando di luogo in luogo, facendosi portare a un passo dall’onda più grande, andando in discoteca, raggiungendo gli avamposti più estremi di una terra che sembra non avere una definizione geografica evidente.

Come ne La Mort de Louis XIV Serra si avventura in direzione della messa in scena dell’esercizio dello Stato, ma se lì ne mostrava la putrefazione, con il corpo del re prossimo all’ultimo respiro, qui si è già un passo più in là, nella completa mancanza di una reale struttura da mandare avanti. Così come non ha tecnicamente senso l’opera di De Roller, vanificata in ogni suo scopo anche perché come sottolinea lui stesso non possiede in realtà alcun potere concreto, allo stesso modo Serra decide di disincagliarsi dalle secche della narrazione per procedere in modo ondivago, privo di una direzione apparente. Lavorando quasi senza sceneggiatura, il regista spagnolo lascia che il film vada alla deriva, si perda: il labile legaccio che ancora lo avvince alla logica è dettato solo dal vago sentore di una spy-story che non prenderà mai davvero corpo e che ruota attorno alla possibilità che la Marina Francese si stia organizzando per nuovi test nucleari nelle acque della zona, come quelli sull’atollo di Mururoa che scatenarono proteste a livello mondiale tra l’autunno e l’inverno del 1995. Ma anche in questo caso si tratta di un giro a vuoto (“in tondo? A spirale?”, si chiedono nel film) per il quale non può esserci una risoluzione definitiva, né uno sviluppo. Serra segue il suo personaggio nell’infinita rete di incontri, ufficiale o meno che siano, e lo sente dialogare come se quelle parole, pur disincarnate da qualsiasi senso concreto, potessero ancora testimoniare la verità dello Stato, la sua necessità, una logica in grado di dettare i ritmi della vita pubblica. Ma De Roller a dire il vero sembra quasi sempre parlare a se stesso, in una funzione che è percepita quasi solo come rituale: la morte dello Stato è sopravvenuta, ora rimane solo il suo vagare in una terra di fantasmi, un paradiso impossibile sognato anche da Paul Gauguin.

Pacifiction, pacificazione, ma anche rimando all’Oceano Pacifico, e volendo alla pace-finzione, quel superamento del vero dichiarato che è la base portante del pensiero cinematografico di Serra. Un Serra che qui forse compone il suo canto più libero e allo stesso tempo quello che richiede la maggior volontà di ascolto, come le immagini maestose di una natura che era lì prima dei francesi e lì sarà anche qualora i francesi non ci fossero più. Solo la Marina, l’agente di guerra, ha ancora la forza della retorica patriottarda, quella che a De Roller oramai manca, sfiancato da un’esistenza in cui lo Stato si è assottigliato, ha perso i contorni netti che aveva quando era giovane. L’Alto Commissario è uno sconfitto che ha accettato la propria perdita in modo indolore, e si muove bolso e quasi ridicolo di spazio in spazio, di luogo in luogo, di pensiero in pensiero. Benoît Magimel è straordinario nella sua capacità di rendere l’indefinibile soavità della decadenza, la pesantezza leggiadra di un colonialismo fatto a pezzi solo a parole, ma mai nella concretezza dei fatti. Corpo cinematografico sfatto, Magimel nel suo completo d’ordinanza è l’epitome di un film che a sua volta ha accettato la decadenza dell’immagine, e di un tempo svuotato di senso, e ha il coraggio estremo di mettere tutto ciò in scena. Con una minaccia di distruzione che è la catastrofe definitiva, e su cui anche il cinema non può che chiudere andando di colpo sullo schermo nero, senza soluzione.

Pubblicato  su quinlan.it , 28/05/2022 di Raffaele Meale

 

 

venerdì 24 marzo 2023

ARMAGEDDON TIME di James Gray (2022)

 

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, Armageddon Time è il film più piccino e personale di James Gray, all’ennesima prova più che convincente, altro prezioso tassello di una parabola autoriale che non conosce confini di genere e che guarda al cinema con una profondità e consapevolezza oramai rarissima. Ambizioso, figlio e discepolo degli anni Settanta, Gray scrive e dirige un coming of age dai contorni fortemente autobiografici e dall’afflato sorprendentemente politico. Memorabile Anthony Hopkins, ma sono le esili spalle del giovanissimo Michael Banks Repeta a caricarsi il peso dell’intero film.

When Jewish Eyes Are Smiling

1980. Secondogenito undicenne di una famiglia borghese del Queens, Paul si mette ripetutamente nei guai a scuola, stringe una sincera amicizia con un ragazzo afroamericano, di estrazione sociale completamente diversa dalla sua, e si scontra coi genitori quando decidono di trasferirlo in una esclusiva scuola privata. Molto legato al nonno materno, Paul scopre l’arte, come purtroppo funziona il mondo e le gioie e i dolori del diventare grande. Sullo sfondo, minacciosa, incombe la prima presidenza del repubblicano Ronald Reagan…

I prodromi della presidenza Reagan, ma anche le prime tracce di Trump; la comunità ebraica e la comunità afroamericana; le classi sociali, l’istruzione, le aspirazioni e le reali prospettive. Insomma, come funziona il mondo, come funzionano gli Stati Uniti. D’ispirazione autobiografica, scritto e diretto da James Gray, Armageddon Time è un coming of age ma è anche – forse soprattutto – un film politico. Lucidissimo, trattenuto come si conviene nella messa in scena, quasi spietato nel ritrarre gli States tra il 1980 e il 1981, anni non casuali, la vera fine dell’utopia degli anni Sessanta\Settanta. Arriva quasi tutto da lì, da quella sconfitta, da quel riflusso. Cast superbo, da Anthony Hopkins al giovanissimo Michael Banks Repeta.

Di padri e figli, di famiglie, di crescita e cambiamenti, James Gray ci ha già raccontato molte volte, declinando questi temi su più fronti, dai bassifondi newyorchesi fino allo spazio profondo, tra le stelle e l’infinito. È sempre stato ambizioso il cinema di Gray, dalla scrittura alla messa in scena: si vedano, ad esempio, le poche sequenze action di Ad Astra, veri e propri giochi di prestigio. Oppure la grandeur produttiva di Civiltà perduta, inno a un cinema sempre più raro da scovare, forse in via d’estinzione. Adesso, poco dopo un altro splendido film generazionale, Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson (altro autore che sembra aver viaggiato nel tempo), Gray apparentemente arretra sul piano produttivo, parlando (in)direttamente di se stesso, degli anni della sua formazione, di un decennio che è stato sconfitto. Un racconto pre-adolescenziale, sentimentale, ancor più minimalista del dolente e disilluso Two Lovers.

Armageddon Time mette in scena alcuni decisivi spartiacque, connessi tra loro, anche se di dimensioni e con conseguenze di divergenti proporzioni. Il passaggio dalla fanciullezza all’età delle responsabilità per Paul e un percorso non dissimile per la sua famiglia e per il padre, uomo forse inadatto a essere un nuovo punto di riferimento. E, decisamente su un’altra scala, lo spartiacque degli Stati Uniti, la fine di quello che è stato e l’inizio di quello che sarà – anche nel cinema, tra l’altro, con il traumatico tonfo della New Hollywood e il rapido affermarsi di un decennio segnato nel mainstream da un evidente disimpegno etico ed estetico.

La regia che appare così classica, quasi invisibile, si sposa con questo preciso momento storico, con questa chiusura: l’assenza di evidenti virtuosismi, pur in una messa in scena assolutamente perfetta e calibrata, è la chiave di lettura di questo tramonto, è l’ultimo vagito di un modo di essere, di un’eleganza formale che verrà travolta e sconquassata dal rombante cinema degli anni Ottanta. L’eleganza formale è anche il veicolo ideale per la statura morale di Aaron Graff (Hopkins), il nonno di Paul, baluardo di una moralità capace di scavalcare classi sociali e appartenenze – lui è, al contempo, ebreo e giusto per le nazioni, è la pietra di paragone che smaschera le fragilità di Irving (Jeremy Strong), il padre di Paul, e l’esempio da seguire ma forse impossibile da replicare. Perché i tempi, appunto, sono irrimediabilmente cambiati.

Ed è, il nonno di Paul, la bilancia tra aspirazioni e necessità, tra sogni e vita reale, tra fanciullezza ed età adulta. Grazie a una scrittura che abbonda di chiaroscuri, Gray riesce a racchiudere nel microcosmo della famiglia Graff un ampio ventaglio di umanità, di punti di vista, di esperienze: come in una eterna lotta tra il Bene e il Male, il piccolo Paul dovrà capire e capirsi, prendere decisioni non facili per la sua età. Da che parte stare? Potrà davvero essere amico di Johnny Davis (Jaylin Webb), ragazzino afroamericano che sogna la NASA?

Armageddon Time ci mette di fronte al tradimento sistematico dell’american dream, trascinandoci nel nido del capitalismo cannibale, tra le mura linde e pinte e i danarosi computer della Kew-Forest School, la scuola preparatoria foraggiata dai Trump. La scuola dei divoratori di sogni.

Pubblicato su quinlan.it 05/21/2022 di Enrico Azzano

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È da anni che cerchiamo di raccontare la grandezza di James Gray, forse riuscendoci solo in parte. Perché la verità è che ogni suo film ha il potere di smuovere un nucleo di emozioni sepolte, di far venire a galla qualcosa che vorremmo tenere segreto, al riparo dallo sguardo degli altri, persino dalla nostra effettiva comprensione. Qualcosa che riguarda l’incapacità di dare espressione e rendere realtà il flusso dei desideri e delle aspirazioni. La difficile necessità di scendere a patti con i limiti e le mancanze. Quelle ferite della coscienza che si aprono a ogni rinuncia e compromesso, tutte le volte che siamo costretti a misurare la distanza da un modello ideale o immaginario, che siamo presi nel groviglio conflittuale dei rapporti più intimi. Tutto ciò che vorremmo rimuovere e dimenticare.

Quindi, con Gray è come se si spalancasse ogni volta una voragine. E non fa eccezione il suo film all’apparenza più piccolo, semplice, che rinuncia alle avventure di genere e si ritrova quasi costretto nella dittatura dei ricordi e nei canoni del racconto di formazione. Perché non è molto difficile riconoscere gli elementi della autobiografia nella figura dell’undicenne Paul Graff. A cominciare dai capelli rossi dello straordinario protagonista, Banks Repeta. E, ovviamente, dal ritratto di questa complicata famiglia ebrea ucraina, terreno in cui affondano le radici del cinema di Gray, sin dai tempi di Little Odessa. Paul frequenta la sesta in una scuola pubblica del Queens. Ha un’immaginazione vivida, ama il disegno e sogna di diventare un artista. Ma, come direbbe il padre, vive tra le nuvole, sopravvaluta la sua intelligenza e forse non ha nemmeno il talento per riuscire in qualcosa. Magari è davvero lento, come sostengono gli insegnanti, stanchi della sua indisciplina. Si preparano, dunque, decisioni importanti sul suo futuro. E la situazione peggiora quando Paul stringe amicizia con un ragazzo nero, John Davis, dalla vita familiare disastrata.

C’era una volta a New York, 1980… Gray torna alla Babele americana. Che da un lato è l’immagine fondativa dell’immigrant sbarcato a Ellis Island, in cerca della Terra delle opportunità. E dall’altro è l’esperienza particolare di un ragazzino che scopre l’esistenza della Storia nei racconti dei grandi o nel brusio indistinto dell’attualità. La Storia che si infiltra tra gli spazi vuoti dell’immaginazione, fino a divorarne i margini di libertà. Con la verità di cicatrici familiari e di conflitti sociali profondi. La persecuzione e la diaspora, i rapporti complicati tra la comunità ebraica e quella afroamericana, l’essenza razzista e classista di un sistema sociale. Tutto inasprito dallo spirito dei tempi, di Reagan che TV prepara la sua affermazione elettorale, o dei Trump che sostengono economicamente le scuole dell’élite e predicano la filosofia della lotta e dell’affermazione personale. L’Armagideon Time della canzone dei Clash, che ispira il titolo e che riecheggia più volte nell’austera partitura musicale del film. A lot of people won’t get no justice tonight.

Ecco. Se davvero per Gray il punto cruciale è il momento in cui si incrinano i sogni, è ovvio come tutto si rifletta in un discorso politico sul grande sogno d’America. Però sempre a partire da una sensazione di non appartenenza, dalla percezione di un’estraneità profonda, radicale. Ed è proprio sulla comprensione di questa radice, che Gray cerca una riconciliazione con il passato. Disegnando la splendida figura del nonno Aaron (Anthony Hopkins), amorevole punto di riferimento morale. E ancor più del padre Irving (un magnifico Jeremy Strong), anch’egli alla ricerca di riferimenti, di esempi, di una dirittura morale sempre più difficile.

Sarà per questo che anche la forma sembra farsi più delicata e pacificata, cercare un’invisibilità classica che rinunci a quei residui d’eccesso, d’entropia quasi ciminiana dei film precedenti. Addirittura, forse per la prima volta nel cinema di Gray, emergono i riferimenti a un cinema dei padri, come quei continui rimandi a I 400 colpi, che funziona da specie di filtro immaginario al libero flusso dei ricordi personali. Ma non c’è, comunque, un’inquadratura che non abbia una sua necessità di forma e di senso, in cui non emergano tutte le stratificazioni di un pensiero e di una visione. È solo il meraviglioso punto di congiunzione tra la semplicità e la densità. Dove si dissolve la rabbia. Ma resta un senso dolente di frustrazione e disincanto. L’impasse della reazione, la protesta che muore in gola e che può farsi solo gesto. Inutile forse, ma comunque un segno di qualcosa. Della necessità e della difficoltà di essere mensch, di essere umani.

Regia: James Gray

Interpreti: Banks Repeta, Jaylin Webb, Anthony Hopkins, Anne Hathaway, Jeremy Strong, Ryan Sell, Tovah Feldshuh, Marcia Haufrecht, Teddy Coluca, Dane West, Richard Bekins, Landon James Forlenza, John Diehl, Jessica Chastain, Lauren Yaffe, Andrew Polk

Distribuzione: Universal Pictures Italia

Durata: 115′

Origine: USA, 2022

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22 Marzo 2023 di Aldo Spiniello


giovedì 2 marzo 2023

Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo, di Lili Horváth (2020)


Quale straordinario mistero risiede nella nostra mente? È risaputo che la neuroscienza, nonostante gli incredibili passi avanti degli ultimi anni, abbia ancora molteplici incognite riguardo al nostro organo più complesso. Sembra quasi paradossale come si siano raggiunte le conoscenze scientifiche per operare le zone nevralgiche del cervello, curando tumori e aneurismi ma non si possano controllare le quotidiane produzioni psichiche della nostra mente: sogni, emozioni, immaginazione. 

Marta, protagonista del secondo lungometraggio di Lili Horváth (realizzato a cinque anni di distanza da The Wednesday Child), è lo specchio ideale della riflessione operata dalla regista su questa contraddizione scientifica e umana. Lei neurochirurga ungherese trasferita nel New Jersey, per amore decide di ritornare nel suo paese di origine, più precisamente a Budapest. Eppure, l’uomo che ama, l’uomo che durante un convegno negli States l’ha spinta ad abbandonare la propria carriera e ritornare nella città che aveva lasciato dopo la morte dei suoi genitori, sembra non averla mai conosciuta.

 Sono convinta di averti inventato.

 Queste parole di Sylvia Plath, che aprono Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo, riecheggiano come una sequenza di tuoni in aperta campagna nella testa di noi spettatori mentre osserviamo Marta recarsi al suo appuntamento-che-non-c’è, quasi pedinandola, sul Ponte della Libertà, tra le due sponde del Danubio. Il mondo le crolla addosso, la realtà incombe sulla donna che ne rimane pervasa, annichilita. Che l’idillio d’amore vissuto nel New Jersey non sia mai esistito? Lo spettatore non può averne contezza, non l’ha potuto vedere con i propri occhi. Ma può essere certo anche delle immagini che si trova di fronte? 

Lili Horváth segue con grande umanità e delicatezza la sua protagonista, una donna tanto decisa e perentoria in sala operatoria, quanto incerta e smarrita nel fare i conti con la propria vita sentimentale. La frase di apertura della Plath istituisce un rapporto di complice incertezza tra chi osserva e chi è osservato, che trova un tentativo di risoluzione nelle sedute di psicoterapia a cui si sottopone la protagonista. È proprio nel dialogo intrapreso durante queste sedute che lo psicologo incalza Marta, affermando che lei stia cercando di farsi diagnosticare un’inesistente sindrome della personalità multipla. Questo è il cuore della riflessione di Lili Horváth: piuttosto che fare i conti con la realtà preferiamo recitare una drammatica finzione. Come in una commedia di Pirandello è molto più difficile accettare che il proprio amore si sia rivelato un’enorme delusione piuttosto che inscenarsi malati e incapaci di distinguere la realtà dall’immaginazione. A questa azzeccata dinamica meta-cinematografica la cineasta associa una nostalgica e onirica grana della pellicola ma anche una notevole sceneggiatura, che si sviluppa attraverso un gioco delle parti in cui  i “vuoti” lasciati dall’amore mancato di Marta cercano di essere colmati da un intraprendente giovane studente di medicina. Tenera e umanissima radiografia sugli effetti della solitudine sentimentale, il film presentato alla 77° Mostra del Cinema di Venezia e dall’Ungheria per gli Oscar del 2021, arriva a distanza di due anni nelle sale italiane. 

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 2 Marzo 2023 di Giorgio Amadori

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Il secondo lungometraggio della regista ungherese Lili Horvát dallo splendido titolo internazionale Preparations to be together for an unknown period of time (in italiano è: Preparativi per stare insieme un periodo indefinito di tempo) è un film scritto bene e ben interpretato dalla protagonista Natasa Stork che ha trovato – seppure con qualche ritardo – spazio nelle strette maglie della distribuzione italiana dopo essere passato in anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia 2020. Si tratta di un cosiddetto un mind-game-film, nel senso che lo spettatore resta per tutto il film incerto su quale sia lo statuto di realtà delle immagini che vede: sogni, proiezioni, realtà, appunto. E soprattutto: chi vede? chi guarda? C’è un narratore onnisciente oppure tutto, ma proprio tutto è filtrato attraverso la prospettiva della protagonista? 

La storia è assai elementare nella sua eccezionalità: Márta, una neuro-chirurga ungherese con una brillante carriera nel New Jersey conosce durante un convegno negli USA un collega ungherese. È amore a prima vista. Si danno appuntamento qualche mese dopo, alle 5 del pomeriggio, a Budapest, sul Ponte della Libertà, lato Pest. Márta fa armi e bagagli, decisa per quest’amore a mollare tutto e a ritrasferirsi nella sua città natale. Peccato che alle 17 del fatidico giorno János non si presenti affatto. Da quest’evento ha inizio una “quest” che persegue due strade uguali e contrarie, forse cronologicamente sfalsate: la ricerca di lui e un’indagine psicologica, anzi diremmo psichiatrica volta a stabilire se sussistano le premesse diagnostiche per un disturbo della personalità.

Non è difficile per Márta rintracciare János, stiamo pur sempre parlando di un collega, la persona, dunque, per lo meno esiste, peccato che quando lei gli va incontro chiedendogli ragione del mancato appuntamento, lui non la riconosca, sostenga di vederla per la prima volta. Márta non demorde, si fa assumere nello stesso ospedale dove lavora lui, col curriculum che si ritrova la prendono a occhi chiusi (interessante, seppur secondario nel film, questo conflitto di civiltà che è in parte anche un conflitto generazionale, fra il prestigio e il know-how degli USA e l’ospedale universitario, sgarrupato assai, della capitale ungherese). 

Questa prima linea (la ricerca di János) diviene vieppiù ossessiva fino, di fatto, a far di Márta una specie di stalker, senza che tuttavia – volutamente – sia dato giungere a una conclusione univoca (Márta delira? János fa finta di nulla?), anche se verso la fine sembrerebbe palesarsi un possibile happy-end. Né si perviene a una diagnosi a seguito delle reiterate sedute dallo psichiatra.

Lo spettatore viene chiaramente invitato a sospendere l’incredulità, a farsi catturare in quest’atmosfera di incertezza, leggermente inquietante, tenuto conto anche del fatto che la protagonista è a sua volta vittima dei pedinamenti e delle massicce avance di un giovane studente di medicina, il cui padre è stato operato e guarito dalla talentuosa donna. 

Il concetto di sospensione è meravigliosamente esemplato nella scena finale: una carrucola che issa all’ultimo piano di un casamento l’enorme cassa di uno stereo che resta, appunto, lì sospesa, osservata dagli occhi azzurri azzurri di Márta. 

Preparativi per stare insieme un periodo indefinito di tempo (Felkészülés meghatározatlan ideig tartó együttlétre); Regia e sceneggiatura: Lili Horvát; fotografia: Róbert Maly; montaggio: Károly Szalay; interpreti: Natasa Stork (Márta), Viktor Bodó (János), Benett Vilmányi (Alex); produzione: Poste Restante; origine: Ungheria, 2020; durata: 95’; distribuzione: Cineclub Internazionale Distribuzione.

 Pubblicato su close-up.info il 1 marzo 2023 di Matteo Galli