martedì 28 dicembre 2021
2021 Rewind
martedì 21 dicembre 2021
West Side Story di Steven Spielberg
Lo avevano già fatto Coppola (Sulle ali dell’arcobaleno, Un sogno lungo un giorno), Scorsese (New York, New York), De Palma (Il fantasma del palcoscenico), Altman (Nashville, Radio America). Lo ha fatto tutta la vita Demme. Del gruppo dei più grandi cineasti emersi tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, all’appello mancava solo Spielberg. Ma West Side Story è davvero il suo primo musical? Forse lo è integralmente se guardiamo alle forme classiche del genere a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Ma tranne Scorsese e Coppola, negli altri casi ci sono travolgenti imperfezioni, contaminazioni. Tra Broadway e il film-concerto, tra il palcoscenico e la strada. Il cinema di Spielberg in passato è stato pieno di impurità musical: la comunicazione tra gli umani e gli extraterrestri di Incontri ravvicinati del terzo tipo, i movimenti danzanti di Harrison Ford nei quattro film su Indiana Jones e di Leonardo DiCaprio in Prova a prendermi, i sogni impossibili con le luci dell’aldilà di Always.
West Side Story ha il look del remake fedelissimo. In parte
lo è, in parte no. E in parte Spielberg se ne è impossessato con una
grandissima, incontrollata, immensa dichiarazoone d’amore al genere. Come nel
musical del 1961 dell’accoppiata Robert Wise-Jerome Robbins che ha avuto un
grandissimo successo e ha vinto 10 Oscar che è arrivato poco prima della grande
crisi del genere e l’arrivo della New Hollywood, al centro della vicenda si
frontaggiano sempre due bande rivali per il controllo del territorio. Da una
parte ci sono i Jets, immigrati europei di seconda generazione. Dall’altra gli
Sharks, un gruppo di portoricani arrivati a New York di recente. Mentre i
quartieri della città sono in piena trasformazione urbanistica, ad alimentare
ancora di più lo scontro tra le due gang c’è l’incontro tra Tony e Maria. Lui è
il co-fondatore dei Jets da cui si è allontanato dopo essere stato in carcere e
ora lavora da Doc’s, il negozio gestito da Valentina. Lei è la sorella di
Bernardo, aspirante pugile e leader degli Sharks che ha già pensato di
accasarla con il timido Chino da cui non è attratta. Si vedono al ballo e tra
loro scatta subito il colpo di fulmine. Come Romeo e Giulietta, il loro è
subito un amore contrastato. Ma si amano alla follia e faranno di tutto per raggiungere
la felicità.
West Side Story è un film sulla memoria. Del cinema, dello
stesso Spielberg. Comincia come il musical del 1961 con l’inquadratura della
metropoli dall’alto. Stavolta c’è l’immagine delle gru e gli edifici in
demolizioni in uno spazio dove stanno per sorgere nuovi quartieri. È il 1957.
Un altro viaggio nel tempo, come quelli che hanno segnato gran parte del suo
cinema, da 1941. Allarme ad Hollywood a Il colore viola, da L’impero del sole,
a Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan e Munich. Ma è anche un viaggio nella memoria di Spielberg, da quando
aveva ascoltato per la prima volta le canzoni sul disco quando il regista aveva
10 anni. “West Side Story – ha detto il regista- è stato il primo album di musica popolare
entrato in casa. Non riuscivo a smettere di ascoltarlo”
Gli occhi di Spielberg oggi sono ancora quelli di un
ragazzino incantato. Il musical di Broadway del 1957 viene rivisto attraverso i
suoi occhi con la stessa sorpresa, lo stesso incanto dei protagonisti di E.T.
davanti all’alieno o di Jurassic Park e Il mondo perduto davanti ai dinosauri.
La sua versione è insieme un melodramma disperato e un film politico che
racconta molto dell’America di oggi sull’immigrazione dell’era Trump e sulle
violenze della polizia. Innanzitutto, contrariamente al film del 1961, ci sono
molti giovani attori di origine ispanica. Poi
c’è il personaggio transessuale di Anybodys interpretato da Iris Menas.
Infine c’è un nuovo numero musical, La Borinqueña, che è l’inno portoricano
scritto nel 19° secolo dopo una delle prime grandi rivolte popolari per
l’indipendenza del paese nel 1868. Ma è anche, e soprattutto, una danza, di
suoni, musica e colori, dove la fotografia di Janusz Kaminski crea uno
spettacolo pirotecnico tra riflessi sul pavimento, le ombre sul lenzuolo nel
bacio tra Bernardo e Anita (il cinema dietro lo schermo), le luci che si
riflettono nell’acqua o l’immagine di Maria (bravissima Rachel Zegler, al suo
primo film, nel ruolo che è stato di Natalie Wood) davanti allo specchio mentre
si mette il rossetto.
West Side
Story è pura magia. Violento ed emozionante. C’è la versione originale
con tutto il cuore di Spielberg con la passione che, nei celebri numeri Maria e
Tonight – con Tony che si arrampica sul balcone e tutta la seduzione e la
passione sono filmati con i volti separati dalla griglia della scala che li
tiene separati – divampa e diventa incontrollabile. Spielberg mostra lo stupro
e la morte come in un film di guerra, dialoga continuamente con il film
precedente anche con il il corpo di Rita Moreno che nel film di Wise-Robbins
era stata premiata come miglior attrice non protagonista per il personaggio di
Anita e qui invece interpreta Valentina, la proprietaria del negozio dove
lavora Tony che sostituisce il personaggio di Doc nella versione del 1961. Ma
poi lascia riemergere la storia dall’ombra come Lincoln, ritrova l’euforia del
genere con i cocomeri sganciati dal camion dove gli oggetti giocano e ballano
come in un film di Gene Kelly e Stanley Donen.
I protagonisti potrebbero uscire dallo schermo e ballare con
noi, a cominciare da Ansel Elgort che ci sposta da una direzione all’altra come
al volante di Baby Driver. Tra ombra e
luce, desiderio e malinconia, West Side Story è uno dei più bei musical di
sempre. Non è più un omaggio al genere, non si tratta di nessuna esercitazione.
Sono tutti i sogni di Spielberg bambino che si mescolano con quelli dei suoi
personaggi bambini. Così il cinema più serio e politico del regista e quello
più giocoso e infantile trovano stavolta l’abbraccio più bello.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 20 Dicembre 2021 di
Simone Emiliani
lunedì 13 dicembre 2021
Zero And Ones di Abel Ferrara, 2021
Edoardo Bruno fu il primo a cogliere l’anima nascosta da profezia di quel discusso documentario di Ferrara (Quanto al futuro, ascolti: i suoi figli fascisti veleggeranno verso i mondi della Nuova Preistoria), e chissà cosa direbbe oggi guardando Zeros and Ones, un film che è forse il vero punto d’arrivo di una parabola che nasce proprio tra le maglie delle riprese di Piazza Vittorio (qualcuno dirà anche da molto prima, dal New Rose Hotel almeno)… la stazione Termini che in quel film era costeggiata dalle interviste di fronte alla Caritas e tra le palazzine di via Giolitti (si trattava già di un ritorno sui luoghi del set di Pasolini), pochi anni dopo sarebbe diventata il palco della crocifissione finale di Tommaso – come in quella tradizione tutta italiana di “appunti per un film su”, se l’opera con Dafoe “abita” le immagini del doc precedente, Zeros and Ones (Premio per la Migliore Regia a Locarno 74) riparte dalle peregrinazioni per la Roma notturna sotto lockdown che facevano capolino nell’incredibile Sportin’ Life, e di quel progetto riprende la giovane squadra a supporto, il d.o.p. Sean Price Williams e il montatore Leonardo Daniel Bianchi.
Dai binari di quella stessa stazione Termini fa la sua
comparsa nell’incipit Ethan Hawke (incrociato da Abel ai tempi di Chelsea on
the rocks), rinnovando da subito la capacità di Ferrara di astrarre i luoghi
quotidiani di Roma, e la loro familiarità (andrebbe, Zeros and Ones, mostrato
in contrasto a certe “indagini” sull’umanità di Termini che mietono views su
youtube negli ultimi tempi, condotte da volti del variopinto mondo del fitness
romano…). E’ una notte qualsiasi nei corridoi deserti e sempre inquietanti
della stazione dopo una certa ora, e allo stesso tempo non lo è, i soldati di
pattuglia sembrano più minacciosi del solito, e le squadre che sanificano i
tornelli sembrano provenire davvero dal futuro. Più avanti, il nostro
protagonista vede o sogna soltanto di vedere al binocolo la cupola del Vaticano
e di Castel Sant’Angelo saltare in aria?
In questa notte infinita in cui è piombata la città, e il
suo cuore nero dell’Esquilino, non è più possibile che alcuna verità venga
restituita dai mille video sgranati di smartphone, tablet, obiettivi di drone e
videochiamate, che inframmezzano il film: Hawke cercherà di sventare questo
attentato alla santa sede muovendosi tra le anime sonnambule di un gioco di
spie che attraversa i cospiratori russi negli hotel di lusso, gli smanettoni
cinesi nei negozietti di riparazioni di cellulari, le palestre improvvisate nei
garage, le chiese e le moschee, fino ad infilarsi nei giacigli di cartone dei
senzatetto, sotto i porticati. Le domande sono sempre e soltanto due, quelle
fondamentali: where? e when?
Difficile trovare una visione più disperata del punto in cui
è piombata l’umanità in questa epoca-Covid: il finale porta con sé una carica
di ambiguità destinata a restare – in questo risveglio alla normalità di Colle
Oppio mentre albeggia, le persone si comportano come nulla fosse perché abbiamo
vissuto tutti un incubo lungo una notte intera, o perché ignare del pericolo
dell’esercito che li ha già tutti nel mirino, pronto a far fuoco? E’ davvero
una bambina che passeggia per strada, sorridente e saltellante, il nuovo nemico
pubblico numero uno di questo Stato?
Zeros and Ones è un film genuinamente cyberpunk (già dal
titolo “in codice binario”…), che somiglia al Ferrara di fine anni ’90/primi
2000, e anche un po’ a certi esperimenti sci-fi/spionistici di Olivier Assayas
del periodo, tra Demonlover e Boarding Gate: come in Blackout di Ferrara, la
questione centrale riguarda lo sdoppiamento di personalità, e il raddoppio
esponenziale, da curva di Moore, delle realtà possibili: il “profeta” di questa
caduta del Vaticano (un anarchico? un comunista? un rivoluzionario…) è il
fratello gemello del protagonista, interpretato sempre da Hawke (come il Dafoe
“moltiplicato” di Siberia), e il video dell’interrogatorio in cui viene
torchiato da Valerio Mastandrea (!) si trasforma in un monologo in cui il
personaggio tiene insieme il suo sermone con citazioni di Woody Guthrie (mentre
altrove ricorrono Cristo e San Francesco). Come a dire che non riusciremo più a
riavvolgere il nastro fino all’immagine primaria (la straordinaria sequenza
nella sezione iniziale in cui Hawke si aggira per il porticato di San Pietro
con la sua videocamera), la coltre dei riferimenti e dei filtri applicati sulla
Storia è ormai troppo stratificata per far sì che il reale possa essere ancora
scoperto a occhio nudo.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 13-08-2021, di Sergio
Sozzo
martedì 30 novembre 2021
IN THE EARTH di Ben Wheatley (2021)
Durante una pandemia virale i due ricercatori Martin e Alma si avventurano in una foresta nei dintorni di Bristol per indagare sulla recente scomparsa di alcuni colleghi, tra i quali la dottoressa Olivia Wendle, ex-compagna di Martin. Aggrediti di notte da sconosciuti, Martin e Alma incontrano poi Zach, abbrutito dalla vita nei boschi, che si offre di aiutare Martin per una ferita al piede che si è procurato…
Scienza e anti-scienza. In epoca di pandemia è diventato uno
dei temi più ricorrenti di qualsiasi dibattito intorno ai destini della cultura
mondiale, in modo particolare di quella occidentale, da secoli robustamente
radicata in un approccio razionalistico. In questo senso Ben Wheatley propone
con la sua ultima fatica, In the Earth, una riflessione che dagli apparenti
confini del cinema horror di genere si addentra verso territori filosofici.
Innanzitutto, la scelta dell’autore britannico è distante dall’horror canonico
dal punto di vista realizzativo ed estetico. Wheatley non si affida infatti
alla sovrabbondanza e prepotenza degli effetti speciali, bensì colloca tutta la
sua vicenda nelle cornici di un orrore reale, fatto di location dal vero e di
corpi che con estrema verosimiglianza (ovviamente frutto di un artificio, ma
ben occultato) si lacerano e sono lacerati. La realizzazione di In the Earth è
avvenuta in circostanze eccezionali. Durante il lockdown Wheatley ha infatti
deciso di intraprendere in segreto le riprese corsare del suo film, trovandosi
dunque costretto a limitare numero d’attori, troupe e giorni dedicati agli
shot. In tutto le riprese si sono svolte in un paio di settimane; poi
ovviamente vi è stata un’evidente e laboriosa fase di postproduzione, ma il
risultato finale è comunque sorprendente. Al fondo, Wheatley sembra rafforzato
nel suo intento dalla potenza del soggetto al quale si è applicato.
Innanzitutto In the Earth prende le mosse dalla pandemia in atto. Come qua e là
sta accadendo in varie opere cinematografiche, a poco a poco il tema pandemico
si è avviato a occupare un proprio spazio d’espressione, e in tal senso
Wheatley mette al centro del proprio racconto una coppia di ricercatori che
dopo il lockdown britannico si avventurano alla ricerca di colleghi scomparsi
in una foresta nei pressi di Bristol. È una riscoperta della natura, in tutti i
sensi. Non si tratta soltanto di passare notti sotto una tenda, all’aria
aperta, dopo aver vissuto l’esperienza della segregazione in casa. Si tratta,
anche e soprattutto, di ritrovarsi in pieno scontro con una natura decisamente
ostile e ominosa, e di riscoprire il rapporto Uomo-Natura come fondato su
relazioni ancestrali e relativi riti. Si tratta di ritornare a contatto con un
lontano legame inestricabile in cui la Natura è affamata e schiavizza l’Uomo
richiedendo atti e procedimenti anche violenti per garantirsi pace, floridezza
e clemenza.
In qualche modo, il percorso intrapreso dai protagonisti Martin e Alma è una scala discendente (in ottica razionalistica) o ascendente (in ottica magico-ritualistica) verso primitive strutture di pensiero che mostrano la Natura in tutta la sua intensa carica di aggressività. Sorta di aggiornamento di Un tranquillo weekend di paura (John Boorman, 1972) con l’aggiunta dell’elemento fantastico/ancestrale, In the Earth si delinea dunque come il racconto di una profonda crisi che da individuale può espandersi in ottica socio-antropologica. Forzando la mano dell’interpretazione (ma neanche troppo, in fondo), dietro al calvario di Martin e Alma è facile veder fluttuare il modello scientifico che ha dilagato nella gestione mondiale della pandemia colto nel suo momento di massima fiducia, efficacia e splendore e al contempo sul ciglio del baratro di una profondissima crisi. La risposta è sempre meno sufficiente delle aspettative. Lo scacco e la crisi sono dovuti alle proporzioni del fenomeno da combattere. Martin e Alma si scontrano e vivono sulla propria pelle (di più, e più letteralmente, non si potrebbe…) il conflitto con il fenomeno illeggibile, restandone frastornati e poi stritolati. C’è chi ci è rimasto già sotto, dedicandosi a orrendi riti condotti sul corpo di vittime sacrificali. C’è chi (almeno apparentemente) trepida sul filo del rasoio tra razionalismo scientifico e stupore irrazionale. La scienza è comunque in scacco, travolta dal fenomeno, che nella sua insostenibile violenza o faticosa leggibilità impedisce anche la possibilità stessa della risposta.
Film complesso, profondamente stratificato, In the Earth
conserva anche una superficie di pura e semplice meraviglia audiovisiva dagli
esiti davvero sorprendenti e di rara efficacia. Se Ben Wheatley percorre strade
verso una sorta di realismo filosofico intorno all’horror, d’altro canto i poco
frequenti effetti speciali sono utilizzati con stupefacente sapienza. Ben
lontano dall’idea dell’effetto speciale che giustifica se stesso, finalizzato
esclusivamente alla meraviglia dell’occhio fino alla nausea e all’assopimento,
l’autore connette intensamente lo stupore audiovisivo a uno stringente percorso
di senso. Pensiamo in particolare alle terrificanti e caleidoscopiche sequenze
finali, dove l’orrore si tramuta in puro fastidio percettivo, conseguito
tramite l’uso sagacemente combinato di suoni e colori. D’altro canto, nel più
puro spirito del torture movie, In the Earth propone alcune sequenze tra le più
rabbrividenti viste di recente al cinema. Tra amputazioni, cauterizzazioni,
tagli e ricuciture di varia natura, il corpo del malcapitato Martin si tramuta
in una letterale mappa sacrificale dove l’orrore si carica di toni ai limiti
dell’intollerabile proprio perché calato in un contesto di realistica
credibilità. Intorno al piede martoriato di Martin, per dire, non c’è alcun
sovrabbondante effetto speciale a rendere iperrealistica, e paradossalmente
irrealistica, l’atmosfera generale e quello specifico brano di racconto. Accade
lo stesso con la riscoperta di feroci armi rudimentali, rispolverate per
angoscianti cacce all’uomo nella foresta – pensiamo all’inseguimento con arco e
frecce. È anche forte la componente ironica, grazie alla quale si è in grado di
sostenere una sequela di torture riconvertendo il ribrezzo in una cinica risata
liberatoria.
È chiaro a tutti che la sospensione dell’incredulità
richiesta è altissima. In the Earth propone una sfida alla quale si può
scegliere di stare o non stare. Passato al vaglio di una visione che cerca
logica e coerenza ad ogni costo, il film di Wheatley può essere smontato pezzo
per pezzo (e fatto a pezzi) in un secondo. Perché Martin e Alma, quando
possono, non scappano? Possono davvero fidarsi così tanto del loro ultimo
incontro fatto nel bosco? Possibile che siano così ingenui? E la passione per
la ricerca scientifica davvero può giustificare tutto fino a questo punto, visto
che Martin rimane nella foresta con un piede semi-amputato e un paio di
cuciture sulle braccia? Domande che è meglio non farsi, che non bisogna farsi.
Perché lo spettacolo proposto da Wheatley, ancorché ammorbidito da sottili
notazioni ironiche e autoironiche, è più intelligente dei nostri insormontabili
scrupoli di realismo e credibilità.
Girando in pochi giorni e con mezzi limitati, Ben Wheatley è
dunque capace di proporre un’opera caratterizzata da una frastornante
alternanza tra realismo e barocco. In the Earth è il prodotto di un immaginario
e di uno sguardo cinematografico decisamente originali, che possono anche
respingere l’adesione dello spettatore. Prendere o lasciare. Resta comunque il
dato di un cinema che dal genere affonda verso stratificate riflessioni. Cinema
che affonda nella terra, nelle radici di un lontano rapporto preculturale tra
Uomo e Natura. Scuote, incolla alla poltrona, spaventa, stordisce. Può essere
respingente, ma è indubbiamente un cinema vivace. La vivacità sta nelle idee.
Pubblicato su quinlan.it il 11/01/2021, di Massimiliano
Schiavoni
giovedì 21 ottobre 2021
France, di Bruno Dumont (2021)
France de Meurs è l’inviata-immagine di una delle principali
reti televisive all-news 24 ore su 24 della Francia, comparendo dai dibattiti
politici in studio fino nei reportage dalle zone di guerra in giro per il
mondo. Nulla sembra in grado di contrastare la sua ascesa, finché un incidente
stradale non sarà l’innesco di una serie di disastri professionali e personali.
In un’intervista rilasciata per Quinlan a Giampiero Raganelli nel 2018 a Locarno, dov’era premiato con il Pardo d’Onore e presentava al pubblico ticinese la serie Coincoin et les Z’inhumains, seguito ideale di P’tit Quinquin, Dumont dichiarò: «Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema». France si sviluppa interamente attorno a questa riflessione, riassumibile in tre punti distinti: Il giornalismo in televisione è cinema, La televisione è tutta fiction e La gente pensa che sia vera. Anche i clamorosi reportage portati a termine da “Madame France” sono veri, ma la giornalista li crea e cura in ogni minimo dettaglio: l’inquadratura a riprendere il jihadista, gli immigrati posizionati sul barcone che tenta la traversata del Mediterraneo, e via discorrendo. Tutto è vero, perché tale è la condizione in cui si trovano le persone, ma è costruito, strutturato su una grammatica del racconto per immagini che è paritetica a quella cinematografica. Prima ancora di essere una giornalista France de Meurs è una regista, il linguaggio dei suoi servizi televisivi è quello del cinema, la sua è una messa in scena totale, e totalmente consapevole. Anche solo la prammatica della costruzione delle interviste, con la sua finzione del tempo contemporaneo, basterebbe a sottolineare questo aspetto, ma per l’appunto France, nel tentativo di costruire la sua personale immagine da santificare – e quindi da odiare, che la sacralizzazione contiene già al proprio interno il germe della blasfemia che la distruggerà, e si torna nuovamente a ragionare su Jeanne d’Arc – edifica pezzo per pezzo ogni singolo dettaglio della sua “cronaca”. La prassi, in una società in cui l’immagine pura non è più pensabile, non è più nemmeno ipotizzabile.
Questa dura reprimenda nei confronti del sistema-Francia Dumont la mette in scena ricorrendo spesso al bozzetto, a quella deformazione del “vero” che è diventato film dopo film uno dei punti nevralgici della sua idea di rappresentazione della finzione. Si presta al gioco una superba Seydoux, che dimostra di sapersi muovere nei campi più disparati dell’interpretazione, e si deve necessariamente prestare al gioco anche il pubblico, perché Dumont gioca con il basso culturale utilizzandolo come elemento primario della scena. Il vero è oramai ridotto a un miserabile orpello? E allora il cinema deve avere il coraggio di spingersi ancora un passo oltre, superando di nuovo le miserie del televisivo. L’irruzione della tragedia nella quotidianità della farsa non può che essere un “incidente”, e così il regista ne mette in scena due: il primo ha il compito di mandare in crisi l’apparato filosofico della protagonista, di fronte alla quale viene svelato in maniera definitiva il volto più putrido della società – il volto degli ultimi della classe, ovviamente –, mentre il secondo serve a mandare in crisi l’immagine stessa costruita fino a quel momento. Un incidente che viene diretto da Dumont come se stesse mettendo in scena un puro action da botteghino: se si deve giocare alle regole del sistema tanto vale farlo fino in fondo, scavare fino a trovare il nucleo al centro della Terra.
Perché l’immagine del cinema può ancora permettersi, nonostante tutto, il lusso di spingersi nella rappresentazione del vero là dove alla televisione e alla cronaca non è ancora concesso (ma forse è solo questione di tempo): la televisione può fingere la vita e renderla credibile, ma non è ancora in grado di raggelare la morte, fissando negli occhi colui che sta per dipartire. Questa riflessione teorica, questa guerra che il regista-Dumont scatena contro la regista-France (e quindi con la realtà che è costretta nuovamente a vedersela con la finzione) è anche uno degli aspetti più dinamitardi di un’opera così stratificata da poter essere letta con estrema semplicità senza accorgersi dei vari livelli sui quali si muove. France prova a scappare dalla televisione del dolore – dolore eletto a sistema dell’immagine, e quindi edulcorato – per provare finalmente, in maniera fisica e senza reti di protezione, il dolore reale. Ma questo lusso non le è forse concesso. Quel dolore lo assume su di sé la regia di Dumont, così apertamente fuori dal sistema da mandare a gambe all’aria tutto il cinema borghese progressista medio di Francia, un Paese non poi così eccellente come suggeriva un secolo or sono Charles Péguy, e in cui l’immensa violenza che passa indisturbata tra la folla si fa finta che non esista. Fingendo di essere veri, e quindi ancora vivi.
Di Raffaele Meale, pubblicato su quinlan.it il 17/07/2121
venerdì 3 settembre 2021
Il collezionista di carte, di Paul Schrader (2021)
William Tell (!) è un giocatore di carte professionista.
Viaggia per le highways d’America, gira per i casinò, tra le luci ipnotiche di
Atlantic City o di qualche altra città “folle” e vince a blackjack senza dare
troppo nell’occhio. Ogni tanto una puntata ai tavoli da poker e il gioco è
fatto. Nessun rischio inutile, nessun’ambizione da grande colpo. Una vita
solitaria, da monaco praticamente. Nessun contatto, nessun legame. Dorme nei
motel, dopo aver accuratamente coperto tutti i mobili per creare, così,
l’ambiente più asettico e silenzioso possibile. Del resto, William ha passato
otto anni in un carcere militare. Era, infatti, tra gli aguzzini di Bagram e
Abu Grahib, perfettamente addestrato alla follia degli “interrogatori
potenziati”, assuefatto alla droga della tortura e del sopruso. Scoppiato lo
scandalo delle violenze dei soldati americani nei confronti dei prigionieri afghani,
non ha avuto possibilità di cavarsela, a differenza di molti superiori
istruttori, mercenari praticamente intoccabili. Ma in William non sembra
esserci recriminazione o residuo d’odio. In carcere si è abituato a una vita a
orologeria, si è dedicato alla lettura e ha imparato a contare le carte. Eppure
il passato è un mostro da cui è impossibile fuggire, un debito accumulato nelle
pieghe più profonde dell’anima. Da pagare, in un modo o nell’altro, ben oltre
le pene istituite. Finché non riappare lo spettro del maggiore John Gordo (un
Willem Dafoe che, come sempre, pare covare il diavolo dietro il sorriso). E un
doppio incontro, con il giovane Cirk e con la giocatrice La Linda. Tutto
prende, improvvisamente, un’altra forma.
Dopo l’Ernst Toller di First Reformed, Paul Schrader fa
appello, di nuovo, a un nome “storico” (o meglio leggendario) per raccontare un
altro personaggio ascetico, in cerca di una via di salvezza. Ma qui non si
tratta di un’aspirazione cristologica alla redenzione collettiva, quanto di
un’espiazione tutta personale, la necessità di una purificazione. E alla tesa,
macerante sofferenza del corpo di Ethan Hawke, risponde l’apparente
impassibilità di Oscar Isaac, che sembra quasi farsi opaco, imperscrutabile nei
pensieri e nelle intenzioni. William si muove in maniera anonima in un mondo di
apparenze scintillanti ma altrettanto grigie, rinchiuso in una specie di
prigione volontaria, in un circolo (o un circo) di ripetizioni, annotazioni,
conteggi e calcoli di probabilità. “È tutto bello, ma è una vita monotona”, gli
dice Cirk. Ma sotto quella monotonia, avverti la tensione lacerante dello
spirito, il sangue appena raggrumato di una ferita non cicatrizzata. E,
soprattutto, senti l’infinita possibilità di una differenza, di una svolta
inattesa ma forse predestinata, di una scelta differente. Ognuno ha la sua
storia da raccontare, in fondo. Ed è una storia in cui l’avventura interiore è
sempre infinitamente più complessa di quella esteriore.
Per Paul Schrader, ancora una volta, la strada morale è
tortuosa e imprevedibile. Ma la sua scrittura si muove tra i dilemmi con la
nitidezza di una parabola, segna il percorso con la forza inarrestabile del
paradosso, mistero di ogni fede. E se il suo sguardo gioca su linee di tensione
thriller, punteggiate dalla musica ossessiva di Giancarlo Vulcano, Robert Levon
Been, se arriva a impazzire nella prospettiva deformata delle scene di tortura,
alla fine ritrova, sempre, la sua
cristallina linearità. Fino a farsi lieve in una passeggiata di straordinaria
dolcezza, in due mani che si toccano. E in un finale ancora una volta
bressoniano (o forse, ormai bisognerebbe dire schraderiano). Un finale in cui
il dramma sembra non esserci più. Di puro amore. La salvezza non si controlla.
Segue vie ignote. Ma la senti quando la vita riprende a scorrere.
pubblicato su sentieriselvaggi.it , 2 Settembre 2021 di Aldo
Spiniello
giovedì 6 maggio 2021
Superlega, anche l’industria del calcio è globale (di Antongiulio Mannoni)
Per qualcuno
alla fine hanno vinto lo sport e i suoi ideali, ma se guardiamo ai numeri quello
sulla Superlega è stato semplicemente lo scontro di due concezioni differenti
dell’industria del calcio, legate alla diversa situazione materiali dei club.
Se l’economia è globale e il calcio è un’industria, il piano dei superclub,
oggi naufragato miseramente, potrebbe riproporsi.
La vicenda è nota: nella notte tra domenica 18 e
lunedì 19 Aprile, 12 club tra i principali del calcio europeo annunciano la
creazione di un proprio torneo chiamato Superlega. Un campionato privato tra 12
squadre più cinque che avranno il privilegio di essere scelte di volta in volta
per accedere a questo club esclusivo i cui portavoce affermano di avere già in
tasca l’impegno di altre potenze calcistiche ad aderire. Nelle 48 ore
successive la notizia ha il potere di far sparire dalle prime pagine
l’emergenza della pandemia, di mobilitare i massimi vertici politici europei
(Macron, Merkel, Draghi, Johnson, Sanchez) in un moto comune di indignazione; di
scatenare gli organi di governo del calcio a tutti i livelli nella minaccia di
sanzioni, espulsioni, ritorsioni legali contro i club coinvolti; di produrre un
fiume di dichiarazioni e analisi da parte di allenatori, giocatori,
commentatori sportivi e opinionisti più o meno esperti su tutti i canali della
comunicazione contemporanea; persino di generare mobilitazioni di piazza e
manifestazioni negli stadi da parte delle tifoserie storiche soprattutto
inglesi, ma anche spagnole e, in minima parte, italiane. Di conseguenza, tra
retromarce imbarazzanti e scuse pubbliche di alcuni club, il progetto viene
ritirato o, nell’interpretazione di alcuni, soltanto accantonato.
Interessa poco, in questa sede, entrare nelle
dinamiche specifiche del mondo del pallone che hanno portato a questo scontro. Quello
che è interessante approfondire è invece il significato più complessivo da un
punto di vista sociale e politico, il carattere rivelatore, paradigmatico, di
questa vicenda rispetto al contesto in cui è nata. Perché il calcio, e forse
ormai solo il calcio, riesce ad essere un fenomeno che va ben oltre il suo
significato strettamente sportivo e di gioco, arrivando a coinvolgere nelle sue
vicende, come abbiamo visto, persino i massimi vertici politici europei? In
fondo, nel basket esiste da vent’anni l’Eurolega, un vero e proprio campionato
dei più forti e ricchi club europei basato su licenze decennali (a pagamento) e
ridotti meriti sportivi. Certo, il livello di popolarità tra le due discipline
è imparagonabile, ma la popolarità è più un effetto che una causa. Nel tempo, infatti,
il calcio si è caricato di significati che vanno ben oltre il suo sistema di
gioco e di tecniche, e anche di responsabilità che, in fondo, nemmeno gli
competono. E’ uno strumento di geopolitica, una fonte economica, ha sostituito
molti elementi di coesione nazionale e di identità in crisi (partiti politici, chiesa,
luogo di lavoro, tradizioni locali), oltre a produrre contro e sottoculture (si
pensi agli Ultras). Anche il mondo del calcio è quindi investito e vive la contraddizione
che caratterizza questa epoca: il superamento delle entità nazionali e locali per
effetto della globalizzazione economica e delle tecnologie della comunicazione,
e la necessità di conservare o avere un’identità, un’appartenenza di cui,
spesso suo malgrado, diventa interprete.
In questo senso, la vicenda della Superlega è, come
dicevamo, paradigmatica. I 12 club coinvolti (e anche molti sin da subito
contrari) sono da tempo squadre globalizzate e non a caso occupano (con
l’eccezione del Bayern di Monaco) tutte le prime posizioni della classifica mondiale dei tifosi dominata dal Manchester United con una stima di 650
milioni di tifosi, cui seguono Barcellona con 450 milioni e Real Madrid con 350
milioni. La prima italiana è la Juventus (ottava) con 27 milioni di tifosi in
tutto il mondo. Prendendo ad esempio il primo in classifica, la vendita delle
sue magliette nel globo è pari a 2.850.000 pezzi all’anno. Non è certo un caso se il disegno delle
casacche delle squadre cambia ogni anno e il numero delle divise di gioco per
stagione si moltiplica a dismisura. A livello proprietario, poi, questo aspetto
è ancora più evidente: fondi americani e arabi, società cinesi, magnati russi hanno
da tempo acquistato importanti squadre europee, molte delle quali direttamente
coinvolte nell’operazione Superlega. Anche laddove il quadro legislativo e la
tradizione favoriscono l’azionariato diffuso, come in Spagna e Germania, questo
non è certo un antidoto alla gestione dei campionati e dei club come imprese
economiche globali. In effetti, si parla ormai comunemente di “industria del
calcio” e le cifre economiche in campo non smentiscono certo questa
definizione. Il rapporto annuale sul calcio nel nostro paese di
PricewaterhouseCoopers Italia,
curiosamente a cura e con prefazione di Enrico Letta, fornisce un quadro
completo dell’impatto del calcio sull’insieme dell’economia nazionale. L’impatto
socio-economico generato dal professionismo calcistico, che riguarda poco più 1.300.000
persone tra calciatori, tecnici, dirigenti e arbitri, è calcolato in circa 3
miliardi di euro. L’apporto al PIL nazionale è dello 0,22%. Non una grande
cifra in termini assoluti, certamente sproporzionata al peso di cui gode da un
punto di vista politico e sociale questa “industria” un po’ particolare. Chi di
fronte alla Superlega si è indignato, invocando una presunta violazione di
chissà quale codice di onore e meritocrazia sportiva dell’attuale situazione, lo
ha fatto per interesse occultando i privilegi e i favoritismi di volta in volta
concessi anche della politica alle società più potenti e alla federazione che
le rappresenta: la FIGC. Basti ricordare che per ripulire la sua immagine screditata
dallo scandalo di “calciopoli”, solo uno dei
tanti nella sua storia, nel 2007 fu scomodato persino il giudice di mani pulite
Saverio Borrelli. La spinta alla trasformazione del calcio in business ha trovato un puntuale supporto
legislativo che ha permesso di mutare le società calcistiche in Spa, godendo
però di vantaggi e privilegi particolari. L’indebitamento complessivo dei club
di serie A nel 2019 ha sfondato i 4 miliardi di euro a fronte di un patrimonio
netto aggregato delle società pari a 551 milioni di Euro (BusinessInsider030321). Una situazione catastrofica, aggravata anche dal
Covid, e che però periodicamente beneficia di interventi a carico della finanza
pubblica per evitare il collasso. Si va dal Decreto “salvacalcio” del Governo
Berlusconi (all’epoca proprietario del Milan) fino alle misure del Decreto Rilancio
del 2020, che consentono in sostanza un rinvio di pagamenti fiscali e previdenziali,
la possibilità di spalmare l’indebitamento nei bilanci fino a venti anni, la
sospensione dei canoni di locazione e di superficie degli impianti sportivi,
ecc. Un trattamento di favore puntualmente giustificato dai governi di ogni
orientamento con l’esigenza di salvaguardare un’industria fondamentale e un
introito per l’erario e la previdenza di poco superiore al miliardo di euro
grazie anche al contributo del prelievo fiscale sulle scommesse. La politica e
la burocrazia statale si mettono a disposizione del calcio per interesse
elettorale o per alimentare un circuito di corruzione legato agli enormi flussi
di denaro anche pubblico legati al fenomeno del pallone. Il caso più
emblematico è stato il mondiale di Italia ’90 (FattoQuotidiano080620) costato alle casse dello stato 6.000 miliardi di
lire ,oggi rivalutabili in 7 miliardi di euro, e alla categoria degli edili 24
morti a causa delle deroghe alla sicurezza e alla pressione ad affrettare i
tempi nei cantieri. Cantieri di opere faraoniche inutili e già demolite, o
rimaste, come gli stadi frettolosamente ampliati o costruiti ex novo sulla base di previsioni di
pubblico assolutamente illogiche solo per farne lievitare i costi (fino al 180%
nel caso dello Stadio Olimpico di Roma), a carico delle casse comunali per
tutti gli oneri di mantenimento e gestione. Un ulteriore, perfetto esempio di profitto
privato a spese della finanza pubblica, dato che i ridicoli canoni che le
società calcistiche pagano, spesso in ritardo, ai comuni che hanno in gestione
gli stadi non compensano affatto il costo di mantenimento di questi impianti. Altri
17 milioni di euro sono stati spesi per ammodernare gli stadi che hanno
ospitato i Campionati Europei under 21 nel 2019. Questo ulteriore esborso non
ha affatto compensato la vetustà degli stadi italiani e la loro inadeguatezza rispetto
agli standard di fruizione da parte del pubblico cui sono orientate le maggiori
società di calcio internazionali. Il 93% degli stadi italiani è di proprietà
pubblica e ha una età media di 63 anni, e solo il 58% di posti al coperto. Da
questo punto di vista il divario con le società calcistiche del club dei 12 scissionisti,
anche per le squadre italiane coinvolte nel progetto, è enorme. Gli stadi
polifunzionali di ultima generazione, di proprietà e gestione dei club e non
più degli enti pubblici, come lo Stamford Bridge del Chelsea, il Tottenham
Hotspur Stadium, l’Allianz Arena del Bayern di Monaco, il Camp Nou del
Barcellona o Santiago Barnabeu del Real Madrid, solo per fare qualche esempio,
sono progettati per ospitare vari eventi tutto l’anno e rappresentano una fonte
di guadagno per i club in una logica di diversificazione delle entrate. Lo stadio più redditizio d’Europa, il Camp
Nou, per esempio, nella stagione 2017-2018ha generato un introito di 144
milioni di euro. Il gigantismo architettonico degli stadi da 160.000 posti come
il Maracanà brasiliano è stato sostituito da un modello esclusivo fatto di
posti a sedere, hospitality, box privati,
ristoranti, parcheggi sotterranei, musei, ecc., e ovviamente, biglietti sempre
più cari per fare della partita e della trasferta non più un appuntamento
settimanale, ma un “evento” cui assistere poche volte lasciando il resto alla
visione in tv. Solo la Juventus si è avvicinata in Italia a questo modello, ma
a Roma e a Milano il futuro elettorale degli attuali sindaci si gioca anche sulla
risposta da dare alle squadre della città rispetto ai loro progetti di ristrutturazione
di San Siro e dell’Olimpico. Né poteva mancare un provvedimento ad hoc
del Governo, che con Gentiloni ha varato una norma tesa a garantire la
“bancabilità” e semplificare l’iter burocratico a quelle società interessate a
investire in strutture sportive.
Nonostante gli stadi, il merchandising, gli sponsor,
i diritti televisivi, il botteghino, al profondo rosso di bilancio non sfugge
nessuno dei top club coinvolti nella
Superlega, a causa di una gestione societaria che se si confrontasse con i
criteri e le regole delle imprese economiche “normali” avrebbe già determinato
il fallimento e probabilmente l’incriminazione dei presidenti e degli organi
amministrativi. Il loro indebitamento complessivo ammonta a 7,7 miliardi di
euro, e il peggio probabilmente deve ancora arrivare, dato che si stima a causa
del Covid una perdita di ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di euro da ripartirsi tutti
a carico dei vari club.
Si sa che la fonte di introito principale del calcio
moderno sono i diritti televisivi sulle partite. Si stima che i diritti
televisivi della Superlega, considerato un potenziale di pubblico pari a 4
miliardi di tifosi nel mondo, con i relativi abbonamenti alle pay-tv, avrebbero
potuto ammontare a 10 miliardi di euro all’anno. 4-5 volte di più del valore
dei diritti televisivi dell’attuale Champions League da spartirsi, inoltre, non
più tra 32 squadre, ma al massimo tra 20. Senza contare le ricadute economiche
su tutto il resto dell’indotto: dagli sponsor
al merchandising. Un affare
potenzialmente enorme sia per le società coinvolte, sia per i loro azionisti, che
per la JP Morgan che contava su una redditività a due cifre del suo
investimento iniziale di 3.5 miliardi di euro. L’interesse economico dei
promotori dell’operazione è evidente, così come quello di quanti si sono
opposti con così tanta forza e, alla fine, efficacia. In assenza del top club le attuali competizioni
internazionali, così come i campionati locali se fosse andato in porto il
provvedimento di espulsione dei “ribelli”, si sarebbero rapidamente svalutati agli
occhi degli appassionati di calcio e, di conseguenza, anche degli sponsor e delle televisioni. Le squadre
e le competizioni escluse sarebbero entrate in un circolo vizioso tra meno
risorse disponibili, meno ingaggi di qualità, meno interesse praticamente senza
fine con il risultato di una polarizzazione sempre maggiore tra club super ricchi
e club in difficoltà.
Oltre che interessata, quindi, la levata di scudi da
parte della UEFA, della FIFA (sui cui scandali e corruzione si potrebbe
lungamente disquisire) e della FIGC è anche un monumento all’ipocrisia. Tra due
anni, infatti, nella stessa logica della Superlega che vede nella
moltiplicazione a dismisura delle partite il canale principale di aumento degli
introiti per le società calcistiche, la UEFA inaugurerà una nuova formula della
Champions League a 36 squadre che garantirà a ogni club partecipante un minimo
di 10 partite contro le attuali 3. Inoltre, nella stagione 2021-2022 prenderà
il via una terza competizione europea per club: la Conference League aperta a
184 squadre. Anche il Mondiale di Calcio nella prossima edizione passerà dalle
attuali 32 nazionali a 48. In Italia, infine, nessuno mette in discussione l’allargamento
del campionato a 20 squadre, la moltiplicazione dei tornei o che per
raccogliere qualche soldo dalle televisioni, le ultime finali della Supercoppa
italiana si sono giocate a Doha, Gedda e Riad.
La bulimia di incontri, paragonabile alla
sovrapproduzione di merci, sembra essere l’unica risposta del mondo del calcio modello
società per azioni globale alle sue difficoltà finanziarie. C’è da chiedersi se
e per quanto questa strada per certi versi obbligata potrà funzionare o non
finirà per logorare per troppa offerta e ripetitività anche l’interesse più radicato
del tifoso o dell’appassionato di calcio. Anche l’emozione di un clasico
Barcellona-Real Madrid se ripetuta per decine di volte può finire per annoiare.
Già oggi nel tifoso più giovane l’interesse per il calcio è più legato alla
socialità che ne deriva che allo sport in sé, e la partita vera e propria è seguita
attraverso gli highlights piuttosto che per tutta la durata dell’incontro (Fan of the future. Defining Modern Football Fandom).
La vicenda della Superlega asseconda e rivela un
fenomeno di polarizzazione della ricchezza, di proiezione verso un mercato
globale, di lotta senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse già
ben noto a livello economico complessivo e in via di ulteriore accelerazione in
questa fase e che non risparmia nessun settore, nemmeno il calcio. Inoltre, da
un punto di vista dei protagonisti: presidenti, dirigenti sportivi, manager,
calciatori, mostra la loro natura di super privilegiati interessati a
conservare e ad ampliare la loro condizione di distacco e di privilegio fatta
di spregiudicatezza finanziaria, senso di impunità, voli privati, feste, cene, tamponi
e vaccini proibiti ai più, ancor più evidente in questa fase di emergenza
sanitaria e di crisi economica. Un privilegio che è anche “salariale”, come
testimoniano due semplici cifre: tra il 2017 e il 2018 il costo del lavoro del
calcio professionistico è aumentato del
14,6%, mentre per i lavoratori dipendenti italiani aumentava tra il 2% e il
2,5%.
giovedì 7 gennaio 2021
The Best of (2020) the worst
La Gomera (Corneliu Porumboiu)
The Outsider (HBO-miniserie)
Mark Fisher - Il nostro desiderio è senza nome (Minimum Fax)
Jeff Parker - Suite for Max Brown
Laura Marling - Song For Our Daughter
Ben Lerner - Topeka School (Sellerio)
Devs (Hulu-miniserie)
Jonathan Bazzi - Febbre (Fandango)
Il Lago delle Oche Selvatiche (Diao Ynan)
Memorie di un assassino (Bong Joon-ho)
Bacurau (J. Dornelles & K. Mendoca Filho)
Luigi Nono - La nostalgia del futuro (Il Saggiatore-nuova edizione)
Normal people (BBC-miniserie)
Never Rarely Sometimes Always (Eliza Hittman)
(ri)scoperte pandemiche
Killing (Shinya Tsukamoto)
Grass (Hong Sang-soo)