martedì 28 dicembre 2021

2021 Rewind

Tommaso (Abel Ferrara)
For All Mankind (Apple Tv - st. 1 e 2)
Druk - Un Altro Giro (Thomas Vinterberg)
Black Country, New Road - For the first time
Pino Palladino & Blake Mills - Notes with attachements
Judas & The Black Messiah (Shaka King)
Better Days (Derek Tsang)
Wu Ming 1 - La Q di Qomplotto (Ed. Alegre)
Bad Luck Banging or Loony Porn (Radu Jade)
Gloria Mundi (Robert Guediguian)
Bryan Washington - Promesse (NN Edit.)
Mare of Eastown (HBO miniserie)
Madre (Bong Joon-ho)
Madlib - Sound Ancestors
Estate '85 (Francois Ozon)
Michele Vaccari - Urla sempre, Primavera (NN Ed.)
The Suicide Squad - Missione Suicida (James Gunn)
Benjamin Labatut - Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi)
Marx può aspettare (Marco Bellocchio)
Paolo Angeli - Jar'a
La Ferrovia Sotteranea (Prime - st.1)
Floating Points/Pharoah Sanders/London Symphony Orchestra - Promises
Hervè Le Tellier - L'Anomalia (La Nave di Teseo)
Franco "Bifo" Berardi - E:La congiunzione (Not Nero Ed.)
Summer Of Soul...or When the Revolution Could Not Be Televised (Ahmir "Questlove" Thompson)
Il Collezionista di Carte (Paul Schrader)
Dune (Dennis Villeneuve)
Qui rido io (Mario Martone)
Moor Mother - Black Encyclopedia of The Air
Oyvind Torseter - Mule Boy e il Troll dal cuore strappato (Beisler Ediz.)
Drive My Car (Hamaguchi Ryusuke)
Scene da un matrimonio (HBO miniserie)
Petite Maman (Céline Sciamma)
Enrico Ghezzi - L'Acquario di quello che manca (La Nave di Teseo)
Mark Lanegan - Sing backwards and weep (Hank Off.)
Little Simz - Sometimes I might be introverse
BAC Nord (Cèdric Jimenez)
Daniel Bachman - Axacan
Low - Hey What
France (Bruno Dumont)
Mark Fisher - Scegli le tue armi. Scritti sulla Musica (Minimum Fax)
Days (Tsai Ming-liang)
Lamb (Valdimar Joàhannsonn)
Annette (Leos Carax)
Sir Gawain e Il Cavaliere Verde (David Lowery)
The Beatles: Get Back (Peter Jackson - Disney+)
Benedetta (Paul Verhoeven)
Jonathan Franzen - Crossroads (Einaudi)
In The Earth (Ben Weathley)
Irreversible Entanglements - Open the Gate
Zero and Ones (Abel Ferrara)
L'Rain - Fatigue
West Side Story (Steven Spielberg) 
DAU. Natasha (Ilya Khrzhanovsky)
Belfast (Kenneth Branagh)
Yellowstone (St.1-4 Paramount)

martedì 21 dicembre 2021

West Side Story di Steven Spielberg

Lo avevano già fatto Coppola (Sulle ali dell’arcobaleno, Un sogno lungo un giorno), Scorsese (New York, New York), De Palma (Il fantasma del palcoscenico), Altman (Nashville, Radio America). Lo ha fatto tutta la vita Demme. Del gruppo dei più grandi cineasti emersi tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, all’appello mancava solo Spielberg. Ma West Side Story è davvero il suo primo musical? Forse lo è integralmente se guardiamo alle forme classiche del genere a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Ma tranne Scorsese e Coppola, negli altri casi ci sono travolgenti imperfezioni, contaminazioni. Tra Broadway e il film-concerto, tra il palcoscenico e la strada. Il cinema di Spielberg in passato è stato pieno di impurità musical: la comunicazione tra gli umani e gli extraterrestri di Incontri ravvicinati del terzo tipo, i movimenti danzanti di Harrison Ford nei quattro film su Indiana Jones e di Leonardo DiCaprio in Prova a prendermi, i sogni impossibili con le luci dell’aldilà di Always.

West Side Story ha il look del remake fedelissimo. In parte lo è, in parte no. E in parte Spielberg se ne è impossessato con una grandissima, incontrollata, immensa dichiarazoone d’amore al genere. Come nel musical del 1961 dell’accoppiata Robert Wise-Jerome Robbins che ha avuto un grandissimo successo e ha vinto 10 Oscar che è arrivato poco prima della grande crisi del genere e l’arrivo della New Hollywood, al centro della vicenda si frontaggiano sempre due bande rivali per il controllo del territorio. Da una parte ci sono i Jets, immigrati europei di seconda generazione. Dall’altra gli Sharks, un gruppo di portoricani arrivati a New York di recente. Mentre i quartieri della città sono in piena trasformazione urbanistica, ad alimentare ancora di più lo scontro tra le due gang c’è l’incontro tra Tony e Maria. Lui è il co-fondatore dei Jets da cui si è allontanato dopo essere stato in carcere e ora lavora da Doc’s, il negozio gestito da Valentina. Lei è la sorella di Bernardo, aspirante pugile e leader degli Sharks che ha già pensato di accasarla con il timido Chino da cui non è attratta. Si vedono al ballo e tra loro scatta subito il colpo di fulmine. Come Romeo e Giulietta, il loro è subito un amore contrastato. Ma si amano alla follia e faranno di tutto per raggiungere la felicità.

West Side Story è un film sulla memoria. Del cinema, dello stesso Spielberg. Comincia come il musical del 1961 con l’inquadratura della metropoli dall’alto. Stavolta c’è l’immagine delle gru e gli edifici in demolizioni in uno spazio dove stanno per sorgere nuovi quartieri. È il 1957. Un altro viaggio nel tempo, come quelli che hanno segnato gran parte del suo cinema, da 1941. Allarme ad Hollywood a Il colore viola, da L’impero del sole, a Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan e Munich. Ma è anche un viaggio nella memoria di Spielberg, da quando aveva ascoltato per la prima volta le canzoni sul disco quando il regista aveva 10 anni. “West Side Story – ha detto il regista-  è stato il primo album di musica popolare entrato in casa. Non riuscivo a smettere di ascoltarlo”

Gli occhi di Spielberg oggi sono ancora quelli di un ragazzino incantato. Il musical di Broadway del 1957 viene rivisto attraverso i suoi occhi con la stessa sorpresa, lo stesso incanto dei protagonisti di E.T. davanti all’alieno o di Jurassic Park e Il mondo perduto davanti ai dinosauri. La sua versione è insieme un melodramma disperato e un film politico che racconta molto dell’America di oggi sull’immigrazione dell’era Trump e sulle violenze della polizia. Innanzitutto, contrariamente al film del 1961, ci sono molti giovani attori di origine ispanica. Poi  c’è il personaggio transessuale di Anybodys interpretato da Iris Menas. Infine c’è un nuovo numero musical, La Borinqueña, che è l’inno portoricano scritto nel 19° secolo dopo una delle prime grandi rivolte popolari per l’indipendenza del paese nel 1868. Ma è anche, e soprattutto, una danza, di suoni, musica e colori, dove la fotografia di Janusz Kaminski crea uno spettacolo pirotecnico tra riflessi sul pavimento, le ombre sul lenzuolo nel bacio tra Bernardo e Anita (il cinema dietro lo schermo), le luci che si riflettono nell’acqua o l’immagine di Maria (bravissima Rachel Zegler, al suo primo film, nel ruolo che è stato di Natalie Wood) davanti allo specchio mentre si mette il rossetto.

West Side Story è pura magia. Violento ed emozionante. C’è la versione originale con tutto il cuore di Spielberg con la passione che, nei celebri numeri Maria e Tonight – con Tony che si arrampica sul balcone e tutta la seduzione e la passione sono filmati con i volti separati dalla griglia della scala che li tiene separati – divampa e diventa incontrollabile. Spielberg mostra lo stupro e la morte come in un film di guerra, dialoga continuamente con il film precedente anche con il il corpo di Rita Moreno che nel film di Wise-Robbins era stata premiata come miglior attrice non protagonista per il personaggio di Anita e qui invece interpreta Valentina, la proprietaria del negozio dove lavora Tony che sostituisce il personaggio di Doc nella versione del 1961. Ma poi lascia riemergere la storia dall’ombra come Lincoln, ritrova l’euforia del genere con i cocomeri sganciati dal camion dove gli oggetti giocano e ballano come in un film di Gene Kelly e Stanley Donen.

I protagonisti potrebbero uscire dallo schermo e ballare con noi, a cominciare da Ansel Elgort che ci sposta da una direzione all’altra come al volante di Baby Driver.  Tra ombra e luce, desiderio e malinconia, West Side Story è uno dei più bei musical di sempre. Non è più un omaggio al genere, non si tratta di nessuna esercitazione. Sono tutti i sogni di Spielberg bambino che si mescolano con quelli dei suoi personaggi bambini. Così il cinema più serio e politico del regista e quello più giocoso e infantile trovano stavolta l’abbraccio più bello.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 20 Dicembre 2021 di Simone Emiliani

 


lunedì 13 dicembre 2021

Zero And Ones di Abel Ferrara, 2021

Edoardo Bruno fu il primo a cogliere l’anima nascosta da profezia di quel discusso documentario di Ferrara (Quanto al futuro, ascolti: i suoi figli fascisti veleggeranno verso i mondi della Nuova Preistoria), e chissà cosa direbbe oggi guardando Zeros and Ones, un film che è forse il vero punto d’arrivo di una parabola che nasce proprio tra le maglie delle riprese di Piazza Vittorio (qualcuno dirà anche da molto prima, dal New Rose Hotel almeno)… la stazione Termini che in quel film era costeggiata dalle interviste di fronte alla Caritas e tra le palazzine di via Giolitti (si trattava già di un ritorno sui luoghi del set di Pasolini), pochi anni dopo sarebbe diventata il palco della crocifissione finale di Tommaso – come in quella tradizione tutta italiana di “appunti per un film su”, se l’opera con Dafoe “abita” le immagini del doc precedente, Zeros and Ones (Premio per la Migliore Regia a Locarno 74) riparte dalle peregrinazioni per la Roma notturna sotto lockdown che facevano capolino nell’incredibile Sportin’ Life, e di quel progetto riprende la giovane squadra a supporto, il d.o.p. Sean Price Williams e il montatore Leonardo Daniel Bianchi.

Dai binari di quella stessa stazione Termini fa la sua comparsa nell’incipit Ethan Hawke (incrociato da Abel ai tempi di Chelsea on the rocks), rinnovando da subito la capacità di Ferrara di astrarre i luoghi quotidiani di Roma, e la loro familiarità (andrebbe, Zeros and Ones, mostrato in contrasto a certe “indagini” sull’umanità di Termini che mietono views su youtube negli ultimi tempi, condotte da volti del variopinto mondo del fitness romano…). E’ una notte qualsiasi nei corridoi deserti e sempre inquietanti della stazione dopo una certa ora, e allo stesso tempo non lo è, i soldati di pattuglia sembrano più minacciosi del solito, e le squadre che sanificano i tornelli sembrano provenire davvero dal futuro. Più avanti, il nostro protagonista vede o sogna soltanto di vedere al binocolo la cupola del Vaticano e di Castel Sant’Angelo saltare in aria?

In questa notte infinita in cui è piombata la città, e il suo cuore nero dell’Esquilino, non è più possibile che alcuna verità venga restituita dai mille video sgranati di smartphone, tablet, obiettivi di drone e videochiamate, che inframmezzano il film: Hawke cercherà di sventare questo attentato alla santa sede muovendosi tra le anime sonnambule di un gioco di spie che attraversa i cospiratori russi negli hotel di lusso, gli smanettoni cinesi nei negozietti di riparazioni di cellulari, le palestre improvvisate nei garage, le chiese e le moschee, fino ad infilarsi nei giacigli di cartone dei senzatetto, sotto i porticati. Le domande sono sempre e soltanto due, quelle fondamentali: where? e when?

Difficile trovare una visione più disperata del punto in cui è piombata l’umanità in questa epoca-Covid: il finale porta con sé una carica di ambiguità destinata a restare – in questo risveglio alla normalità di Colle Oppio mentre albeggia, le persone si comportano come nulla fosse perché abbiamo vissuto tutti un incubo lungo una notte intera, o perché ignare del pericolo dell’esercito che li ha già tutti nel mirino, pronto a far fuoco? E’ davvero una bambina che passeggia per strada, sorridente e saltellante, il nuovo nemico pubblico numero uno di questo Stato?

Zeros and Ones è un film genuinamente cyberpunk (già dal titolo “in codice binario”…), che somiglia al Ferrara di fine anni ’90/primi 2000, e anche un po’ a certi esperimenti sci-fi/spionistici di Olivier Assayas del periodo, tra Demonlover e Boarding Gate: come in Blackout di Ferrara, la questione centrale riguarda lo sdoppiamento di personalità, e il raddoppio esponenziale, da curva di Moore, delle realtà possibili: il “profeta” di questa caduta del Vaticano (un anarchico? un comunista? un rivoluzionario…) è il fratello gemello del protagonista, interpretato sempre da Hawke (come il Dafoe “moltiplicato” di Siberia), e il video dell’interrogatorio in cui viene torchiato da Valerio Mastandrea (!) si trasforma in un monologo in cui il personaggio tiene insieme il suo sermone con citazioni di Woody Guthrie (mentre altrove ricorrono Cristo e San Francesco). Come a dire che non riusciremo più a riavvolgere il nastro fino all’immagine primaria (la straordinaria sequenza nella sezione iniziale in cui Hawke si aggira per il porticato di San Pietro con la sua videocamera), la coltre dei riferimenti e dei filtri applicati sulla Storia è ormai troppo stratificata per far sì che il reale possa essere ancora scoperto a occhio nudo.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 13-08-2021, di Sergio Sozzo

martedì 30 novembre 2021

IN THE EARTH di Ben Wheatley (2021)


Durante una pandemia virale i due ricercatori Martin e Alma si avventurano in una foresta nei dintorni di Bristol per indagare sulla recente scomparsa di alcuni colleghi, tra i quali la dottoressa Olivia Wendle, ex-compagna di Martin. Aggrediti di notte da sconosciuti, Martin e Alma incontrano poi Zach, abbrutito dalla vita nei boschi, che si offre di aiutare Martin per una ferita al piede che si è procurato…

Scienza e anti-scienza. In epoca di pandemia è diventato uno dei temi più ricorrenti di qualsiasi dibattito intorno ai destini della cultura mondiale, in modo particolare di quella occidentale, da secoli robustamente radicata in un approccio razionalistico. In questo senso Ben Wheatley propone con la sua ultima fatica, In the Earth, una riflessione che dagli apparenti confini del cinema horror di genere si addentra verso territori filosofici. Innanzitutto, la scelta dell’autore britannico è distante dall’horror canonico dal punto di vista realizzativo ed estetico. Wheatley non si affida infatti alla sovrabbondanza e prepotenza degli effetti speciali, bensì colloca tutta la sua vicenda nelle cornici di un orrore reale, fatto di location dal vero e di corpi che con estrema verosimiglianza (ovviamente frutto di un artificio, ma ben occultato) si lacerano e sono lacerati. La realizzazione di In the Earth è avvenuta in circostanze eccezionali. Durante il lockdown Wheatley ha infatti deciso di intraprendere in segreto le riprese corsare del suo film, trovandosi dunque costretto a limitare numero d’attori, troupe e giorni dedicati agli shot. In tutto le riprese si sono svolte in un paio di settimane; poi ovviamente vi è stata un’evidente e laboriosa fase di postproduzione, ma il risultato finale è comunque sorprendente. Al fondo, Wheatley sembra rafforzato nel suo intento dalla potenza del soggetto al quale si è applicato. Innanzitutto In the Earth prende le mosse dalla pandemia in atto. Come qua e là sta accadendo in varie opere cinematografiche, a poco a poco il tema pandemico si è avviato a occupare un proprio spazio d’espressione, e in tal senso Wheatley mette al centro del proprio racconto una coppia di ricercatori che dopo il lockdown britannico si avventurano alla ricerca di colleghi scomparsi in una foresta nei pressi di Bristol. È una riscoperta della natura, in tutti i sensi. Non si tratta soltanto di passare notti sotto una tenda, all’aria aperta, dopo aver vissuto l’esperienza della segregazione in casa. Si tratta, anche e soprattutto, di ritrovarsi in pieno scontro con una natura decisamente ostile e ominosa, e di riscoprire il rapporto Uomo-Natura come fondato su relazioni ancestrali e relativi riti. Si tratta di ritornare a contatto con un lontano legame inestricabile in cui la Natura è affamata e schiavizza l’Uomo richiedendo atti e procedimenti anche violenti per garantirsi pace, floridezza e clemenza.

In qualche modo, il percorso intrapreso dai protagonisti Martin e Alma è una scala discendente (in ottica razionalistica) o ascendente (in ottica magico-ritualistica) verso primitive strutture di pensiero che mostrano la Natura in tutta la sua intensa carica di aggressività. Sorta di aggiornamento di Un tranquillo weekend di paura (John Boorman, 1972) con l’aggiunta dell’elemento fantastico/ancestrale, In the Earth si delinea dunque come il racconto di una profonda crisi che da individuale può espandersi in ottica socio-antropologica. Forzando la mano dell’interpretazione (ma neanche troppo, in fondo), dietro al calvario di Martin e Alma è facile veder fluttuare il modello scientifico che ha dilagato nella gestione mondiale della pandemia colto nel suo momento di massima fiducia, efficacia e splendore e al contempo sul ciglio del baratro di una profondissima crisi. La risposta è sempre meno sufficiente delle aspettative. Lo scacco e la crisi sono dovuti alle proporzioni del fenomeno da combattere. Martin e Alma si scontrano e vivono sulla propria pelle (di più, e più letteralmente, non si potrebbe…) il conflitto con il fenomeno illeggibile, restandone frastornati e poi stritolati. C’è chi ci è rimasto già sotto, dedicandosi a orrendi riti condotti sul corpo di vittime sacrificali. C’è chi (almeno apparentemente) trepida sul filo del rasoio tra razionalismo scientifico e stupore irrazionale. La scienza è comunque in scacco, travolta dal fenomeno, che nella sua insostenibile violenza o faticosa leggibilità impedisce anche la possibilità stessa della risposta. 

Film complesso, profondamente stratificato, In the Earth conserva anche una superficie di pura e semplice meraviglia audiovisiva dagli esiti davvero sorprendenti e di rara efficacia. Se Ben Wheatley percorre strade verso una sorta di realismo filosofico intorno all’horror, d’altro canto i poco frequenti effetti speciali sono utilizzati con stupefacente sapienza. Ben lontano dall’idea dell’effetto speciale che giustifica se stesso, finalizzato esclusivamente alla meraviglia dell’occhio fino alla nausea e all’assopimento, l’autore connette intensamente lo stupore audiovisivo a uno stringente percorso di senso. Pensiamo in particolare alle terrificanti e caleidoscopiche sequenze finali, dove l’orrore si tramuta in puro fastidio percettivo, conseguito tramite l’uso sagacemente combinato di suoni e colori. D’altro canto, nel più puro spirito del torture movie, In the Earth propone alcune sequenze tra le più rabbrividenti viste di recente al cinema. Tra amputazioni, cauterizzazioni, tagli e ricuciture di varia natura, il corpo del malcapitato Martin si tramuta in una letterale mappa sacrificale dove l’orrore si carica di toni ai limiti dell’intollerabile proprio perché calato in un contesto di realistica credibilità. Intorno al piede martoriato di Martin, per dire, non c’è alcun sovrabbondante effetto speciale a rendere iperrealistica, e paradossalmente irrealistica, l’atmosfera generale e quello specifico brano di racconto. Accade lo stesso con la riscoperta di feroci armi rudimentali, rispolverate per angoscianti cacce all’uomo nella foresta – pensiamo all’inseguimento con arco e frecce. È anche forte la componente ironica, grazie alla quale si è in grado di sostenere una sequela di torture riconvertendo il ribrezzo in una cinica risata liberatoria.

È chiaro a tutti che la sospensione dell’incredulità richiesta è altissima. In the Earth propone una sfida alla quale si può scegliere di stare o non stare. Passato al vaglio di una visione che cerca logica e coerenza ad ogni costo, il film di Wheatley può essere smontato pezzo per pezzo (e fatto a pezzi) in un secondo. Perché Martin e Alma, quando possono, non scappano? Possono davvero fidarsi così tanto del loro ultimo incontro fatto nel bosco? Possibile che siano così ingenui? E la passione per la ricerca scientifica davvero può giustificare tutto fino a questo punto, visto che Martin rimane nella foresta con un piede semi-amputato e un paio di cuciture sulle braccia? Domande che è meglio non farsi, che non bisogna farsi. Perché lo spettacolo proposto da Wheatley, ancorché ammorbidito da sottili notazioni ironiche e autoironiche, è più intelligente dei nostri insormontabili scrupoli di realismo e credibilità.

Girando in pochi giorni e con mezzi limitati, Ben Wheatley è dunque capace di proporre un’opera caratterizzata da una frastornante alternanza tra realismo e barocco. In the Earth è il prodotto di un immaginario e di uno sguardo cinematografico decisamente originali, che possono anche respingere l’adesione dello spettatore. Prendere o lasciare. Resta comunque il dato di un cinema che dal genere affonda verso stratificate riflessioni. Cinema che affonda nella terra, nelle radici di un lontano rapporto preculturale tra Uomo e Natura. Scuote, incolla alla poltrona, spaventa, stordisce. Può essere respingente, ma è indubbiamente un cinema vivace. La vivacità sta nelle idee.

Pubblicato su quinlan.it il 11/01/2021, di Massimiliano Schiavoni

giovedì 21 ottobre 2021

France, di Bruno Dumont (2021)

 


France de Meurs è l’inviata-immagine di una delle principali reti televisive all-news 24 ore su 24 della Francia, comparendo dai dibattiti politici in studio fino nei reportage dalle zone di guerra in giro per il mondo. Nulla sembra in grado di contrastare la sua ascesa, finché un incidente stradale non sarà l’innesco di una serie di disastri professionali e personali. 

Per quanto possa apparire bizzarro, per approcciarsi a France di Bruno Dumont può essere utile cercare un punto di congiunzione che leghi il film alle due opere immediatamente precedenti nella filmografia del regista piccardo, vale a dire Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc e Jeanne, il dittico dedicato alla vita, alle azioni guerresche, al processo e alla morte di Giovanna d’Arco. Quel punto di incontro lo si rintraccia infatti nel pensiero di Charles Péguy, scrittore e saggista transalpino morto agli albori della Prima Guerra Mondiale appena quarantenne e pressoché dimenticato, rimosso nella memoria del mondo progressista francese anche perché considerato reazionario e conservatore. Dumont, in modo del tutto coerente alla propria speculazione filosofica, si è invece impegnato nell’analisi e nella rilettura del pensiero di Péguy, al punto che France in un primo momento si sarebbe dovuto intitolare Par ce demi-clair matin, come l’opera postuma di Péguy che Gallimard diede alle stampe nel 1952 riunendovi all’interno cinque pamphlet mai pubblicati prima, tra i quali i più noti sono senza dubbio Suite de Notre Patrie e Deuxième suite de Notre Patrie, dove l’autore sviluppa uno dei temi centrali della sua poetica, vale a dire l’assoluta eccellenza del popolo francese. Come aveva già dimostrato di saper fare nei due film dedicati alla Pulzella di Orléans, Dumont riesce a essere allo stesso tempo fedele a Péguy pur smentendone in continuazione determinate idee preconcette: la sua è una crasi tra esaltazione e confutazione, in una messa in opera dialettica del pensiero altrui che si tramuta in immagine. Se con la santa mandata al rogo l’immagine si confrontava con il tempo passato, è il presente l’unico spazio-tempo in cui può svolgersi France. “Resta solo il presente”, come dopotutto viene sentenziato. E il presente parla di un mondo occidentale – perché pur essendo lo scandaglio di una nazione, il film è anche una riflessione allargata all’intero sistema culturale europeo e nordamericano – dominato letteralmente dal sistema mediatico, unico creatore e gestore dell’immagine, e dunque del veicolo stesso del potere. “Madame France”, così tutti chiamano France de Meurs, la protagonista interpretata da una splendida Léa Seydoux (vera regina dell’edizione 2021 del Festival di Cannes, dove il film è stato presentato in concorso, visto che sulla Croisette sono passati anche The French Dispatch di Wes Anderson, Story of My Wife di Ildikó Enyedi e Tromperie di Arnaud Desplechin) è l’imperatrice della televisione d’Oltralpe, conduttrice, autrice di reportage nei luoghi più politicamente caldi del pianeta, commentatrice del panorama politico nazionale. È lei dunque “la Francia”, al punto che il film si apre con la donna che ridicolizza con la sua assistente il presidente Macron: perfino la massima carica dello Stato non può che essere un burattino, un effetto speciale nelle mani di France de Meurs. 

In un’intervista  rilasciata per Quinlan a Giampiero Raganelli nel 2018 a Locarno, dov’era premiato con il Pardo d’Onore e presentava al pubblico ticinese la serie Coincoin et les Z’inhumains, seguito ideale di P’tit Quinquin, Dumont dichiarò: «Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema». France si sviluppa interamente attorno a questa riflessione, riassumibile in tre punti distinti: Il giornalismo in televisione è cinema, La televisione è tutta fiction e La gente pensa che sia vera. Anche i clamorosi reportage portati a termine da “Madame France” sono veri, ma la giornalista li crea e cura in ogni minimo dettaglio: l’inquadratura a riprendere il jihadista, gli immigrati posizionati sul barcone che tenta la traversata del Mediterraneo, e via discorrendo. Tutto è vero, perché tale è la condizione in cui si trovano le persone, ma è costruito, strutturato su una grammatica del racconto per immagini che è paritetica a quella cinematografica. Prima ancora di essere una giornalista France de Meurs è una regista, il linguaggio dei suoi servizi televisivi è quello del cinema, la sua è una messa in scena totale, e totalmente consapevole. Anche solo la prammatica della costruzione delle interviste, con la sua finzione del tempo contemporaneo, basterebbe a sottolineare questo aspetto, ma per l’appunto France, nel tentativo di costruire la sua personale immagine da santificare – e quindi da odiare, che la sacralizzazione contiene già al proprio interno il germe della blasfemia che la distruggerà, e si torna nuovamente a ragionare su Jeanne d’Arc – edifica pezzo per pezzo ogni singolo dettaglio della sua “cronaca”. La prassi, in una società in cui l’immagine pura non è più pensabile, non è più nemmeno ipotizzabile. 

Questa dura reprimenda nei confronti del sistema-Francia Dumont la mette in scena ricorrendo spesso al bozzetto, a quella deformazione del “vero” che è diventato film dopo film uno dei punti nevralgici della sua idea di rappresentazione della finzione. Si presta al gioco una superba Seydoux, che dimostra di sapersi muovere nei campi più disparati dell’interpretazione, e si deve necessariamente prestare al gioco anche il pubblico, perché Dumont gioca con il basso culturale utilizzandolo come elemento primario della scena. Il vero è oramai ridotto a un miserabile orpello? E allora il cinema deve avere il coraggio di spingersi ancora un passo oltre, superando di nuovo le miserie del televisivo. L’irruzione della tragedia nella quotidianità della farsa non può che essere un “incidente”, e così il regista ne mette in scena due: il primo ha il compito di mandare in crisi l’apparato filosofico della protagonista, di fronte alla quale viene svelato in maniera definitiva il volto più putrido della società – il volto degli ultimi della classe, ovviamente –, mentre il secondo serve a mandare in crisi l’immagine stessa costruita fino a quel momento. Un incidente che viene diretto da Dumont come se stesse mettendo in scena un puro action da botteghino: se si deve giocare alle regole del sistema tanto vale farlo fino in fondo, scavare fino a trovare il nucleo al centro della Terra. 

Perché l’immagine del cinema può ancora permettersi, nonostante tutto, il lusso di spingersi nella rappresentazione del vero là dove alla televisione e alla cronaca non è ancora concesso (ma forse è solo questione di tempo): la televisione può fingere la vita e renderla credibile, ma non è ancora in grado di raggelare la morte, fissando negli occhi colui che sta per dipartire. Questa riflessione teorica, questa guerra che il regista-Dumont scatena contro la regista-France (e quindi con la realtà che è costretta nuovamente a vedersela con la finzione) è anche uno degli aspetti più dinamitardi di un’opera così stratificata da poter essere letta con estrema semplicità senza accorgersi dei vari livelli sui quali si muove. France prova a scappare dalla televisione del dolore – dolore eletto a sistema dell’immagine, e quindi edulcorato – per provare finalmente, in maniera fisica e senza reti di protezione, il dolore reale. Ma questo lusso non le è forse concesso. Quel dolore lo assume su di sé la regia di Dumont, così apertamente fuori dal sistema da mandare a gambe all’aria tutto il cinema borghese progressista medio di Francia, un Paese non poi così eccellente come suggeriva un secolo or sono Charles Péguy, e in cui l’immensa violenza che passa indisturbata tra la folla si fa finta che non esista. Fingendo di essere veri, e quindi ancora vivi.

Di Raffaele Meale, pubblicato su quinlan.it il 17/07/2121

venerdì 3 settembre 2021

Il collezionista di carte, di Paul Schrader (2021)

William Tell (!) è un giocatore di carte professionista. Viaggia per le highways d’America, gira per i casinò, tra le luci ipnotiche di Atlantic City o di qualche altra città “folle” e vince a blackjack senza dare troppo nell’occhio. Ogni tanto una puntata ai tavoli da poker e il gioco è fatto. Nessun rischio inutile, nessun’ambizione da grande colpo. Una vita solitaria, da monaco praticamente. Nessun contatto, nessun legame. Dorme nei motel, dopo aver accuratamente coperto tutti i mobili per creare, così, l’ambiente più asettico e silenzioso possibile. Del resto, William ha passato otto anni in un carcere militare. Era, infatti, tra gli aguzzini di Bagram e Abu Grahib, perfettamente addestrato alla follia degli “interrogatori potenziati”, assuefatto alla droga della tortura e del sopruso. Scoppiato lo scandalo delle violenze dei soldati americani nei confronti dei prigionieri afghani, non ha avuto possibilità di cavarsela, a differenza di molti superiori istruttori, mercenari praticamente intoccabili. Ma in William non sembra esserci recriminazione o residuo d’odio. In carcere si è abituato a una vita a orologeria, si è dedicato alla lettura e ha imparato a contare le carte. Eppure il passato è un mostro da cui è impossibile fuggire, un debito accumulato nelle pieghe più profonde dell’anima. Da pagare, in un modo o nell’altro, ben oltre le pene istituite. Finché non riappare lo spettro del maggiore John Gordo (un Willem Dafoe che, come sempre, pare covare il diavolo dietro il sorriso). E un doppio incontro, con il giovane Cirk e con la giocatrice La Linda. Tutto prende, improvvisamente, un’altra forma.

Dopo l’Ernst Toller di First Reformed, Paul Schrader fa appello, di nuovo, a un nome “storico” (o meglio leggendario) per raccontare un altro personaggio ascetico, in cerca di una via di salvezza. Ma qui non si tratta di un’aspirazione cristologica alla redenzione collettiva, quanto di un’espiazione tutta personale, la necessità di una purificazione. E alla tesa, macerante sofferenza del corpo di Ethan Hawke, risponde l’apparente impassibilità di Oscar Isaac, che sembra quasi farsi opaco, imperscrutabile nei pensieri e nelle intenzioni. William si muove in maniera anonima in un mondo di apparenze scintillanti ma altrettanto grigie, rinchiuso in una specie di prigione volontaria, in un circolo (o un circo) di ripetizioni, annotazioni, conteggi e calcoli di probabilità. “È tutto bello, ma è una vita monotona”, gli dice Cirk. Ma sotto quella monotonia, avverti la tensione lacerante dello spirito, il sangue appena raggrumato di una ferita non cicatrizzata. E, soprattutto, senti l’infinita possibilità di una differenza, di una svolta inattesa ma forse predestinata, di una scelta differente. Ognuno ha la sua storia da raccontare, in fondo. Ed è una storia in cui l’avventura interiore è sempre infinitamente più complessa di quella esteriore.

Per Paul Schrader, ancora una volta, la strada morale è tortuosa e imprevedibile. Ma la sua scrittura si muove tra i dilemmi con la nitidezza di una parabola, segna il percorso con la forza inarrestabile del paradosso, mistero di ogni fede. E se il suo sguardo gioca su linee di tensione thriller, punteggiate dalla musica ossessiva di Giancarlo Vulcano, Robert Levon Been, se arriva a impazzire nella prospettiva deformata delle scene di tortura, alla fine  ritrova, sempre, la sua cristallina linearità. Fino a farsi lieve in una passeggiata di straordinaria dolcezza, in due mani che si toccano. E in un finale ancora una volta bressoniano (o forse, ormai bisognerebbe dire schraderiano). Un finale in cui il dramma sembra non esserci più. Di puro amore. La salvezza non si controlla. Segue vie ignote. Ma la senti quando la vita riprende a scorrere.

pubblicato su sentieriselvaggi.it , 2 Settembre 2021 di Aldo Spiniello


giovedì 6 maggio 2021

Superlega, anche l’industria del calcio è globale (di Antongiulio Mannoni)

 


Per qualcuno alla fine hanno vinto lo sport e i suoi ideali, ma se guardiamo ai numeri quello sulla Superlega è stato semplicemente lo scontro di due concezioni differenti dell’industria del calcio, legate alla diversa situazione materiali dei club. Se l’economia è globale e il calcio è un’industria, il piano dei superclub, oggi naufragato miseramente, potrebbe riproporsi.

La vicenda è nota: nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 Aprile, 12 club tra i principali del calcio europeo annunciano la creazione di un proprio torneo chiamato Superlega. Un campionato privato tra 12 squadre più cinque che avranno il privilegio di essere scelte di volta in volta per accedere a questo club esclusivo i cui portavoce affermano di avere già in tasca l’impegno di altre potenze calcistiche ad aderire. Nelle 48 ore successive la notizia ha il potere di far sparire dalle prime pagine l’emergenza della pandemia, di mobilitare i massimi vertici politici europei (Macron, Merkel, Draghi, Johnson, Sanchez) in un moto comune di indignazione; di scatenare gli organi di governo del calcio a tutti i livelli nella minaccia di sanzioni, espulsioni, ritorsioni legali contro i club coinvolti; di produrre un fiume di dichiarazioni e analisi da parte di allenatori, giocatori, commentatori sportivi e opinionisti più o meno esperti su tutti i canali della comunicazione contemporanea; persino di generare mobilitazioni di piazza e manifestazioni negli stadi da parte delle tifoserie storiche soprattutto inglesi, ma anche spagnole e, in minima parte, italiane. Di conseguenza, tra retromarce imbarazzanti e scuse pubbliche di alcuni club, il progetto viene ritirato o, nell’interpretazione di alcuni, soltanto accantonato.

Interessa poco, in questa sede, entrare nelle dinamiche specifiche del mondo del pallone che hanno portato a questo scontro. Quello che è interessante approfondire è invece il significato più complessivo da un punto di vista sociale e politico, il carattere rivelatore, paradigmatico, di questa vicenda rispetto al contesto in cui è nata. Perché il calcio, e forse ormai solo il calcio, riesce ad essere un fenomeno che va ben oltre il suo significato strettamente sportivo e di gioco, arrivando a coinvolgere nelle sue vicende, come abbiamo visto, persino i massimi vertici politici europei? In fondo, nel basket esiste da vent’anni l’Eurolega, un vero e proprio campionato dei più forti e ricchi club europei basato su licenze decennali (a pagamento) e ridotti meriti sportivi. Certo, il livello di popolarità tra le due discipline è imparagonabile, ma la popolarità è più un effetto che una causa. Nel tempo, infatti, il calcio si è caricato di significati che vanno ben oltre il suo sistema di gioco e di tecniche, e anche di responsabilità che, in fondo, nemmeno gli competono. E’ uno strumento di geopolitica, una fonte economica, ha sostituito molti elementi di coesione nazionale e di identità in crisi (partiti politici, chiesa, luogo di lavoro, tradizioni locali), oltre a produrre contro e sottoculture (si pensi agli Ultras). Anche il mondo del calcio è quindi investito e vive la contraddizione che caratterizza questa epoca: il superamento delle entità nazionali e locali per effetto della globalizzazione economica e delle tecnologie della comunicazione, e la necessità di conservare o avere un’identità, un’appartenenza di cui, spesso suo malgrado, diventa interprete.

In questo senso, la vicenda della Superlega è, come dicevamo, paradigmatica. I 12 club coinvolti (e anche molti sin da subito contrari) sono da tempo squadre globalizzate e non a caso occupano (con l’eccezione del Bayern di Monaco) tutte le prime posizioni della classifica mondiale dei tifosi dominata dal Manchester United con una stima di 650 milioni di tifosi, cui seguono Barcellona con 450 milioni e Real Madrid con 350 milioni. La prima italiana è la Juventus (ottava) con 27 milioni di tifosi in tutto il mondo. Prendendo ad esempio il primo in classifica, la vendita delle sue magliette nel globo è pari a 2.850.000 pezzi all’anno.  Non è certo un caso se il disegno delle casacche delle squadre cambia ogni anno e il numero delle divise di gioco per stagione si moltiplica a dismisura. A livello proprietario, poi, questo aspetto è ancora più evidente: fondi americani e arabi, società cinesi, magnati russi hanno da tempo acquistato importanti squadre europee, molte delle quali direttamente coinvolte nell’operazione Superlega. Anche laddove il quadro legislativo e la tradizione favoriscono l’azionariato diffuso, come in Spagna e Germania, questo non è certo un antidoto alla gestione dei campionati e dei club come imprese economiche globali. In effetti, si parla ormai comunemente di “industria del calcio” e le cifre economiche in campo non smentiscono certo questa definizione. Il rapporto annuale sul calcio nel nostro paese di PricewaterhouseCoopers Italia, curiosamente a cura e con prefazione di Enrico Letta, fornisce un quadro completo dell’impatto del calcio sull’insieme dell’economia nazionale. L’impatto socio-economico generato dal professionismo calcistico, che riguarda poco più 1.300.000 persone tra calciatori, tecnici, dirigenti e arbitri, è calcolato in circa 3 miliardi di euro. L’apporto al PIL nazionale è dello 0,22%. Non una grande cifra in termini assoluti, certamente sproporzionata al peso di cui gode da un punto di vista politico e sociale questa “industria” un po’ particolare. Chi di fronte alla Superlega si è indignato, invocando una presunta violazione di chissà quale codice di onore e meritocrazia sportiva dell’attuale situazione, lo ha fatto per interesse occultando i privilegi e i favoritismi di volta in volta concessi anche della politica alle società più potenti e alla federazione che le rappresenta: la FIGC. Basti ricordare che per ripulire la sua immagine screditata dallo scandalo di “calciopoli”,  solo uno dei tanti nella sua storia, nel 2007 fu scomodato persino il giudice di mani pulite Saverio Borrelli. La spinta alla trasformazione del calcio in business ha trovato un puntuale supporto legislativo che ha permesso di mutare le società calcistiche in Spa, godendo però di vantaggi e privilegi particolari. L’indebitamento complessivo dei club di serie A nel 2019 ha sfondato i 4 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto aggregato delle società pari a 551 milioni di Euro (BusinessInsider030321). Una situazione catastrofica, aggravata anche dal Covid, e che però periodicamente beneficia di interventi a carico della finanza pubblica per evitare il collasso. Si va dal Decreto “salvacalcio” del Governo Berlusconi (all’epoca proprietario del Milan) fino alle misure del Decreto Rilancio del 2020, che consentono in sostanza un rinvio di pagamenti fiscali e previdenziali, la possibilità di spalmare l’indebitamento nei bilanci fino a venti anni, la sospensione dei canoni di locazione e di superficie degli impianti sportivi, ecc. Un trattamento di favore puntualmente giustificato dai governi di ogni orientamento con l’esigenza di salvaguardare un’industria fondamentale e un introito per l’erario e la previdenza di poco superiore al miliardo di euro grazie anche al contributo del prelievo fiscale sulle scommesse. La politica e la burocrazia statale si mettono a disposizione del calcio per interesse elettorale o per alimentare un circuito di corruzione legato agli enormi flussi di denaro anche pubblico legati al fenomeno del pallone. Il caso più emblematico è stato il mondiale di Italia ’90 (FattoQuotidiano080620) costato alle casse dello stato 6.000 miliardi di lire ,oggi rivalutabili in 7 miliardi di euro, e alla categoria degli edili 24 morti a causa delle deroghe alla sicurezza e alla pressione ad affrettare i tempi nei cantieri. Cantieri di opere faraoniche inutili e già demolite, o rimaste, come gli stadi frettolosamente ampliati o costruiti ex novo sulla base di previsioni di pubblico assolutamente illogiche solo per farne lievitare i costi (fino al 180% nel caso dello Stadio Olimpico di Roma), a carico delle casse comunali per tutti gli oneri di mantenimento e gestione. Un ulteriore, perfetto esempio di profitto privato a spese della finanza pubblica, dato che i ridicoli canoni che le società calcistiche pagano, spesso in ritardo, ai comuni che hanno in gestione gli stadi non compensano affatto il costo di mantenimento di questi impianti. Altri 17 milioni di euro sono stati spesi per ammodernare gli stadi che hanno ospitato i Campionati Europei under 21 nel 2019. Questo ulteriore esborso non ha affatto compensato la vetustà degli stadi italiani e la loro inadeguatezza rispetto agli standard di fruizione da parte del pubblico cui sono orientate le maggiori società di calcio internazionali. Il 93% degli stadi italiani è di proprietà pubblica e ha una età media di 63 anni, e solo il 58% di posti al coperto. Da questo punto di vista il divario con le società calcistiche del club dei 12 scissionisti, anche per le squadre italiane coinvolte nel progetto, è enorme. Gli stadi polifunzionali di ultima generazione, di proprietà e gestione dei club e non più degli enti pubblici, come lo Stamford Bridge del Chelsea, il Tottenham Hotspur Stadium, l’Allianz Arena del Bayern di Monaco, il Camp Nou del Barcellona o Santiago Barnabeu del Real Madrid, solo per fare qualche esempio, sono progettati per ospitare vari eventi tutto l’anno e rappresentano una fonte di guadagno per i club in una logica di diversificazione delle entrate.  Lo stadio più redditizio d’Europa, il Camp Nou, per esempio, nella stagione 2017-2018ha generato un introito di 144 milioni di euro. Il gigantismo architettonico degli stadi da 160.000 posti come il Maracanà brasiliano è stato sostituito da un modello esclusivo fatto di posti a sedere, hospitality, box privati, ristoranti, parcheggi sotterranei, musei, ecc., e ovviamente, biglietti sempre più cari per fare della partita e della trasferta non più un appuntamento settimanale, ma un “evento” cui assistere poche volte lasciando il resto alla visione in tv. Solo la Juventus si è avvicinata in Italia a questo modello, ma a Roma e a Milano il futuro elettorale degli attuali sindaci si gioca anche sulla risposta da dare alle squadre della città rispetto ai loro progetti di ristrutturazione di San Siro e dell’Olimpico. Né poteva mancare un provvedimento ad hoc del Governo, che con Gentiloni ha varato una norma tesa a garantire la “bancabilità” e semplificare l’iter burocratico a quelle società interessate a investire in strutture sportive.

Nonostante gli stadi, il merchandising, gli sponsor, i diritti televisivi, il botteghino, al profondo rosso di bilancio non sfugge nessuno dei top club coinvolti nella Superlega, a causa di una gestione societaria che se si confrontasse con i criteri e le regole delle imprese economiche “normali” avrebbe già determinato il fallimento e probabilmente l’incriminazione dei presidenti e degli organi amministrativi. Il loro indebitamento complessivo ammonta a 7,7 miliardi di euro, e il peggio probabilmente deve ancora arrivare, dato che si stima a causa del Covid una perdita di ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di euro da ripartirsi tutti a carico dei vari club.

Si sa che la fonte di introito principale del calcio moderno sono i diritti televisivi sulle partite. Si stima che i diritti televisivi della Superlega, considerato un potenziale di pubblico pari a 4 miliardi di tifosi nel mondo, con i relativi abbonamenti alle pay-tv, avrebbero potuto ammontare a 10 miliardi di euro all’anno. 4-5 volte di più del valore dei diritti televisivi dell’attuale Champions League da spartirsi, inoltre, non più tra 32 squadre, ma al massimo tra 20. Senza contare le ricadute economiche su tutto il resto dell’indotto: dagli sponsor al merchandising. Un affare potenzialmente enorme sia per le società coinvolte, sia per i loro azionisti, che per la JP Morgan che contava su una redditività a due cifre del suo investimento iniziale di 3.5 miliardi di euro. L’interesse economico dei promotori dell’operazione è evidente, così come quello di quanti si sono opposti con così tanta forza e, alla fine, efficacia. In assenza del top club le attuali competizioni internazionali, così come i campionati locali se fosse andato in porto il provvedimento di espulsione dei “ribelli”, si sarebbero rapidamente svalutati agli occhi degli appassionati di calcio e, di conseguenza, anche degli sponsor e delle televisioni. Le squadre e le competizioni escluse sarebbero entrate in un circolo vizioso tra meno risorse disponibili, meno ingaggi di qualità, meno interesse praticamente senza fine con il risultato di una polarizzazione sempre maggiore tra club super ricchi e club in difficoltà.

Oltre che interessata, quindi, la levata di scudi da parte della UEFA, della FIFA (sui cui scandali e corruzione si potrebbe lungamente disquisire) e della FIGC è anche un monumento all’ipocrisia. Tra due anni, infatti, nella stessa logica della Superlega che vede nella moltiplicazione a dismisura delle partite il canale principale di aumento degli introiti per le società calcistiche, la UEFA inaugurerà una nuova formula della Champions League a 36 squadre che garantirà a ogni club partecipante un minimo di 10 partite contro le attuali 3. Inoltre, nella stagione 2021-2022 prenderà il via una terza competizione europea per club: la Conference League aperta a 184 squadre. Anche il Mondiale di Calcio nella prossima edizione passerà dalle attuali 32 nazionali a 48. In Italia, infine, nessuno mette in discussione l’allargamento del campionato a 20 squadre, la moltiplicazione dei tornei o che per raccogliere qualche soldo dalle televisioni, le ultime finali della Supercoppa italiana si sono giocate a Doha, Gedda e Riad.

La bulimia di incontri, paragonabile alla sovrapproduzione di merci, sembra essere l’unica risposta del mondo del calcio modello società per azioni globale alle sue difficoltà finanziarie. C’è da chiedersi se e per quanto questa strada per certi versi obbligata potrà funzionare o non finirà per logorare per troppa offerta e ripetitività anche l’interesse più radicato del tifoso o dell’appassionato di calcio. Anche l’emozione di un clasico Barcellona-Real Madrid se ripetuta per decine di volte può finire per annoiare. Già oggi nel tifoso più giovane l’interesse per il calcio è più legato alla socialità che ne deriva che allo sport in sé, e la partita vera e propria è seguita attraverso gli highlights piuttosto che per tutta la durata dell’incontro (Fan of the future. Defining Modern Football Fandom).

La vicenda della Superlega asseconda e rivela un fenomeno di polarizzazione della ricchezza, di proiezione verso un mercato globale, di lotta senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse già ben noto a livello economico complessivo e in via di ulteriore accelerazione in questa fase e che non risparmia nessun settore, nemmeno il calcio. Inoltre, da un punto di vista dei protagonisti: presidenti, dirigenti sportivi, manager, calciatori, mostra la loro natura di super privilegiati interessati a conservare e ad ampliare la loro condizione di distacco e di privilegio fatta di spregiudicatezza finanziaria, senso di impunità, voli privati, feste, cene, tamponi e vaccini proibiti ai più, ancor più evidente in questa fase di emergenza sanitaria e di crisi economica. Un privilegio che è anche “salariale”, come testimoniano due semplici cifre: tra il 2017 e il 2018 il costo del lavoro del calcio  professionistico è aumentato del 14,6%, mentre per i lavoratori dipendenti italiani aumentava tra il 2% e il 2,5%.


giovedì 7 gennaio 2021

The Best of (2020) the worst

podio (dal primo al terzo posto)
La Ragazza d'Autunno (Kantemir Balagov)
Diamanti Grezzi (Josh & Bennie Safdie)
The Lighthouse (Robert Eggers)
La Gomera (Corneliu Porumboiu)
The Outsider (HBO-miniserie)
Mark Fisher - Il nostro desiderio è senza nome (Minimum Fax)
Jeff Parker - Suite for Max Brown
Dark Waters (Todd Haynes)
The Plot Against America (HBO-miniserie)
Laura Marling - Song For Our Daughter
Ben Lerner - Topeka School (Sellerio)
Devs (Hulu-miniserie)
Jonathan Bazzi - Febbre (Fandango)
Il Lago delle Oche Selvatiche (Diao Ynan)
Memorie di un assassino (Bong Joon-ho)
Better Call Saul (Netflix-st.5)
Gil Scott-Heron - We’re New Again–A Reimagining by Makaya McCraven
Years And Years (BBC st.1)
Catherynne Valente - Space Opera (21 Lettere)
The Necks - Three
Bacurau (J. Dornelles & K. Mendoca Filho)
Luigi Nono - La nostalgia del futuro (Il Saggiatore-nuova edizione)
Woody Allen - A proposito di niente (La Nave di Teseo)
Beatrice Dillon - Workaround
Shabaka And The Ancestors - We are sent here by history
Fiona Apple - Fetch the bolt cutters
I May Destroy You (BBC/HBO)
Moses Boyd - Dark Matter
Normal people (BBC-miniserie)
Never Rarely Sometimes Always (Eliza Hittman)
I know this much is true (HBO-miniserie)
Stephen Markley - Ohio (Einaudi)
A Sun (Chung Mong-hong)
Khruangbin - Mordechai
Machado De Assis - Memorie Postume di Bràs Cubas (Fazi)
Andrej Tarkovskij. Il Cinema Come Preghiera (Andrey A. Tarkovskij)
Rote Zora - Mutate or Die. In Viaggio con la Mutoid Waste Company (Agenzia X)
Ema (Pablo Larrain)
Miss Marx (Susanna Nicchiarelli) 
Raised By Wolves (HBO Max - st.1)
Sault - Untitled (Black Is)
Le Strade del Male (Antonio Campos)
Run The Jewels - 4
Obsolete Capitalism & Stefano Oliva - Ritmo, Caos e Uomo Non Pulsato (La Deleuziana10)
Waxahatchee - Saint Cloud
Matthias & Maxime (Xavier Dolan) 
Prince - Sign'O the Times (Super Deluxe box set reissue)
We are who we are (HBO - L. Guadagnino)
Bob Dylan - Rough and rowdy ways
Mademoiselle (Park Chan-Wook)
Global Communications - Transmissions (box)
First Cow (Kelly Reichardt)
David Byrne's American Utopia (Spike Lee)
Stanislaw Lem - L'invincibile (Sellerio-ristampa)
Sault - Untitled (Rise)
Roubaix, Une Lumière (Arnaud Desplechin)
Nomad-In cammino con Bruce Chatwin (Werner Herzog)
Andrea Gentile - Apparizioni (Nottetempo)
Mank (David Fincher)
Rob Mazurek - Dimensional Stardust
Let them all talk (Steven Soderbergh)
Simon Reynolds - Futuromania (Minimun Fax)

(ri)scoperte pandemiche
Killing (Shinya Tsukamoto)
Grass (Hong Sang-soo)
Peppermint Candy (Lee Chan-Dong)