martedì 29 marzo 2022

PARIGI, 13arr. di Jacques Audiard (2021)

Émilie è una giovane di origine cinese che vive a Parigi, nel 13esimo arrodissement, nell’appartamento della nonna, da tempo in ospedale malata di Alzheimer. Per gestire economicamente l’appartamento mette un annuncio al quale risponde Camille, un afrodiscendente che deve iniziare a insegnare in un liceo lì vicino. Tra i due scatta la scintilla erotica, ma solo Émilie è davvero innamorata. Nel frattempo nel quartiere si trasferisce da Lione anche Norma, decisa a riprendere gli studi universitari nonostante abbia trentatré anni… [sinossi]

Émilie si innamora di Camille, hanno rapporti sessuali ma lui non è davvero innamorato tanto che la lascia per una collega del liceo, prima di lasciare a sua volta l’insegnamento, lavorando nell’agenzia immobiliare di un amico dove conosce Norma, che è arrivata a Parigi da Lione per riprendere gli studi universitari che ha però mollato dopo essere stata vittima di un bullismo collettivo in facoltà vista la sua somiglianza con Amber Sweet, una celeberrima pornodiva. Camille s’innamora di Norma, ma il rapporto è frastagliato anche perché la ragazza inizia a incontrarsi la notte con Amber Sweet in una chat privata… Tutti s’innamorano di tutti, ne Les Olympiades (in italiano si è scelto un più cacofonico Parigi, 13Arr., forse per evitare fraintendimenti e rendere chiara l’ambientazione nella capitale francese), ma soprattutto tutti sembrano alla ricerca di un senso non solo della vita, ma dell’esperienza collettiva che la vita dovrebbe portare con sé. Già, la vita collettiva, quel dettaglio che quasi due anni di pandemia ha reciso dalla memoria del popolo, e che il film – girato in pochissimo tempo a partire da novembre del 2020 – cerca di ricordare, e di tornare a raccontare, partendo dai luoghi prima ancora che dagli individui. Una panoramica aerea sulle torri di Olympiades, con la camera che spia in maniera fuggevole nei diversi appartamenti: in uno c’è un televisore acceso, in un altro una persona è seduta al tavolo della cucina. Con uno stacco di montaggio la ripresa da esterna si fa interna: su un divano Émilie, di origine cinese (taiwanese, per la precisione) e Camille, afrodiscendente, cantano al karaoke completamente nudi, per poi fare l’amore. Inizia così la nuova regia di Jacques Audiard selezionata nel concorso principale del Festival di Cannes. Il ritorno di Audiard sulla Croisette non poteva di certo passare inosservato: tra tutti i cineasti francesi contemporanei è infatti quello con il feeling migliore con la kermesse sulla Costa Azzurra, avendo già vinto in passato la Palma d’Oro con Dheepan, il Grand Prix della giuria con Il profeta, e il premio per la sceneggiatura con Un héros très discret.

Pur rientrando perfettamente nella cifra stilistica di Audiard, come testimoniano gli scarti registici, la scelta delle inquadrature, il ritmo che muove l’intera struttura, è impossibile non considerare Parigi, 13Arr. come un’opera a sei mani, le cui qualità il regista di Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore e Un sapore di ruggine e ossa deve necessariamente condividere con le due cineaste con cui ha collaborato in fase di scrittura. La sceneggiatura è infatti firmata anche dalla quarantaduenne Céline Sciamma – già al lavoro in passato per altri, come testimoniano Quando hai 17 anni di André Téchiné e La mia vita da zucchina di Claude Barras – e dalla trentaduenne Léa Mysius, autrice in proprio di Ava e Le Cinq Diables ma sceneggiatrice per Arnaud Desplechin (I fantasmi d’Ismael e Roubaix, une lumière), Stefano Savona (La strada dei Samouni) e di nuovo Téchiné (L’Adieu à la nuit). Il quasi settantenne Audiard, per riuscire a raccontare la gioventù contemporanea, condivide il lavoro con due colleghe di un’altra generazione, nessuna delle due parigina (Mysius è di Bordeaux, mentre Sciamma è nata a Pontoise, una quarantina di chilometri a nord della Capitale) ed entrambe nate quando l’idea di città futura celata nel progetto urbanistico di Olympiades era stata già ampiamente trasformata in realtà.

Interamente ambientato nel quartiere, con un paio di capatine che restano comunque nell’arrondissement, Les Olympiades è una commedia in bianco e nero che si interroga con levità ma non senza lacerazioni vere o presunte – il senso d’abbandono e di umiliazione che si prova all’interno di un’umanità che sa dimostrarsi priva del benché minimo accenno di empatia, come testimonia la triste vicenda che capita alla povera Norma, colpevole solo di una vaga somiglianza con una pornodiva e per questo presa d’assalto sui social media – e sembra riallacciarsi all’epoca d’oro del cinema “indipendente”, tanto d’oltreoceano quanto europeo (e Spike Lee, che esordì con Lola Darling, potrebbe ritrovarvisi). Un film che però si interroga sull’oggi, con relazioni umane indecifrabili, amore e desiderio che si confondono, e una smaterializzazione del contatto che è diventata parte integrante della quotidianità. Nella dialettica tra dentro e fuori, tra esteriorità e intimità, tra spazio pubblico e privato, Audiard trova il modo di riflettere sulla multiculturalità e pone al centro della questione un mondo femminile che reclama a gran voce il proprio spazio – emblematicamente anche l’unico uomo della contesa, Camille, ha un nome accostabile all’universo muliebre. Ma se la tecnologia può indurre a un’idea di vicinanza anche quando si è distanti chilometri (il rapporto amicale e affettivo tra Norma e Amber Sweet nasce via chat, Émilie si “vendica” dell’addio di Camille grazie a un’app di incontri e all’inizio del film lavora in un call center) è ancora la relazione fisica l’unica vera dimostrazione di umanità, e lo testimonia anche il pugno in pieno volto con cui Norma saluta una delle compagne d’università che l’avevano presa pesantemente in giro esponendola al pubblico ludibrio. Traendo ispirazione dalla raccolta di racconti a fumetti Morire in piedi di Adrian Tomine, Audiard celebra la rinascita alla vita, e dunque all’amore, e lo fa con una levità che contagia in profondità lo sguardo dello spettatore, cercando la libertà nell’imponenza della struttura – di nuovo, il ricorso al rigore della bicromia – seguendo esattamente lo schema che spinse Michel Holley a progettare Olympiades, creando un quartiere che potesse attrarre i giovani professionisti, e la modernità. Oggi che anche il professionismo è precario (nel film tutti si arrangiano come possono, saltando di palo in frasca tanto negli affari sentimentali quanto in quelli lavorativi) la modernità prorompe con forza da Parigi, 13Arr., trascinando con sé un’aria di possibilità che suona utopica, favolistica come il finale dolcissimo del film, eppure non priva di escoriazioni e cicatrici. Il merito va anche all’ottimo cast dominato dalle luminose intepretazioni di Lucie Zhang, Makita Samba e Noémie Merlant.

Pubbicato su quinlan.it il 07/16/2021 di Raffaele Meale 

Les Olympiades è un distretto del XIII arrondissement di Parigi, realizzato tra il ’69 e il ’77, al centro di uno dei piani urbanistici più grandi e ambiziosi della Francia: il progetto Italie XIII che puntava a una trasformazione radicale della zona intorno ad Avenue d’Italie, a ridosso della riva sinistra della Senna. Al suo centro, il quartiere concluso disegnato dagli architetti Michel Holley e André Martinat: sei torri residenziali private, due torri di alloggi sociali a canone “normale” e tre condomini rettangolari di edilizia popolare, ad canone d’affitto “moderato”, per un totale di 3400 abitazioni. Nel segno di Le Corbusier, delle sue teorie urbanistiche e unità d’abitazione. Costruzioni multipiano e modulari, con la ripetizione di elementi dimensionali regolari e pannelli di facciata di cemento armato. Economia, ridefinizione e liberazione degli spazi, separazione delle funzioni e del traffico veicolare dalla circolazione pedonale, nuova organizzazione di trasporti pubblici. Trionfo dell’architettura moderna… Almeno secondo le intenzioni, perché, alla fine, non tutto è andato come previsto. Il piano Italie XII nel corso dei decenni ha avuto rimodulazioni, batture d’arresto, si è concretizzato solo in parte. Certo, la Dalle des Olympiades sta lì, definisce il panorama della città con il cemento delle sue torri, ribattezzate con i nomi delle città ospiti d’olimpiadi, per celebrare i giochi di Grenoble del 1968. Ma rimane, forse, più come un’affermazione di principio, come un’imposizione retorica modernista.

“Il tessuto urbano non è più definito dalle strade, ma dall’ordine delle costruzioni, esse stesse guidate da considerazioni funzionali”. Questo era l’obiettivo del piano. Il fatto è che questo principio di razionalizzazione non è servito a rendere la vita più regolare. Il tessuto urbano, anziché distendersi e rilassarsi, si è aggrovigliato, si è ammassato in stratificazioni caotiche. E la densità non vuol dire, necessariamente, vicinanza. Anzi… l’illusione di una separazione funzionale e di una standardizzazione si è tradotta in un isolamento più profondo, è diventata ansia di contatto e di prestazione. I moduli sono diventati celle di reclusione, spazi di paura e solitudine. Se non addirittura di scontro aperto.

Ecco, Jacques Audiard affronta proprio questo nodo. Anche se sembra metter da parte, per un istante, il suo piglio più bellicoso, quella sua capacità di sintonizzarsi, come pochi altri, sull’improvvisa esplosione della guerra quotidiana. Appena velata dietro l’apparente equilibrio della società multiforme o le convenzioni di genere del milieu, cioè quella latenza inquieta, in cui le differenze etniche, sociali, economiche, stanno per combinarsi in scintille impazzite. No, in Parigi, 13arr. si parla d’amore e di amicizia. E nella scrittura, ispirata ai racconti a fumetti di Adrian Tomine, c’è la diversa sensibilità di Céline Sciamma e Léa Mysius. Ma ciò non vuol dire che Audiard rinunci alla sua durezza. Resta un regista di sostanza prima ancora che di atmosfera, di corpo prima che di mente. Densità, appunto, più che razionalizzazione. Nei suoi film, le questioni politiche e sociali non fanno sociologia, non sono mai scienza e teoria, non sono il terreno di sperimentazione di un pensiero precostituito. Sono storie di vissuti, scelte, errori, tamponamenti. E il sentimento non è mai sentimentalismo. Né lirica né elegia né mélo. Perché anche i sentimenti possono essere un combattimento corpo a corpo, seguire logiche di scontro. Come già si raccontava in Sulle mie labbra e, ancor più, in Un sapore di ruggine e ossa.

E così le relazioni dei giovani personaggi, tre donne e un uomo, più che sui toni caldi della passione, della tenerezza, dell’abbandono, sembrano tarate su uno spettro di gradazioni fredde, quelle dell’opportunismo, della sessualità meccanica o del rifiuto del corpo, della negazione e del distacco. Dietro lo schermo di un computer o di uno smartphone, al riparo di una parrucca, stare centrati su sé stessi, stabilire regole, distanze, cambiare casa o partner come si cambia un abito, evitare ogni coinvolgimento, ritrarsi nell’attimo in cui si avverte un minimo scricchiolio non previsto, un piccolo cedimento del cuore. Inseguire un accumulo compulsivo: degli incontri, delle esperienze, delle attività… Ma è come se tutto dovesse sottostare a un imperativo di dissimulazione. Negare, negare sempre, anche il dolore, la rabbia. Il terrore del vuoto.

Già. C’è un che di respingente e spigoloso in Parigi, 13arr., nonostante quell’elegante bianco e nero, quasi garreliano. Dove sì, ogni differenza è solo sfumatura, scala di grigio, ma al tempo stesso tutto pare dissanguarsi, perdere intensità. Per somma ironia, resta a colori solo l’esibizione porno live di Amber Sweet. Ma quel bianco e nero è anche una patina di immagine classica che crea un inevitabile scarto con il linguaggio tutto moderno delle nuove connessioni, con il ritmo delle musiche di Rone. Come a dire che, sebbene cambino le forme, l’amore è ancora il tormento e il piacere di un’infinita ronde. Émilie, Camille, Nora, Amber si inseguono, si urtano, si perdono e si ritrovano. Colpo dopo colpo, la crepa si allarga e fa male come un pugno. Spunta un grumo di sangue denso e nero, autentico. Ma nell’intensità di dolore, si aprono squarci di estasi, lampi di profezia. E momenti di felicità assoluta.

Titolo originale: Les Olympiades

Regia: Jacques Audiard

Interpreti: Lucie Zhang, Makita Samba, Noémie Merlant, Jehnny Beth, Camille Léon-Fucien, Océane Cairaty, Anaïde Rozam, Pol White, Geneviève Doang

Durata: 106′

Origine: Francia, 2021

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 24 Marzo 2022 di Aldo Spiniello


venerdì 4 marzo 2022

Kimi, di Steven Soderbergh (2022)


Il capitalismo digitale come un’illusione. Forse un trucco. Un allestimento. Come il cinema e/o l’immagine audiovisiva di oggi. È del resto già tutto chiaro dalla prima sequenza, in cui il Ceo della società che ha messo sul mercato il dispositivo vocale Kimi, durante un’intervista online, mette in scena un finto studio, con tanto di libreria alle spalle, all’interno di uno scantinato. Uno spazio virtuale dove l’immagine e lo slogan pubblicitario – “il valore di Kimi è garantito dalle persone non dall’algoritmo” – sostituiscono il reale. Da una parte c’è quindi l’immagine sullo schermo, che è quello che vediamo e ci fanno vedere ogni giorno. Dall’altra c’è il fuori campo, anzi il fuori-schermo, dove emerge uno spazio incerto, corrotto, non vendibile sul mercato.

E gli esseri umani? Gli operatori di Kimi lavorano in smartworking attraverso computer e modem sofisticatissimi, ascoltano le conversazioni, istruiscono la macchina e risolvono le criticità delle interazioni vocali, migliorando la qualità del servizio. Ma in fin dei conti sono degli hacker capaci di manipolare dati e decriptare messaggi. Poi c’è il fattore umano a stabilire la temperatura etica di questo mondo in cui tutti spiano e vengono spiati. Ecco allora che l’operatrice Angela, la protagonista affetta da agorafobia interpretata da Zoe Kravitz, ennesima, complessa eroina femminile nel cinema di Steven Soderbergh – e qui davvero sarebbe necessario fare il punto su quanti straordinari personaggi femminili ci ha regalato il regista americano, dalla Andie MacDowel di Sesso bugie e videotape a Erin Brockovich, passando per i recenti Unsane e le tre straordinarie protagoniste di Lasciali Parlare – si imbatte in una registrazione che sembra suggerire l’omicidio di una donna. La ragazza denuncia il caso alla compagnia, mettendo così a rischio la sua vita in quella che, dopo una prima parte interamente girata all’interno della sua abitazione, assume i contorni psicotici di un vorticoso inseguimento tra grattacieli asettici, google maps, tracciamenti satellitari.

La distribuzione è streaming HBO Max come ormai accade costantemente con l’autore di Traffic e Ocean’s Eleven. Ma scrive e produce l’esperto David Koepp (Jurassic Park, Carlito’s Way, Panic Room), che porta a casa una sceneggiatura perfetta per “l’unico cineasta possibile del XXI secolo“. Quasi un trattato post-pandemia, sanitaria e tecnologica, che Soderbergh gira con precisione chirurgica e slancio paranoide, in pieno continuità con i classici anni ’70 dei suoi cineasti di riferimento: su tutti il Francis F. Coppola de La conversazione e ovviamente Alan J. Pakula.

Se negli spazi interni simula le prospettive impossibili delle telecamere di sorveglianza, dall’alto e dal basso ma anche con panoramiche che disegnano un set domestico che si rivelerà determinante nel sorprendente finale, nelle scene in esterno per le strade di Seattle spuntano pedinamenti grandangolari che continuano a schiacciare la protagonista in un mondo che si rivela asfissiante e tecnologico anche open air. Insomma Kimi è il documento cyberpunk del nostro tempo. E se Soderbergh, sin dal suo primo film, non ha mai negato la possibilità di una integrazione umanista tra uomo e tecnologia, ecco che questo suo ultimo film si configura come un thriller claustrofobico e orwelliano sul capitalismo della sorveglianza, capace però di lasciare aperto un ultimo spiraglio di umanità, scandito dal libero arbitrio del singolo. Un altro “piccolo” capolavoro clandestino del grande regista americano.

pubblicato su sentieriselvaggi.it, 4 Marzo 2022 di Carlo Valeri