venerdì 31 agosto 2012

Richard Yates, scrittore (1926 –1992)



Mi chiedo spesso quanto senso abbia voler parlare, scrivere di ciò che mi piace o meno, di libri, film piuttosto che di musica del passato o del presente, dal momento che si hanno a disposizione decine o centinaia di siti o blog, di riviste, on-line o meno, da cui reperire informazioni e critiche ben più argute. La risposta è che sandblow è nato senza alcuna velleità autoriale, ma solo uno spazio su cui scrivere di getto le sensazioni generate da quello che si legge o si ascolta, con la speranza di regalare, e spero anche ricevere, degli input, innescare curiosità. Altrimenti che cazzo di senso avrebbe ?
Saltando volutamente i soliti riferimenti biografici, Richard Yates è stato fortunatamente riscoperto, non molti anni fa, negli Usa grazie alla ristampa di alcuni dei suoi libri, tra i quali il più conosciuto, e anche il primo che ha scritto, è “Revolutionary Road” del 1961, da cui il film di Sam Mendes, con una sceneggiatura perfetta e, cosa rarissima, fedelissima allo spirito duro e amaro del romanzo. Riscoperto come uno dei segreti meglio conservati della letteratura americana, come John Updike e John Cheever, ebbe la sfortuna, come altri autori del periodo (John Fante è un altro lampante esempio), di ricevere i maggiori elogi proprio per l’esordio, e vivendo il periodo successivo con la propria fama  destinata praticamente a ridursi, morendo nel  quasi totale anonimato.
In Italia ci ha pensato Minimum Fax ad occuparsi, fortunatamente, di ri-stampare i libri di Yates, un autore che mi ha coinvolto in ogni pagina di ciò che ho letto, da “Disturbo della quiete pubblica”, “Una buona scuola” , “Easter Parade” a “Undici solitudini”. 


Con l'azzardo della dotta citazione, ma pronto a ricevere bacchettate sulle dita nel caso di errore della citazione stessa, Yates soddisfa quello che Kafka reputava, se non ricordo male, il requisito essenziale della grande scrittura, ovvero qualcosa che suonava, più o meno, come il “dobbiamo leggere solo il tipo di libri che ci feriscono come una pugnalata”; molti dei suoi personaggi e delle loro vite sono collocati e destinati, a volte in modo anche ironico, a vivere il periodo mitizzato dell’American Way of Life come fonte di delusione e autodistruzione, ritrovandosi nel circolo vizioso di un anonimato generato proprio da un finto benessere, materiale ed emotivo, per tanti anni sbandierato negli Usa, ma quanto mai diventato fenomeno mondiale. Questo rende ancora più attuale Yates (so già che qualcuno sta pensando che lo sono anche Checov e Dostoevskij), il cui malessere della middle-class americana degli anni ’60 ha delle valenze sempre attuali, filtrate da una scrittura ad un primo impatto molto scorrevole e semplice; l'apertura di “Easter Parade”, un romanzo che, da solo, può inserire lo scrittore tra i più valenti del 20 ° secolo, ne è il perfetto esempio e recita, più o meno: "Nessuna delle sorelle Grimes avrebbe avuto una vita felice, e guardando indietro è sempre sembrato che il problema sia iniziato con il divorzio dei loro genitori.”
La grande capacità Yates è quella della perfetta identificazione con i suoi personaggi, quasi a tracciarne il proprio percorso futuro, di persone mediocri che evadono la verità fino a quando questa ricade ineluttabile su di loro, come accade alla coppia degli Wheeler di “Revolutionary Road”, ambiziosa di un generale desiderio di sicurezza ad ogni costo, allo stesso tempo vogliosa ma incapace di sfuggire alla conformità;  l’idea di utilizzare come cartina tornasole delle debolezze degli Wheeler, rivolgendosi all’America di Eisenhower e McCarthy dell’epoca, un malato psichiatrico, una persona emarginata dal quel mondo finto e arroccato su se stesso, è semplicemente un altro tocco geniale.
Non c’è, a mio sindacabile giudizio, nella biografia di Yates un particolare libro da consigliare per chi non lo conosce, dato che ogni personaggio che ho incontrato nelle sue pagine mi ha sempre coinvolto e in alcuni casi divertito, da “Cold Spring Harbor” a “Bugiardi e innamorati”, al citato e davvero grande “Easter Parade”. Il link http://www.minimumfax.com/ fornisce, oltre ai titoli disponibili, materiale interessante per un approfondimento sull’autore, così come sono ottime alcune delle introduzioni-saggi presenti nei libri.
 



R. De Niro e la periferia. "Being Flynn" (2012) di Paul Weitz.

http://www.youtube.com/watch?v=NHZfQDgkqiM



“Uno dei tre grandi scrittori che l'America ha prodotto: Mark Twain, JD Salinger e Jonathan Flynn”.
Si apre con questa battuta “Being Flynn”(2012), inedito per ora in Italia e probabilmente destinato al mercato dell’home-video/pay-tv, un film ancora sul tema del difficile rapporto genitori-figli, tratto dal libro autobiografico di Nick Flynn, “Un'altra notte di cazzate in questo schifo di città” (Mondadori).
Lo scrittore-regista Paul Weitz, candidato qualche anno fa all’Oscar per la sceneggiatura non originale di “About a Boy” dal romanzo di Nick Hornby, rivolge il suo sguardo al duro rapporto  tra  Nick (Paul Dano, più che una promessa, già visto in diversi contesti come “Little Miss Sunshine” e il capolavoro “Il Petroliere /There Will Be Blood” di  Paul Thomas Anderson), ed il padre Jonathan (Robert De Niro), uomo eccentrico, scrittore alcolizzato - autore della battuta del prologo - e padre a lungo assente, con il quale rientra in  contatto in modo imprevisto; nonostante la dolorosa sensazione mai sopita  per la perdita della madre (interpretata in flashback da Julianne Moore) incominci a essere lenita da un nuovo rapporto con Denise (Olivia Thirlby), l'ultima persona che Nick vuole vedere è suo padre. Jonathan ha trascorso la maggior parte della sua vita in lavori saltuari e in prigione, dove inizia un rapporto epistolare senza risposta pieno di consigli per il suo giovane figlio, consigli su come essere uno scrittore, non sapendo nemmeno se Nick lo vuole essere o ha le doti per diventarlo,  non sapendo praticamente nulla di lui. Un uomo che definisce se stesso uno dei più grandi autori americani, senza che nessuno gli abbia pubblicato nulla o visto il suo capolavoro letterario di cui si vanta sempre, colpevole di aver abbondonato la famiglia per il proprio egoismo, alla ricerca di sogni mai realizzati.
Il plot non ovviamente originale, ambientato ancora una volta nei sobborghi di periferia americani, ricordando un altro film autobiografico sullo stesso tema come “Guida per riconoscere i tuoi santi” di Dito Montiel (anch'esso scrittore passato alla regia), viene sorretto dall’eccellente interpretazione del duo Dano-De Niro, ottimi interpreti del coraggio o delle proprie lotte interiori, e concedetemelo, delle seghe mentali che spesso ci si trova ad affrontare prima di poter essere liberi di abbracciare o tornare ad abbracciare un’altra persona
Incespica purtroppo nella regia piatta, anonima e tipicamente da comedy/drama hollywoodiana di Weitz, autore anche del famigerato “American Pie” o di altri film da dimenticare come “In good company” o “Vi presento i nostri”.
Non ho avuto modo di leggere il libro di Flynn, dove i nodi irrisolti del rapporto che può condizionare una vita, come quello tra genitore e figlio, hanno sollecitato vari elogi per la descrizione della devastante condizione mentale che l’autore racconta: la crescita e l’adolescenza senza la guida delle principali figure parentali, il vedere precipitare il proprio padre nell’alcolismo, il crearsi il proprio rifugio nelle droghe. Temi già affrontati, visti e letti innumerevoli volte, ma che hanno portato comunque a  “Un'altra notte di cazzate in questo schifo di città (Another Bullshit Night in Suck City)” numerosi elogi di varie critiche letterarie.
Forse il caso di avvicinarsi al libro.


mercoledì 29 agosto 2012

un disco non propriamente estivo... Dead Can Dance "Anastasis" (2012)


http://www.youtube.com/watch?v=BNxa0odpCJU


Il ritorno sulle scene musicali dei Dead Can Dance mi ha riportato, per qualche momento, a molti anni fa, ai ricordi di una Genova che ora mi sembra così lontana, una Genova in cui anche un ventenne affamato di musica come il sottoscritto, riusciva ad ascoltare i propri miti musicali dell’epoca, una Genova che viveva di luoghi di aggregazione, che non fossero solo anonimi bar da aperitivo, luoghi come lo Psyco, il teatro Albatros, il cinema-teatro Verdi, il Dlf. Una Genova che raccoglieva, a seconda dell’evento, decine o centinaia di giovanie entusiasti, e non solo, che aspettavano con trepidazione di vedere ed ascoltare sul palco della propria città gruppi e nomi d'Oltremanica, d'oltreoceano,  assurti in quel periodo ad icone musicali vere e proprie, senza dover per forza macinare chilometri per andare a Milano o in altre città della penisola.
Capita spesso, con chi ha condiviso le stesse passioni, di ricordare quella Genova, che vista oggi sembra un’altra città per chi, come il sottoscritto, ormai ha raggiunto e passato anagraficamente i tanto vituperati ‘anta, quindi anche a chi ha meno voglia di vivere la notte o ha voglia di viverla in altri modi. Una città in cui oggi non esistono più spazi di quel genere, teatri piuttosto che cineclub, qualcuno chiuso, altri trasformati in tristi supermarket o in luoghi senza identità. Una città, che parlando oggi con chi opera nell’ambito della cultura, con chi tenta o vuole proporre alternative alla sterilità del panorama musicale, teatrale, cinematografico odierno, non trova più spazi dove proporsi e proporre, ma neanche disponibilità da parte del pubblico, mosso da quello spirito che animava le notti genovesi degli ’80 e dei ’90, quello spirito che si intravede in un numero sempre più ridotto di persone, cui sembra mancare  l’entusiasmo che leggevo dipinto sui volti di chi incontravo a quegli eventi. Dal momento che questa vuole essere una segnalazione di un’uscita discografica, scendo dall’eventuale piedistallo sul quale mi sono appoggiato per qualche istante, non volendo assolutamente criticare ne pubblico od operatori del settore. Persone/personaggi che oggi vedo personalmente muoversi, con fatica e abnegazione, nel versante della cultura, sia per proporre che per ricevere; si sa, quando si parla di ricordi, di miti generazionali, c’è sempre una tendenza a denigrare l’attuale e voler riportare in auge un passato assurto a propria personale  “epoca”. Non è questa l’intenzione, semmai solo quella di voler, ancora una volta, ricordare quell’ Officina dei Sogni come propulsore di creatività ed emozioni.
Questo nostalgico prologo è dovuto al ricordo di un bellissimo concerto che i Dead Can Dance tennero a Genova, se ben ricordo, verso il finire degli anni ’80 al teatro Verdi di Sestri Ponente, con un mio conoscente che si presentò al concerto dotato di un enorme e bellissimo mazzo di fiori che donò, emozionato, a Lisa Gerrard, stupenda voce femminile del duo intestato anche a Brendan Perry. Un’ensemble che, erroneamente inserito nel filone dark britannico imperante in quegli anni, pubblicati  da un’etichetta di culto del periodo come la 4AD (cercatevi le stupende copertine o rispolverate il catalogo tra nomi come This Mortal Coil, Cocteau Twins o Modern English) univa tappeti sonori di folk gaelico, canti gregoriani, mantra del Medio Oriente e inserti classici. Premesso che la discografia dei Dead Can Dance è facilmente reperibile digitando la tastiera del vostro laptop o pc, il nuovo album “Anastasis” , a distanza di ben 16 anni dall’ultimo disco, non aggiunge purtroppo nulla di nuovo rispetto a ottimi titoli quali “Garden of the Arcane Delights” dell’84 o “Within the Realm of a Dying Sun” dell’87.
Forse l’estate non è il periodo più indicato per avvicinarsi a questo tipo di sonorità, ma ad un primo ascolto “Anastasis” sembra risentire, e non positivamente, delle esperienze successive e individuali del duo, anche come autori di colonne sonore per film di successo come “Il Gladiatore” di R. Scott, in cui la magia di quei suoni eterei, esploratori per alcuni versi oscuri di certa world music, si sia smarrita, non solo per cercare di arrivare al grande pubblico, ma molto più semplicemente si sia inaridita  ed assottigliata la vena creativa. Rimangono intatte,  e qualche volta emozionanti, le orchestrazione miscelate con i ritmi del Nord Africa, così come il canto della Gerrard è potente ed evocativo, ma è difficile,  personalmente,  sentire che tutto funzioni veramente a livello creativo ed emozionale.
La musica, si sa, è anche un fattore emotivo, e spesso si è portati a cambiare idea a seconda del proprio mood, e riascoltare “Anastasis” tra qualche mese potrebbe farmi/farci cambiare idea.

…se vogliamo ancora definirla techno… Petar Dundov - Ideas From The Pond (2012)



Avrei voluto iniziare questo post non dilungandomi (gesto evidentemente non riuscito) su cosa è, cosa è stata e cosa è oggi la musica techno, i suoi rapporti con eventi come le tanto decantate “summer of love”, la “club culture”, la stretta connessione con l’utilizzo di droghe – elemento mai assente nel mondo musicale, del jazz come del rock - e la ricerca dello sballo. Personalmente, alcuni anni fa, è stata il classico fulmine a ciel sereno, qualcosa di dirompente, una lama affilata che squarciava - seppur in diversi contesti e distanti tra loro, con le stesse vibrazioni attinenti al  punk, alla new wave - l’asettico panorama della musica pop e non solo, nonostante lo scetticismo di certa critica snobistica, che la relegava, come per anni è stato fatto per la musica black, a sola pura musica da ballo, non indagando sui luoghi, sul periodo, sulla necessità dei suoi precursori di creare, o ricreare, qualcosa di diverso, generato dall’urgenza di comunicare con un linguaggio nuovo, che scoppiò a Detroit a metà degli anni '80.
Per chi fosse curioso di approfondire un genere che ha comunque lasciato un segno indelebile nei padiglioni auricolari degli ascoltatori più curiosi, lascio che a raccontarlo siano amici come il sito www.frequencies.it, libri come “Mondo Techno” (2006, ediz. Sconcerto) di Andrea Benedetti, “Generation Ecstasy” tradotto in Italiano in un infelice e ruffiano  “Generazione Ballo/Sballo” (Arcana Ediz., 2000) di uno dei più importanti critici musicali quali Simon Reynolds – per gli appassionati consigliatissimi i suoi titoli pubblicati da ISBN, quali “Post-Punk”, “Hip-Hop Rock” e “Retromania” – il dvd “High Tech Soul: The Creation of Techno Music” (2006), un ottimo e anche divertente documentario che prova a tracciare la storia della techno music, della stessa Detroit, con interviste e filmati a pionieri del genere quali Juan Atkins, Kevin Saunderson, Derrick May, Jeff Mills, Richie Hawtin e molti altri.
Il mio pensiero su cosa sia diventata la techno oggi, piuttosto che l’house, è assai offuscato e sicuramente non positivo, vuoi per “raggiunti limiti di età”, che vogliono dire allontananza dai club e dalle notti danzerecce, dai festival dove regna sovrana, deformata da luoghi-baracconi quali Ibiza, piuttosto che altre famose località di villeggiatura, dove le discoteche sono diventate vere e proprie fabbriche di denaro, che alternano numi tutelari del genere a personaggi assurti al ruolo di star, che definire artisti suona offensivo. L’attualità vede oggi una produzione enorme di generi e sotto-generi di suoni elettronici, di brani forgiati in tempi rapidissimi, che riempono le charts di  riviste e siti dedicati, Beatport su tutti, suonati ma appena ascoltati da centinaia di pseudo-dj. Dj distanti anni luce dalla ricerca e dal divertimento che animava i loro predecessori, rimasti oggi icone di un universo musicale che li spinge sì a restare sui palcoscenici mondiali, ma per molti di essi senza quella carica dirompente che li rese punti di riferimento per un suono che ha comunque regalato innovazione e gioia al proprio pubblico.
Come nell’arte tutta capita, fortunatamente, di imbattersi in produzioni di alta qualità, di rinnovamento (un importante capitolo a parte da affrontare sarebbe il crossover che musicisti elettronici coniugano con il repertorio e compositori classici, dalle riletture per piano di Francesco Tristano di brani come “Strings of Life” di D. May , all’ensemble di Craig e Moritz Von Oswald con un’orchestra da camera che si intreccia con suoni sintetici andando a toccare rielaborazioni di numi tutelari come Luciano Berio, alla collana “ReComposed” dell’etichetta per eccellenza della musica classica Deutsche Grammophon,  che affida addirittura  il suo sacro catalogo e composizioni di Maurice Ravel e Mussorgsky a dj o produttori elettronici quali Matthew Herbert, Jimi Tenor e il già citato Carl Graig, atto visto come una sorta di sacrilegio, piuttosto che di rottura di schemi obsoleti, a seconda degli ascoltatori) come  poter attirare anche un pubblico non avezzo a queste sonorità, produzioni che fanno tirare un sospiro di sollievo nell’asfittico mondo della musica elettronica. Una di queste è il nuovo album del croato Petar Dundov, un disco distante dal dancefloor, un vero antidoto per chi pensa che la musica techno o elettronica sia noiosa, insensata, ripetitiva; anche un disco che guarda con intelligenza al passato, a precursori come Klaus Schulze, i Tangerine Dream, alla più lieve marzialità dei primi Kraftwerk, alle sonorità ambientali di Brian Eno, ai ritmi di Giorgio Moroder ( “I Feel Love” e Donna Summer), fino a certa interessante “pomposità” di Jean-Michel Jarre. So che qualche purista potrà resterà inorridito per alcuni dei suddetti artisti, ma guardare al passato è un normalissimo percorso musicale, fenomeno assolutamente naturale per continuare ad ascoltare rock, jazz, piuttosto che musica contemporanea.   
Dopo un singolo di successo come “Oasis”, anch’esso stranamente assai distante dal noioso 4/4 senza idea degli attuali inni house o techno oggi reperibili in un numero indefinito, ma che ha fatto di Dundov un nome di rilievo anche nei più importanti festival musicali del genere,  “Ideas From The Pond” – uscito sull’etichetta Music Man di un altro dei grandi “vecchi” produttori del genere  come Robert Hood -  riesce ad ampliare gli orizzonti di ciò che ci si dovrebbe aspettare dal genere. Un suono sempre in espansione,  che aumenta di intensità, rompendo finalmente i confini della ristrettezza della pista da ballo, concedendo il ritmo per i piedi e la testa praticamente solo in “Brownian interplay”, cercando di comunicare emozioni e tappeti sonori adatti ad un ascolto gradevole e profondo, attraverso il brano omonimo o “Together”, utilizzando suoni che riportano ai sintetizzatori analogici di oltre vent’anni fa, come ai ritmi “spezzati” o leggiadri di numeri uno, seppur non nati negli anni ’00, come LFO, Sabres Of Paradise e Aphex Twin. Una ipotetica colonna sonora adatta sia per un film di fantascienza come per un  percorso sonoro di una mostra.
Mi auguro e vi auguro un buon ascolto, sperando di aver innescato una sana curiosità su tanti dei nomi citati, ascoltabili e visibili su YouTube, piuttosto che nell’infinito universo delle web-radio.