venerdì 30 ottobre 2020

ON THE ROCKS di Sofia Coppola (2020)

 

È forse ozioso, ma inevitabile, pensare che On the Rocks sia un aggiornamento di Lost in Translation. O meglio ancora, una sua versione letterale che esplicita il rapporto padre/figlia là solamente vagheggiato.

Diciassette anni dopo, il legame fra la protagonista Laura (Rashida Jones), scrittrice benestante di Manhattan, madre e moglie in crisi creativa convinta che il marito rampante la tradisca, e Felix (Bill Murray), gallerista e bon vivant che aiuta la figlia a indagare con fin troppa solerzia, non ha nulla di ambiguo o incerto. Nel film le parole sono scandite chiaramente, nulla viene sussurrato all’orecchio e negato allo spettatore. Semmai avviene il contrario, perché a cadere nel silenzio sono i personaggi, incapaci di fischiare o convinti di perdere l’udito per le frequenze più lievi, dunque per le voci femminili.

Nella sua evidente superficialità, come tutti i film di Sofia Coppola, anche On the Rocks sa benissimo di essere sospeso sul vuoto, di raschiare il barile e di rischiare il nulla. On the rocks, per l'appunto, espressione che può indicare un probabile e imminente fallimento, come se Sofia Coppola ammettesse una volta per tutte, nel modo più semplice, intimo e lineare possibile, i limiti del suo mondo di riferimento e del suo sguardo.

Non c’è nemmeno straniamento, nell’esperienza di madre alto-borghese della protagonista Laura; né tantomeno alterità, follia o surrealismo nel cazzeggio compiaciuto di suo padre Felix. On the Rocks esprime solamente consapevolezza del proprio privilegio e, a fianco o mezzo passo indietro, un sentore di disagio persistente, come la colpa per un peccato non commesso. Il senso del plot praticamente inesistente è fin troppo chiaro: il problema di Laura non sono il marito che la lascia sovente sola o la crisi creativa che innesca quella familiare; il problema sono il vuoto che circonda la sua vita in un appartamento da sogno a Soho, in una città che ormai non esiste più per nessuno, nemmeno per quei pochi che ne possono ancora godere; sono l’egoismo autoassolutorio nel quale il padre l’ha cresciuta o la bellezza indiscutibile e mai messa in discussione dei suoi vestiti, delle sue abitudine, dei locali che frequenta, degli oggetti che maneggia. Anche la fuga da Manhattan, verso una splendida località turistica del Messico, si rivela uno sbaglio come un altro, con Laura sempre immersa in contesti di bellezza senza riverbero, tra luci curate e colori calibrati, ripresa da inquadrature semplice, perfette, sostanzialmente piatte. 

Viene in mente un paragone con il cinema di Guadagnino, e in particolare con il corto The Staggering Girl: il regista italiano con la bellezza e la ricchezza ha un rapporto di raffinata passione, di decadente voluttuosità; Sofia Coppola, invece, dà per scontato il proprio mondo e per questo non sa cosa farsene. E di fronte alle ninfee di Monet (che Laura e Felix osservano nell’appartamento di una novantenne milionaria) lo sguardo resta come sempre incerto: non indifferente, nemmeno inerme, bensì offuscato. Poi, nell'inquadratura successiva, Laura è immersa nelle strade di New York attorniata da una luce bellissima, perché Sofia Coppola ha un talento enorme - e su questo non si discute. Ma come per la sua vita, anche di quello non ha saputo bene cosa farsene.

On the Rocks è la forma più onesta del cinema di Sofia Coppola, l’unica che la regista conosca. Un film ripetuto e ripetitivo. Un film vuoto su un vuoto, senza che tutto questo basti per farne un film bello. Un film, ancora, che si sostituisce a un altro, come l’orologio del marito, nel finale, sostituisce quello del padre...

Oggetti, scene, regali, silenzi, film, vita: tutto sullo stesso piano, tutto in superficie. Niente che vada perduto, niente da conservare veramente.

pubblicato su cineforum.it, 25/10/20 di Roberto Manassero

mercoledì 1 luglio 2020

Stephen Markley - Ohio (Einaudi)

Primo romanzo di Stephen Markley, un prodotto di quell’Iowa Writers Workshop che rimane la miglior scuola di scrittura degli Stati Uniti, Ohio (Einaudi Stile libero, traduzione semplicemente perfetta di Cristiana Mennella, pp. 544, € 21,00) si apre con un funerale. A essere sepolto è Rick Brinklan, ex star del football nel liceo di New Canaan, cittadina della Rust Belt, l’antico cuore industriale dell’economia americana colpito dallo spopolamento, dalla crisi del settore siderurgico e da un irreversibile decadimento urbano. Rick, patriota senza se e senza ma, si è arruolato subito dopo l’11 settembre e ha prestato servizio in Iraq, trovandovi la morte.


L’incipit del romanzo di Markley è un omaggio così elegante e insieme smaccato da far sospettare persino un intento parodico, e merita di essere citato quasi per esteso: «Il feretro non conteneva nessuna salma. La bara Star Legacy modello Platinum Rose in acciaio calibro 18, in prestito dal Walmart locale, era solo ricoperta da una grande bandiera americana. Ottobre era stato invaso da una precoce ondata di freddo invernale e una corrente d’aria violenta, instabile, sfrecciava per New Canaan, imprevedibile come i capricci di un bambino».

Il percorso del feretro
Impossibile non pensare al «fronte freddo autunnale» che inaugurava Le correzioni di Jonathan Franzen: un romanzo nel quale alcuni recensori hanno visto una sorta di geniale prefigurazione dell’11 settembre, ma che soprattutto sembra aver fissato un nuovo modello per la narrativa americana, segnato da un recupero del realismo, ma soprattutto dalla stipula di un vero e proprio patto con il lettore, al quale non si chiedono sforzi erculei o voli pindarici, ma solo la volontà di seguire un intreccio complesso di storie e personaggi, con la garanzia che, all’ultima pagina, i conti torneranno.

Il Preludio a Ohio prosegue sulla stessa falsariga dell’incipit, producendosi in uno strepitoso piano-sequenza nel quale il percorso del feretro lungo la High Street offre all’autore il destro per enucleare, attraverso le reazioni della folla radunata sui bordi della strada, quello che forse è il vero tema del romanzo: il tentativo di esorcizzare la morte, che sta mietendo le sue vittime tra guerre estere e tossicodipendenze, – aggrappandosi «all’idea di ciò che era New Canaan, dei valori che rappresentava, le speranze che creava».

Quando però il Preludio sta per concludersi, con un twist da romanziere postmoderno, Markley mescola le carte in tavola. «Rispetto alla nostra storia», ci tiene a sottolineare, «la parata è importante non per le persone che vi parteciparono ma per le persone assenti quel giorno».

I quattro protagonisti del romanzo, che prenderanno la scena uno dopo l’altro, rivivendo spesso le stesse scene del passato e incrociando le rispettive traiettorie, non partecipano al funerale «per ragioni personali» (che scopriremo nel corso del romanzo), ma tornano a New Canaan sei anni dopo, ognuno spinto da una sua motivazione, convergendo «su questa cittadina dell’Ohio da nord, sud, est e ovest».

Il mistero nel pacchetto
Il romanzo di Markley in realtà comincia qui: «con quattro automobili e i relativi occupanti» e con un altro caveat in pieno stile postmoderno: «Difficile dire dove finisca questa storia o come sia cominciata, perché una delle cose che alla fine imparerete è che il concetto di linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo e moriamo tutti».

In che cosa consista questo sogno appare evidente sin dalla prima sezione, che ha per protagonista Bill Ashcraft: ex campioncino di pallacanestro, rivale (anche) in amore di Rick Brinklan; progressista, pacifista, contrario all’intervento americano e imbevuto di una retorica anti-sistema, che a tratti rischia di farne il portavoce dell’autore (e le pagine che ne derivano sono tra le meno convincenti del romanzo). Bill ha lasciato da tempo New Canaan per inseguire i suoi sogni vedendoli naufragare uno dopo l’altro; vi fa ritorno per consegnare un misterioso pacchetto a Kaylyn, ex ragazza di Rick con la quale aveva avuto una storia, e guarda con un misto di rabbia e disincanto una città nella cui deriva, da alcolizzato e tossico, non può che specchiarsi. Agli ideali di gioventù è subentrato un vuoto insensato, al quale si può forse trovare rimedio solo idealizzando i ricordi e reclamando un tempo, quello dell’adolescenza, del liceo, nel quale a ogni lite seguiva una pacificazione, e a ogni errore c’era sempre la possibilità di porre rimedio.

Rievocando un pomeriggio trascorso in riva a un lago insieme alla sua ragazza di allora e ai suoi amici, Bill tocca un momento di struggente nostalgia, nel quale sembrano risuonare le atmosfere dolceamare di classici adolescenziali come L’ultimo spettacolo, di Larry McMurtry: «Bill era steso al sole vicino alla sua ragazza, languidamente, perdutamente ubriaco. A sua memoria, fu l’ultima volta in cui erano stati giovani e basta, i litigi non duravano, i peccati erano scevri di qualsiasi forma di cattiveria. Aveva delle amanti, sì, ma molto amate. Faceva del male agli amici, come no, ma erano ancora fratelli d’infanzia. Perché erano solo dei ragazzi, e quel giorno bevvero, ballarono e risero guardando il cielo azzurro, e fu come se davvero si potesse aggiustare e perdonare qualunque cosa».

Il sogno di Bill non gli appartiene in esclusiva ma accomuna, con modalità differenti, anche gli altri tre personaggi che raccolgono il testimone del racconto. E che tutti tornano a New Canaan per recuperare un pezzo del loro passato che è andato perduto. Stacy Moore vuole ritrovare la ragazza, Lisa, che le ha fatto scoprire la propria omosessualità e che è scomparsa senza lasciare traccia; Dan Eaton, reduce di guerra tornato dall’Afghanistan ferito nell’anima e con un occhio in meno, ha la possibilità di incontrare nuovamente Hailey, il suo primo e unico amore; Tina Ross, infine, torna a New Canaan per parlare con Todd, il campioncino di football che l’ha brutalizzata e abbandonata senza neppure concederle una spiegazione.

Prodigi tecnici non esibiti
L’operazione di recupero, alla prova dei fatti, si dimostra impossibile: forse perché è proprio il passato ad aver generato le ferite di cui tutti i personaggi soffrono, quasi che le loro singole vite fossero lo specchio fedele di una deriva che tocca il paesaggio urbano, avvelena i rapporti sociali, precipita non solo la Rust Belt ma il Paese intero in un abisso senza ritorno.


Ohio non è un romanzo perfetto. Non ha torto Dan Chaon, che lo ha recensito per il New York Times, a rilevarvi una serie di eccessi dichiarativi e di sbilanciamenti retorici che a tratti possono infastidire. Ma le qualità prevalgono nettamente sui difetti, e fanno sì che in tutto il corso della narrazione si susseguano prodigi di tecnica non esibita, tanto nell’alternanza fluida tra passato e presente quanto nella capacità di evocare i disastri della deindustrializzazione come quelli della guerra. Tanto basta per considerare Stephen Markley un talento da seguire con attenzione, e una delle voci destinate a segnare il romanzo americano dei prossimi anni.

Pubblicato su Il Manifesto, 24/05/2020 di Luca Briasco

lunedì 29 giugno 2020

Matthias & Maxime di Xavier Dolan (2019)




Matthias ha tutto dalla vita: una ragazza che lo ama, una famiglia importante alle spalle e un lavoro che gli sta garantendo una carriera di successo. Maxime, invece, ha un’esistenza che è l’esatto opposto. Il ragazzo, infatti, deve inventarsi ogni giorno una prospettiva e, schiacciato da una madre terribile che cerca invano di salvare, la disperazione invade ogni suo gesto. I due, però, sono amici da sempre. Alla vigilia della partenza di Maxime, diretto per l’Australia, in cerca di una felicità, la coppia si rivede insieme ad altri compagni per una reunion in una casa sul lago. Una scommessa persa e il casting coatto per il corto sperimentale di una loro amica, costringerà i due amici a baciarsi. Un attimo imprevisto che stravolge il loro rapporto, facendo scattare qualcosa di inaspettato.

Dopo il “disastro” di La mia vita con John F. Donovan, Dolan sembra stia pagando sulla propria pelle il disagio di essersi scottato. Il suo primo grande film americano, con cast hollywoodiano e grandi ambizioni, non è stato, infatti, il successo ci si aspettava, relegato presto in un indeterminato dimenticatoio artistico (il film in alcuni paesi non ha nemmeno avuto una distribuzione in sala). L’infelice esperienza deve aver avuto un peso determinante sul regista canadese che, come i suoi personaggi ha vissuto tutto con il terrore di essersi bruciati, l’angoscia di precipitare in un vuoto di anonimato. Quanti giovani autori, pompati e santificati dalla critica mondiale, abbiamo visto sparire nel giro di pochi anni, destinati a una carriera sbagliata? Il fiato mortifero del fantasma del natale futuro è apparso alle spalle di Xavier, sussurrandogli quello che sarebbe potuto essere il suo destino di promessa mancata. Con l’umiltà di chi si è reso conto di aver forse esagerato e con la paura di chi, invece, deve dimostrare qualcosa (agli altri o a se stesso?) Dolan torna con Matthias & Maxime alle dimensioni essenziali dei suoi primi film, realizzando un’opera piccola, lineare, emotiva.

L’inadeguatezza di Xavier si riversa, infatti, nel suo sofferto personaggio. Sbagliato, arrabbiato e triste, con quel marchio sul volto che lo accompagna dalla nascita, Maxime è la sintesi di tutta l’irrequieta voglia di Dolan. Non importa che la sua intrepretazione sia spesso sproporzionata e disturbante, annichilita dal confronto con i suoi compagni di set. Il regista sente l’esigenza di essere presente in questo suo secondo esordio. La sua prova, e tutte le sue incongruenze, si immerge con naturalezza nel fluido equilibrato di un film che, da regista, sa tenere insieme alla perfezione. Dolan ha sempre avuto talento, è innegabile. La consapevolezza emotiva, però, che passa dalle scene di Matthias & Maxime si ripercuote in scelte sempre lucide e presenti. La sceneggiatura eccitata ma mai referenziale, le canzoni (il grande vanto di Dolan) finalmente giuste, e uno sguardo registico empatico, non ostentato o arrogante, segnano un cambio di rotta cosciente e sorprendente.

Matthias & Maxime non è un film che parla di omosessualità repressa, di tensioni sessuali esplosive. Più che di sesso o di identità, il bacio incriminato, quest’attimo imprevisto di intimità ci parla di qualcosa che va oltre. Quella tra Matthias e Maxime è una storia d’amore tra amici, è il racconto di quanto sia essenziale e stravolgente, ancora oggi, il contatto umano. Quante volte abbiamo avuto paura di esternare i nostri sentimenti a chi abbiamo vicino? Quante volte abbiamo dovuto sopprimere emozioni perchè non è il momento, non è giusto, non risponde all’immagine sociale che ci siamo tanto faticosamente attaccati addosso? Il bacio, questo bacio, rompe definitivamente tutte le nostre sovrastrutture, le nostre convenzioni da quattro soldi. In quelle labbra che si toccano e non si riescono a staccare, non leggiamo solo “Io ti voglio” ma “Sei stato importante per me“, “Ci sarò sempre“, “Mi mancherai“.  Emozioni che, dette a voce, non hanno alcun senso. Perchè le parole, lo sappiamo, spariscono nel vento. Sono i gesti enormi, improvvisi, estremi, come un bacio, a rimanerci dentro per tutta la vita.
pubblicato su sentieriselvaggi.it il 29/6/2020 di Luca Marchetti

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Matthias & Maxime è stato accolto con grande affetto alla settantaduesima edizione del Festival di Cannes. Nulla di sorprendente, verrebbe da dire, ma solo l’ennesima conferma di ciò che significa essere dei “figliol prodighi”. Xavier Dolan torna infatti in concorso dopo le polemiche che seguirono la sua ultima montée de marche con Juste la fin du monde, che videro il regista pretendere dal festival maggior rispetto per i film e protezione dagli “attacchi” e “insulti” lanciati tramite i social network dagli accreditati – e parte consistente dei problemi che la stampa ha avuto quest’anno sulla Croisette germinano proprio da quelle rimostranze – e ancor più dopo aver auto-sabotato il suo primo film con produzione anglofona, The Death and Life of John F. Donovan, con risultati al botteghino a dir poco preoccupanti (a fronte di una spesa che si aggira intorno ai 30 milioni di dollari il film ha incassato a livello mondiale meno di 5 milioni di dollari). Inevitabile dunque lo srotolamento preventivo del tappeto rosso per questo giovanissimo cineasta canadese che a trent’anni appena compiuti ha già terminato otto lungometraggi. Un enfant prodige, ma che inizia a mostrare evidenti segni di stanchezza espressiva. Dopo la sbornia statunitense e i suoi effetti negativi, Dolan torna in Canada, nel suo Québec, e torna al francese come lingua madre e unico veicolo espressivo possibile. Non è certo un caso che l’incipit del film, un fine settimana tra amici alla casa al lago di uno di loro, punti moltissimo sulla guerra tra il francese e la lingua dominante, imperiale: la regista amatoriale del cortometraggio pseudo-sperimentale Limbo, per colpa del quale si genereranno tutti i dubbi esistenziali dei due protagonisti del titolo, mescola al québécois delle parole anglosassoni, creando un mélange linguistico fastidioso almeno quanto le sue mossette e il suo atteggiarsi.

Come accadrà per la maggior parte degli stimoli disseminati nel corso del film, però, Dolan non sembra aver alcuna intenzione di svilupparli, e neanche di configurarli in un sistema d’immagini che acquisisca corpo e vita. Di fatto la prima macro-sequenza del film, che contiene al proprio interno anche la più sublime delle intuizioni di Dolan (la lunga nuotata notturna di Matthias nel lago, con la macchina da presa che sembra sbracciare nervosa e quasi disperata con lui), rappresenta anche l’atrofizzazione della narrazione. Quella ricerca del proprio desiderio, che dovrebbe essere il punto attorno al quale ruota il film, non esplode mai, non deflagra sullo schermo. Certo, Dolan si affanna a costruire un immaginario che rifletta la sua potenza espressiva, accelerando e rallentando l’azione, mescolando la tragedia intima al bozzetto grottesco anti-borghese, nel tentativo non troppo riuscito di rassodare le forme di un’opera che si ritrova a respirare in modo asfittico. Il problema, forse, è che se di troppa ambizione si può esplodere, di troppa semplicità si corre il rischio di sgonfiarsi. Matthias & Maxime è un film che potrebbe essere aggettivato come piccolo. Ha pochi interpreti, poche situazioni quasi sempre in interno, dialoghi sempre brillanti. Dolan evita le scene madri, si diverte a eliminare completamente dalla scena la figura paterna – perfino quando dovrebbe farsi sentire al telefono uno dei genitori fa telefonare dalla sua segretaria – e per il resto cerca le coordinate di un coming of age classico, con la scoperta della propria sessualità come perno attorno al quale far ruotare i personaggi.

Non si può certo accusare di insincerità Matthias & Maxime, né sarebbe giusto disconoscere a Dolan i meriti di un talento registico innegabile, ma l’impressione è che la gabbia che l’autore di Mommy e Laurence Anyways si è costruito attorno sia ben lontana dall’essere scardinata. La volontà di depotenziare il côté melodrammatico è evidente e apprezzabile, ma il tutto finisce per ridursi a una presa di coscienza un po’ superficiale e senza molto da dire non solo sul tema (nemico pubblico numero uno di un film di questo tipo) ma soprattutto sui suoi personaggi, privi di una psicologia in grado di giustificare o meno comportamenti o scelte di vario tipo. Matthias & Maxime è l’ottavo lungometraggio della carriera di Dolan, come già scritto, ma paradossalmente ha le forme, il respiro e perfino le ambizioni di un’opera prima del Sundance Institute. La maturazione del Dolan autore appare ancora lontana. Restano gli improvvisi scarti registici, alcuni dialoghi brillanti, la bravura degli interpreti – in particolar modo lo stesso regista, che interpreta Maxime – e l’utilizzo mai banale del repertorio musicale. La speranza è che prima o poi Dolan riesca a uscire dal proprio cono d’ombra aprendosi davvero al mondo che lo circonda. Ma in ogni caso c’è chi, non c’è da dubitarne, saprà accontentarsi.
pubblicato su quinlan.it il 23/5/2019 di Raffaele Meale

presentato a Cannes nel 2019 e distribuito da Lucky Red dal 27 Giugno 2020 in streaming

lunedì 11 maggio 2020

FAVOLACCE di Damiano e Fabio D'Innocenzo (2020)



Favolacce è l’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo  a due anni di distanza da La terra dell’abbastanza. Racconto corale ambientato a Spinaceto, quartiere a sud di Roma e a una quindicina di chilometri dal mare, Favolacce mette in mostra un cinema elegante e barbarico, e un immaginario a cui la produzione italiana non è più abituata. Crudele racconto di una giovinezza senza speranza alcuna, Orso d'Argento alla Berlinale 2020.

Una favola nera che racconta senza filtri le dinamiche che legano i rapporti umani all’interno di una comunità di famiglie, in un mondo apparentemente normale dove la rabbia e la disperazione sono pronte ad esplodere.

Cosa sono le favolacce, se non il racconto quotidiano di un’esistenza priva di scopo, di ragione, perfino di direzione? Se le possono raccontare tra loro i bambini sottovoce, la notte prima di addormentarsi, o possono condividerle attorno a un tavolo due famiglie che decidono di cenare insieme, oppure le si possono ascoltare alla televisione, quella televisione che non cerca più neanche di trovare il senso agli accadimenti ma lascia che la cronaca cruda entri con la sua dirompente violenza nelle case di persone che guardano e ascoltano distrattamente. Inizia con un tono fiabesco il secondo film dei fratelli D’Innocenzo (gemelli trentunenni che esordirono due anni fa con il bel noir sottoproletario La terra dell’abbastanza): un uomo, la cui voce narrante tornerà di quando in quando a far capolino nel corso del film, afferma di aver trovato il diario di una ragazzina, scritto con la penna blu, e di aver deciso una volta arrivato alla sua fine, di continuarlo a sua volta. Quindi, per dirla con le parole del narratore, Favolacce è ispirato a una storia vera, a sua volta ispirata a una storia falsa. La storia falsa, conclude la voice over, non è molto ispirata. Giocano da subito con le forme del linguaggio i D’Innocenzo, quasi a sottolineare la volontà di far percepire un’evoluzione dall’esordio; lì, nel suburbio di Ponte di Nona, grigia periferia della Capitale, si doveva aderire al reale, o supposto tale, per poter entrare in contatto con quell’umanità giovanile e vitale, nonostante la necessità – quasi ineludibile – di uccidere. Nella Spinaceto che è il cuore pulsante di Favolacce ci si può facilmente smarcare da questa adesione alla verità: da quella si parte, in ogni caso, perché il telegiornale riporta la notizia tragica di due genitori che hanno ucciso la figlia appena nata per poi gettarsi a loro volta dal balcone. Ma si cambia immediatamente registro, già durante una cena tra due famiglie amiche e vicine: dopo aver parlato del lavoro che non c’è, e che il capofamiglia di uno dei due nuclei vorrebbe trovare (un sempre ammirevole Elio Germano, in una prova attoriale completamente dissimile, per timbriche e posture, a quella messa in mostra in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, a sua volta in concorso alla Berlinale), si passa ai figli, che devono leggere in maniera plateale, quasi teatrale, i voti delle loro pagelline. Tutti 10, eccezion fatta per un 9 che la figlia più piccola ha preso in condotta.

Per una volta, rarità assoluta nello scenario cinematografico dell’Italia di oggi, un luogo non serve a marcare le esistenze che lo agitano. Anzi, la Spinaceto mostrata nel film è anonima, del tutto priva di identità, per niente caratterizzata, se non per quella struttura fatta di villini a schiera che poco si adegua all’immaginario capitolino e metropolitano, e sembra semmai veleggiare dalle parti del Tim Burton degli esordi e dei fratelli Coen (ma anche Todd Solondz, ovviamente). E non è un caso, forse, che il registro scelto sia quello del grottesco, senza però che questo aspetto vada in alcun modo a intaccare la sincera tragicità di un microcosmo ebete, nevrastenico, insoddisfatto senza neanche essere in grado di comprenderlo, invidioso dell’altro e attaccato solo agli eredi. I figli, le nuove generazioni. Unica speranza di emancipazione di un’umanità che non ha fatto nulla della propria vita. Non si sa che lavori facciano gli adulti di Favolacce, se non che uno di loro è cameriere in un ristorante. Lo si ignora perché questo aspetto non ha nulla a che vedere con la mediocrità delle esistenze dei personaggi in scena.

Da un punto di vista narrativo i gemelli procedono in modo ellittico, sfiorando le vite degli abitanti del quartiere nel corso dei mesi, dall’inizio dell’estate fino al ritorno sui banchi di scuola. C’è una ragazza giovanissima incinta e sul punto di partorire, i due fratellini che tanto vanno bene a scuola, una ragazzina che invece tanto bene non va e per di più si prende i pidocchi ed è costretta ad andare in giro con una parrucca à la Mia Wallace, il figlio del cameriere che potrebbe riuscire a perdere la verginità solo grazie al morbillo, visto che la madre di una sua amichetta (quella della parrucca) pretende che anche sua figlia riceva in dono la malattia esantematica.

Così come sono ordinate e all’apparenza impeccabili le villette a schiera (ma il cameriere con il figlio vivono in una casetta prefabbricata isolata che sembra uscita fuori dal sud degli States, quei territori abitati dalle macchine da presa di Terrence Malick o David Gordon Green; e infatti il padre emancipa il pargolo facendogli guidare il suo pick-up), altrettanto sono disordinate sia le vite che vi si svolgono all’interno sia il racconto episodico dei D’Innocenzo. Un racconto che si riempie di turpitudini, cercando idealmente lo sposalizio tra la New Hollywood – e quel che venne dopo – e la parte più esacerbata della commedia all’italiana, come se i Coen, Malick e l’Ettore Scola di Brutti, sporchi e cattivi potessero unirsi in un unico amplesso, vitale e mortifero allo stesso tempo (nei rintocchi della colonna sonora a un certo punto pare echeggiare anche un passaggio dello score di Stelvio Cipriani per Reazione a catena di Mario Bava, altro film che potrebbe benissimo dare del tu a Favolacce). All’interno di una produzione cinematografica per lo più anodina o protesa verso l’educazione del pubblico, i giovani gemelli D’Innocenzo diseducano lo sguardo sempre più prono verso il piccolo schermo ricordando quali siano le potenzialità del cinema, del racconto per immagini (la messa in scena è stordente e sempre brillante, senza mai perdere in eleganza formale), e allo stesso tempo quanto sia necessaria la messa in mostra delle atrocità del vivere, e di un’umanità non più vista come elemento d’analisi sociologica ma come esseri viventi che urlano, sbraitano, e possono essere sgradevoli, sguaiati (i commenti triviali dei due vicini di casa quando alla festa arriva una mamma che “non si è messa le mutande” vengono spinti ben oltre il canonico, senza censura alcuna), violenti, vili, orribili. In questa diseducazione l’unico atto di formazione possibile è quello che passa per la (auto)distruzione. Sempre consci che si può fuggire da Spinaceto – come ricordava Nanni Moretti in un celeberrimo passaggio di Caro diario – ma non si deve nutrire la speranza di trovare l’Eldorado una volta entrati nel Grande Raccordo Anulare (ma il discorso ovviamente non varrebbe solo per Roma e neanche solo per l’Italia). E non si può mai davvero dormire. Non si riesce più a dormire. E allora tanto vale accendere la televisione, e ascoltare le notizie delle tragedie degli altri.

Pubblicato su quinlan.it il 02/25/2020, di Raffaele Meale

venerdì 28 febbraio 2020

LA GOMERA - Corneliu Porumboiu (2019)



Cristi è un ispettore di polizia corrotto da trafficanti di droga, è sospettato dai suoi superiori e messo sotto sorveglianza. Imbarcato controvoglia dalla conturbante Gilda per l’isole de La Gomera, deve imparare nel minor tempo possibile il Silbo, una ancestrale lingua fischiata. Grazie a questo linguaggio segreto potrà liberare in Romania un mafioso che si trova in prigione e recuperare i milioni di euro nascosti. Ma non tutto è così semplice.

La Gomera (il titolo internazionale è The Whistlers) arriva in concorso alla settanduesima edizione del Festival di Cannes e spariglia tutte le carte dimostrando di possedere una dote sempre più rara nel cinema d’autore, europeo e mondiale: saper narrare con estrema naturalezza un racconto popolare senza per questo lasciare in secondo piano la riflessione teorica. Non è certo un caso che a mettere in scena questo prezioso gioiello sia Corneliu Porumboiu, che Cannes – per l’esattezza la Quinzaine des réalisateurs – scoprì nel 2006 all’epoca dell’esordio A est di Bucarest e che sempre sulla Croisette portò nel 2009 Police, Adjective e nel 2015 The Treasure, questi ultimi due entrambi inseriti nel programma di Un certain regard. La Gomera segna dunque la prima volta di Porumboiu all’interno della corsa per la conquista della Palma d’Oro, un riconoscimento che in questo momento parrebbe tutt’altro che peregrino.

Porumboiu riprende le fila del discorso da dove si era interrotto con The Treasure, a sua volta opera che ruotava attorno alla riconquista di un tesoro – lì era denaro risalente all’epoca di Ceausescu, qui il frutto del narcotraffico della mafia – e se sui titoli di coda di quel film irrompevano le musiche di Life is Life dei Laibach a dominare la scena nell’incipit di La Gomera è l’arcinota melodia di The Passenger di Iggy Pop. Quello che può sembrare solo un dettaglio, o il vezzo di un amante del rock, nasconde invece al proprio interno il senso della ricerca teorica che il regista rumeno svilupperà nel corso del film.
Come già accaduto in passato, si prendano ad esempio Police, Adjective e The Second Game, Porumboiu riflette sulle dinamiche relazionali tra i personaggi ragionando sui codici del linguaggio, sia esso verbale, visuale o puramente sonoro. È un suono ma anche una lingua il Silbo, il fischio con cui i pastori dell’isololotto de La Gomera nelle Canarie riuscivano a comunicare a distanza di chilometri, come fossero uccelli o scimmie urlatrici. Ed è un linguaggio anche la scelta dei diversi brani che compongono la ricca colonna sonora, dal rock rampante di Iggy Pop ad arie celebri come Casta Diva fino ad arrivare all’Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach. Brani che compongono un percorso, una contro-narrazione, che servono a “educare”, come sottolinea il nuovo concierge del sordido alberghetto in cui i soldi sono nascosti. Ed è un’opera a suo modo educativa, La Gomera, perché insegna a spettatori spesso troppo disattenti o abituati a un cinema preconfezionato che la materia narrativa è qualcosa su cui si può lavorare, approfondendo discorsi che potrebbero apparire anche ostici senza per questo dimenticare l’urgenza dell’intrattenimento.

Porumboiu dirige infatti un noir in piena regola, con tutti i crismi necessari: c’è il poliziotto corrotto, la sua capa che lo utilizza come talpa, la femme fatale, l’arzigogolato piano criminale, e via discorrendo. Eppure ogni passaggio del film serve a sottolineare l’importanza dell’utilizzo dei codici di linguaggio. Il fischio è uno strumento linguistico utilizzato da tempo immemore nello sperduto isolotto atlantico, ma è poi così dissimile da quello di cui si servivano le tribù native nel nord dell’America, come testimonia non un documento reale, ma una sequenza di Sentieri selvaggi che Cristi, il poliziotto corrotto, e la sua superiora Magda guardano alla cineteca di Bucarest.

Ed è inevitabilmente il cinema il punto di caduta che più interessa Porumboiu. L’immagine, la cui verità non può essere messa in dubbio neanche quando la finzione è dichiarata, come certifica la sequenza in cui la bella Gilda si finge una prostituta d’alto bordo per giustificare agli occhi degli “spioni” della polizia la sua presenza in casa di Cristi. Quel rapporto sessuale, costruito ad arte, diventerà il grimaldello sentimentale che in un modo o nell’altro sconvolgerà la prassi del piano, con tutte le conseguenze del caso. È di nuovo il cinema a ricostruire il vero quando Gilda e Magda si trovano a tu per tu, pistola contro pistola, davanti all’ospedale in cui è internato Cristi. Quest’ultimo sente lo sparo mentre sta vedendo la televisione, e se ne accorgerebbe anche l’infermiere che è con lui in camera se in televisione non fosse trasmessa la sequenza d’azione di un poliziesco, con tanto di sparatoria incorporata.

Facendo ricorso a tutti gli stratagemmi possibili – specchi, finestre che incorniciano i personaggi, camere di sorveglianza – Porumboiu ricompone la narrazione attraverso frammenti tra loro solo all’apparenza inconciliabili, e così fa anche con un racconto che va avanti e indietro nel tempo “fingendo” di interessarsi di volta in volta di un personaggio diverso. Divertentissimo e appassionante noir che non smentisce mai la propria forma per pretese autoriali La Gomera è un piccolo capolavoro, testimonianza della vitalità della scena rumena e del ruolo di primaria importanza svolto da Porumboiu. Arrivasse in dono un premio rilevante sulla Croisette forse inizierebbe ad accorgersene anche la distribuzione italiana, con solo un decennio di ritardo.

Pubblicato su quinlan.it il 05/19/2019, di Raffaele Meale

lunedì 3 febbraio 2020

DIAMANTI GREZZI di Ben Safdie, Joshua Safdie (2019)


Ultimo baluardo del cinema indie americano, Benny e Josh Safdie, giunti al terzo lungometraggio di finzione, proseguono ardimentosi nel loro percorso autoriale dissertando per immagini, in Diamanti grezzi (Uncut Gems), su uomo e capitalismo, cosmo e denaro, mentre esplorano, ancora una volta, il produttivo binomio tra supporto fisico (la pellicola) e performance attoriale. L’incanto visivo della loro regia fluida e precisa, l’inventiva narrativa di questa nuova odissea urbana e umana trafiggono gli occhi e stimolano le sinapsi, con un continuo rimestare tra cellule e minerali, uomini e cose, sentimenti e metafore, mentre il paradosso regna sovrano, dentro e fuori dal film: Diamanti grezzi è girato in 35mm, visibile solo su Netflix.

Colori saturi e grana bene in vista, la pellicola fotografata mirabilmente da Darius Khondji (Okja, Civiltà perduta, Amour, Midnight in Paris, per citare qualche titolo) riserva momenti di puro piacere visivo, tra improvvise tinte bluastre pronte a sprigionarsi dai neon delle gioiellerie del Diamond District newyorkese, immersioni lisergiche nella materia e una sorprendente sequenza sotto luci ultraviolette ambientata in un locale notturno. Nuovo tassello di una già brillante carriera, Diamanti grezzi prosegue l’indagine umana dei due registi ampliandone la portata metaforica, senza offrire, come d’abitudine, alcuna morale o messaggio pre-confezionato sul protagonista e le relative vicende. Se il precedente Good Time lambiva i toni del dramma sociale statunitense e concedeva a Robert Pattinson di esprimersi in una prova fisica ai limiti dello slapstick, in Diamanti grezzi la scena è stabilmente governata da Adam Sandler, la cui parlantina tonitruante in slang ebraico-newyorkese, accompagnata dall’appropriata gestualità nervosa, costituisce la vera forza centrifuga di ogni singola inquadratura. Recitando costantemente tra i denti, questo stand up comedian raffinato e brutale offre allo spettatore prova costante del suo talento attoriale, opportunamente esaltato dalla devozione che i due registi gli dedicano senza sosta, proponendosi così quali degni eredi del cinema empatico e straziante, performativo e libero, di John Cassavetes. Come il Cosmo Vittelli incarnato da Ben Gazzara in L’assassinio di un allibratore cinese anche l’Howard Ratner di Adam Sandler è uno scommettitore compulsivo, poco interessato in fondo al denaro di per sé, guidato solo dall’istinto e dal desiderio di rischiare, e vincere.

Tutto ha inizio per lui in un altro tempo e un altro luogo, nel 2010, tra gli ebrei etiopi che scavano, anche al costo della vita, in una miniera. Lì, dalle viscere delle terra, viene estratto un opale nero, ancora incastonato nella roccia, pietra millenaria ma sondabile, le cui componenti minerarie non sono affatto diverse da quelle che troviamo, pochi istanti dopo, nel corpo di Howard. Disteso su un lettino ospedaliero, mentre gli viene effettuata una colonscopia, il nostro antieroe è vulnerabile, ma pronto a rialzarsi, marionetta impazzita nelle mani dei suoi autori, galvanizzata continuamente, all’interno del racconto, dal denaro e dal suo scorrere impetuoso. Howard è così, può essere solo o inerte o scatenato, nessuna via di mezzo. È il mattatore folle e logorroico di una realtà che vuole ricacciarlo in un buco nero. È un gioielliere traffichino, un gambler made in USA senza desiderio di redenzione.
Il cognato, Arno (Eric Bogosian), rivuole indietro un prestito di 100mila dollari e gli ha scatenato contro i suoi scagnozzi, la moglie brama il divorzio, l’amante e sua dipendente lo ama follemente, lui è uno nessuno e centomila, il family man che porta via la spazzatura e presenzia alla recita della figlia, l’intrallazzatore immerso in baratti, compravendite, transazioni, interessi e strozzini, vecchie tradizioni, Storia e Geologia, Religione e Minerali, cellule e atomi, vitalità e morte.

Attraverso di lui si manifesta l’ultima frontiera del capitalismo, ipertrofico, insensato, dove il lavoro dell’uomo non produce più nulla da tempo e l’oggetto (l’opale nero), proprio come il denaro, ha il valore che l’uomo gli attribuisce. Entrambi poi non sono che “materia”, proveniente dalle viscere della terra e pronta a dissolversi in essa. Tetra eppure vitalistica metafora offerta alla nostra libera interpretazione, Diamanti grezzi è ad oggi il frutto più maturo della filmografia di Benny e Josh Safdie, la cui fascinosa estetica retrò, frutto di un manierismo mai ruffiano, mira a comporre un’elegia tonante, carnale e triviale, al corpo dell’attore, alla materia, alla grana della pellicola, al cinema.

Pubblicato su quinlan.it il 02/02/2020, di Daria Pomponio


giovedì 9 gennaio 2020

The Lighthouse (Robert Eggers, 2019)


Ambientare un film su un’isola sperduta e in un secolo remoto (dove comunicare con la terraferma è impossibile) sembra aver contagiato non pochi registi, lo abbiamo visto recentemente con Xavier Gens (le valide derive fantastiche di “Cold Skin”) e con Kristoffer Nyholm (suo l’interessante ma incompiuto “The Vanishing”). Storie di solitudine e di follia da cui non poteva sottrarsi neppure Robert Eggers, artefice di uno dei titoli più celebrati durante il decennio appena trascorso, “The Witch” (2015).
Ci troviamo alla fine del diciannovesimo secolo: su un piccolo isolotto del New England approdano due uomini, il guardiano del faro Thomas Wake e il tuttofare Ephraim Winslow. Il primo interpretato da un monumentale Willem Dafoe, il secondo da un altrettanto eccellente Robert Pattinson, ma non avevamo dubbi sulla bravura di Eggers nel saper dirigere gli attori (inoltre nel film i dialoghi fanno davvero la differenza). Il rapporto tra i due protagonisti non è idilliaco, il carattere scorbutico e dominante di Thomas si scontra fin da subito con l’alienazione e il comportamento paranoide del più giovane Ephraim (solo l’alcol è capace di rompere le barriere tra questa coppia di individui in perenne conflitto). Improvvisamente un evento infausto scatena la pazzia e l’orrore in quel mondo perduto, mettendo a dura prova la sopravvivenza dei nostri e la loro salute mentale, ormai divorata da un confronto (dalle tinte persino omoerotiche) destinato a sfociare nella tragedia più assoluta.the-lighthouse“The Lighthouse” è un’opera che cresce come un fiume in piena durante la prima ora di visione (sulle quasi due complessive), per poi cedere a qualche piccola ridondanza di troppo nella seconda parte, in attesa di concludersi in maniera egregia. Il carattere visionario della pellicola raggiunge il climax attraverso una serie di eventi sempre più concitati, nei quali Robert Eggers riesce letteralmente a far parlare la natura e le sue forze inquietanti (il vento, la pioggia, il mare in tempesta e gli immancabili gabbiani). Il regista racchiude tutte queste sensazioni dentro un claustrofobico formato 4:3, penetrando fin dentro l’incubo grazie a una fotografia dalle tinte espressioniste, persino surreali nelle scene notturne. Inoltre la pellicola è stata girata in condizioni climatiche proibitive (questa fredda location si trova nella regione della Nuova Scozia, in Canada), un valore aggiunto che ha reso ancora più drammatica la partecipazione emotiva dei protagonisti.
80624865_10218025050036904_3493065909352792064_oLe influenze da cui Robert Eggers ha attinto sono tante: Howard Phillips Lovecraft, Edgar Allan Poe, Samuel Coleridge, Herman Melville, Robert Louis Stevenson ma anche la pittura simbolista di Jean Delville o quella di Sascha Schneider (nella foto qui sopra il parallelismo con l’omaggio esplicito del regista), oltre a un immaginario legato alla mitologia greco-romana che parte da Nettuno spingendosi fino alla figura di Prometeo, elemento quest’ultimo da assimilare al personaggio di Ephraim, in quanto metafora di ribellione all’autorità e alle imposizioni (il fuoco – in questo caso la luce del faro – rubato agli dei).

Non è certo facile paragonare “The Lighthouse” al precedente “The Witch”, due opere entrambe di altissimo livello: se “The Witch” lo abbiamo amato per la sua semplice e totale naturalezza, questo atteso ritorno lo possiamo celebrare per la sua grande potenza visiva e simbolica, giusto per farci capire che il giovane Eggers è davvero capace di tutto. “There is enchantment in the light”, una luce che illumina magistralmente il cinema contemporaneo.
pubblicato su https://cinemaestremo.wordpress.com/ , 01/01/2020 di Paolo Chemnitz

giovedì 2 gennaio 2020

2019 rewind

Suspiria (Luca Guadagnino)
The Sisters Brothers (Jacques Audiard)
The House That Jack Built (Lars Von Trier)
Paolo Angeli - 22.22 Free Radiohead
Burning (Lee Chan-Dong)
Guido Ceronetti - La Rivoluzione Sconosciuta (Adelphi)
La Favorita (Yorgos Lanthimos)
The Comet Is Coming - Trust in the Lifeforce of The Deep Mistery
Beth Gibbons & Polish National Radio Symphony Orchestra - Henry Gòrecki: Symphony N.3
Oro Verde (Ciro Guerra, Cristina Gallego)
Ultramarine - Signals into space
Dragged Across Concrete (S. Craig. Zahler)
Alive in France (Abel Ferrara)
Il Traditore (Marco Bellocchio)
High Life (Claire Denis)
Noi (Jordan Peele)
Rolling Thunder Revue:A Bob Dylan Story (Martin Scorsese)
The Beach Bum (Harmony Korine)
Mark Fisher - Spettri della mia vita (Mininum Fax)
Olga Tozarczuk - I Vagabondi (Bompiani)
The Nightingale (Jennifer Kent)
75 Dollar Bill - I Was Real
Parasite (Bong Joon-ho)
Coil - The Gay Man's Guide to Safer Sex
City On A Hill (Showtime-s.1)
Vox Lux (Brady Corbet)
La mafia non è più quella di una volta (Franco Maresco)
Chris Ware - Rusty Brown (Penguin R.H. Edition)
Once upon a time in...Hollywood (Q. Tarantino)
Ad Astra (James Gray)
James Bridle - Nuova Era Oscura  (Not Nero Editions)
Underworld - Drift Series 1
L'Ufficiale e La Spia (Roman Polanski)
The Irishman (M. Scorsese)
Watchmen (HBO)
Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)

runners-up
Escape at Dannemora (Showtime miniserie)
La Paranza dei Bambini (Claudio Giovannesi)
Dolor Y Gloria (Pedro Almodovar)
I Figli del Fiume Giallo (Jia Zhang-ke)
Martin Eden (Pietro Marcello)
Sally Rooney - Persone Normali (Einaudi)
David Szalay - Turbolenza (Adelphi)
The Deuce (HBO - s.3)
Angel Olsen - All Mirrors
Zombi Child (Bertrand Bonello)
Where'd you go, Bernadette (Richard Linklater)