lunedì 17 ottobre 2016

Pablo Larrain: Why the Movie ‘Neruda’ Is an ‘Anti-Bio’



“…biopics are so dangerous, I think, and I have enjoyed very few of them. Believe me, I read four biographies, I read his autobiography; it’s a beautiful book. I talked to people who met him, I read hundreds of essays on his life and I made a movie that’s called “Neruda.”

And I can tell you right now that I have no idea who he was because he’s ungrabbable, impossible to put in a box. You can make 100 movies and you would never be able to do that. So, once you understand that, it gives you a lot of freedom, and that’s why we say that this is a Nerudian movie because for us — in my country and in our language — Neruda was a man who created a cosmos that is so complex and deep.”


lunedì 9 maggio 2016

Perle (semi)sconosciute di rock underground tedesco anni '70


YATHA SIDHRA
 A MEDITATION MASS

A Meditation Mass esce nel '74 edito dalla Brain (una delle label fondamentali che in quel periodo stampava dischi di krautrock) con una splendida copertina gatefold e il titolo del disco che si legge dal die-cut, che lascia intravedere un mandala tibetano disegnato all'interno. I fratelli Fichter lavoravano da un pò ad un brano lungo, che presto si trasforma in una suite che da origine al loro unico disco e che combina suono e ricerca spirituale, a tal punto che le performance dal vivo dei Nostri erano esperimenti di meditazione sonora e preghiera collettiva. La suite è divisa in quattro parti e il risultato è un continuum di straordinaria eleganza e bellezza. Gli arpeggi di chitarra e le pulsazioni cosmiche del Moog, le delicate percussioni e gli angelici spifferi del flauto ci portano in uno stato di trance consapevole contornati da incensi e candele. Malgrado questo (e come succede spesso in molti dischi underground tedesco dell'epoca) il variare di stili, umori e tendenze è presente anche nei Yatha Sidhra, che non ci risparmiano accenni tenui di jazz e riff di chitarra psichedelica. Va infine segnalata la voce, lo strumento tra gli strumenti, poca ma sufficiente per sussurrare al cosmo  le emozioni profonde dell'uomo.

mercoledì 2 marzo 2016

Il Club, di Pablo Larrain

Il Cinema di Pablo Larrain è dolorosamente necessario. Ogni disquisizione rischia di essere superflua, e la recensione potrebbe concludersi qui, perché di superfluo, nei film di Larrain, non c’è nulla.
Il Club è un’esperienza intensa, dura, una serie di uppercut alla morale, allo stomaco e a certo cinema di indagine  stile Spotlight, che ne ricalca, diversamente, il tema; una spietata, complessa, messa in scena sugli abusi della chiesa cattolica,  come un nuovo punto di vista da cui partire per esplorare i temi cari a Larrain: repressione della liberta, il senso di colpa non di un singolo, ma di un’intera nazione.
Quattro preti penitenti, allontanati dalla Chiesa per atti di pedofilia e non solo, e suor Monica, con il compito di sorvegliante, vivono sotto l’egida di una  punizione spirituale, in una piccola casa nella cittadina costiera cilena di La Boca. Mantenendo le distanze dalla gente del posto, l’unica distrazione è – geniale intuizione - l’addestramento di un levriero da corsa, mentre la ripetizione della quotidianità si dipana tra preghiere, pasti e televisione, in una sorta di idillio stranamente tranquillo: immagini senza parole di tramonti, le onde e le cene comuni, quasi un accenno al miglior Terrence Malick, sottolineato dalle splendide sinfonie di Arvo Part. I delicati fili della comunità vengono spezzati dall’arrivo di un altro prete, anche lui colpevole di pedofilia e subito accusato da Sandokan, un clochard del luogo, che gridandogli in faccia ciò che gli ha fatto quand’era ancora piccolo, lo porta al suicidio. Ad indagare sull’accaduto, giunge sul luogo padre Garcia, gesuita e psicologo, squarciando ulteriormente l’apparente stabilità del club.
Dopo le esplorazioni del Cile sotto la dittatura militare di Pinochet (Tony Manero, Post Mortem e Noi),  la feroce voce critica - e politica - di Larrain passa attraverso i dialoghi/interrogatori tra Garcia e gli altri sacerdoti, con il  derelitto Sandokan come la personificazione di tutte le vittime (in)consapevoli della Chiesa, fino ad arrivare ad una sorta di notte dei cristalli, in una durissima sequenza mozzafiato a suggerire che anche scheggiata o indebolita, la Chiesa, a rappresentare la repressione e il potere, è disposta, con ogni mezzo, a proteggere se stessa.
Un’opera che, stando alle parole del regista, è anche “un manifesto contro l'egemonia dell’alta definizione. Oggi tutti i film si vedono nello stesso modo e sembrano visivamente tutti uguali. Per rendere così plumbee le immagini, abbiamo dovuto utilizzare un processo chimico a base di acqua sulla pellicola”.
Fondamentale.