lunedì 29 agosto 2022

NOPE di Jordan Peele (2022)

 


1998. Sul set della sitcom Gordy’s Home, lo scimpanzé protagonista attacca e uccide quasi tutti i membri del cast. Solo l’attore più giovane, Ricky “Jupe” Park, rimane illeso. Tornato tranquillo, mentre sta tendendo amichevolmente la zampa a Ricky, lo scimpanzé viene abbattuto dai colpi della polizia. Oggi: dopo la morte del padre, i figli OJ e Em Haywood cercano di tenere a galla l’attività del ranch, un allevamento di cavalli addestrati per lavorare nel mondo dello spettacolo…

Si muove su più piani Nope, blockbuster dichiaratamente estivo, eppure dall’evidente connotazione autoriale. Direzioni apparentemente opposte, persino inconciliabili, come ad esempio capita (quasi sempre) anche all’accostamento tra fantascienza e western, stimolante più sulla carta che nella pratica. Insomma, guarda verso l’alto Jordan Peele, con una consapevolezza davvero sorprendente: novello Icaro dell’arthouse horror, il regista, sceneggiatore e produttore statunitense sembra saper prendere dei rischi calcolati al millimetro, giusto un alito di vento prima del precipizio. Si pensi, ad esempio, a tutta la prima parte, che regala un sussulto iniziale per poi dipanarsi soprattutto tra parole e caratterizzazione psicologica: un rischio abnorme per una pellicola (già, proprio pellicola) che punta al box office. In questo senso, però, Peele può contare sulla pazienza spettatoriale, dilatata dai successi di Get Out e Us. Insomma, la platea sa che vale la pena aspettare…

Fantascienza e western, si è detto. Peele pesca a piene mani dalla storia del cinema, persino da prima. A suo modo, Nope è un nipotino sagace de Lo squalo e di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ne recupera la spettacolarità ma anche la teoria, il gusto per la narrazione e l’utilizzo parco degli effetti speciali, con la tensione nutrita anche (e soprattutto) dal fuori campo. Nope è spielberghiano, è shyamalaiano, ma non basta. In linea con l’afflato politico di Get Out e Us, Peele scava fino ai prodromi della Settima Arte, e mette il grande pubblico di fronte a Sallie Gardner at a Gallop, aka The Horse in Motion, di Eadweard Muybridge: siamo nel 1878 e questo esperimento fotografico su un cavallo a galoppo rappresenta uno dei primi passi del cinema. Ma ancora non basta. Peele attira la nostra attenzione su quello che stiamo vedendo, un cavallo e un fantino, sui nomi che si sono tramandati (il regista, il cavallo), e sulle sabbie del tempo che hanno sepolto l’identità del misconosciuto cavallerizzo. Afroamericano, ovviamente. Dal 1878 al 1998 il passo non sembra breve, e nemmeno il contesto: con una serie di flashback che via via ci svelano tutto l’accaduto, Peele ci mette di fronte a un altro paradigma del mondo dello spettacolo, la singolare serie televisiva Gordy’s Home e lo scimpanzé protagonista. Lo sfruttamento dello showbiz nelle sue varie forme.

Con una mirabile serie di rovesciamenti di prospettiva, Peele costruisce pezzo dopo pezzo un film-mostro: infatti, Nope si nutre esattamente di quello che mette in scena, senza mascherare le proprie responsabilità. Gioca col fuoco Peele e gioca con le stesse regole del vero mostro gargantuesco, la società dello spettacolo. Armato inizialmente di un disco volante che avrebbe inorgoglito Ed Wood, Peele sembra essere cresciuto a pane, Spielberg e Debord, senza dimenticare altri maestri (tra i tanti, Carpenter) e altre bandiere – l’anima western di Nope deve molto anche a Non predicare… spara! (Buck and the Preacher, 1972) di Sidney Poitier, tra le pietre angolari dell’immaginario cinefilo e politico di Peele.

Deciso a domare il mostro, o quantomeno a non farsi divorare (sarebbe interessante, in questo senso, poter sondare la scelta di un personaggio di origine asiatica come Jupe), Peele agisce dall’interno e modella a proprio piacimento alcuni fatti reali. Se la storia di The Horse in Motion è comprensibilmente potenziata per agganciarsi al film e a determinate considerazioni socio-politiche, è il flashback di Gordy’s Home a tracciare i confini (im)morali di Nope: non è infatti difficile risalire al reale e tragico incidente dello scimpanzé Travis e alla sventurata sorte di Charla Nash, massacrata e sfigurata come la giovane attrice della fittizia sitcom Mary Jo Elliott. Conscio dei pericoli e delle contraddizioni dello sguardo, del semplice atto di guardare e del più complesso atto di mettere in scena, Peele pone l’accento sulla responsabilità individuale, sulla consapevolezza, sulla capacità di rapportarsi alla realtà e alla realtà filtrata\alterata\tradita dalle immagini. Non a caso, Nope è anche un manifesto tecnico-teorico, un compendio delle possibilità passate e attuali, dagli strumenti rudimentali (non solo Muybridge…) all’IMAX. Dal cinema ai video amatoriali, dalla pellicola al digitale, nuovamente alla pellicola. Banalmente, oggi come ieri, è la consapevolezza a guidarci tra la selva delle immagini.

Grazie anche al cristallino talento del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema (Lasciami entrare, Interstellar, Dunkirk, Ad Astra), alle performance di Daniel Kaluuya (OJ) e Keke Palmer (Em), Nope è un notevole oggetto d’intrattenimento, un raro esempio di narrazione libera, distante dalla frenesia e approssimazione di tanti blockbuster contemporanei. Apparentemente senza timori, Peele mette insieme i cocci taglienti del sogno americano, gli abissi oscuri del mondo dello spettacolo, le diseguaglianze sociali e la disperata volontà di riscatto, la fantascienza degli anni Cinquanta (era dai tempi di Tremors che non si respiravano così pienamente quelle atmosfere), l’epicità del western e le sue diramazioni televisive da quattro soldi, l’horror autoriale e Il mago di Oz, le frenesie del consumismo e l’illusione dei verdi pascoli, il dualismo analogico\digitale e tutto quel che segue. Nope è The Twilight Zone all’ennesima potenza. È un film d’autore. È un blockbuster. È Jean Jacket contro Kid Sheriff. È la rivincita di Sidney Poitier e Harry Belafonte.

Pubblicato su quinlan.it , 08/11/2022 di  Enrico Azzano

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C’è un momento nell’ultimo film di Jordan Peele che riassume straordinariamente i tanti discorsi sul riciclo dei generi classici che più o meno opportunamente si fanno intorno al suo cinema. Questa volta Daniel Kaluuya scappa da una cosa aliena che lo bracca cercando di sedurre il suo sguardo; il giovane ferma la sua auto, si sporge appena dallo sportello per guardare, poi abbassa gli occhi e dice letteralmente: “Nope!“. Pensiamoci. La torrida atmosfera notturna, il furgone in una strada di campagna e l’imponente presenza aliena dall’alto fanno venire in mente una speculare sequenza di Incontri ravvicinarti del terzo tipo nella quale, però, Richard Dreyfuss si sporge fiducioso da quello stesso finestrino guardando con estatica beatitudine la nave aliena che fluttua sulla sua testa. Insomma, cos’è successo nel frattempo a Hollywood per doverci ossessivamente ricordare quant’è pericoloso guardare in alto? Don’t Look Up, appunto….

Quello di Jordan Peele si conferma un cinema di pure superfici lentamente messe in abisso che sfrutta l’accumulo ossessivo dei cliché visivi per far balenare infine le originarie potenze dell’immagine cinematografica: il raccordo di sguardo e il rapporto con il fuori campo. Ma andiamo con ordine. Dopo l’horror politico sulle latenti tensioni etniche in era Trump (in Scappa – Get Out la perturbante ipnosi associata all’immersione in un piccolo schermo dove guardarsi-guardare è una trovata che supera di slancio tutte le black mirror distopiche degli ultimi anni); e ancora, dopo l’horror siegeliano che disloca lo stesso discorso su un piano economico-sociale (il tema del doppio e i rapporti di classe in Noi); lo step successivo non poteva che essere il Blockbuster di matrice spielberghiana capace di riflettere le derive attuali della società dello spettacolo. Peele, del resto, è il produttore/regista che più di ogni altro ha ereditato le istanze immaginarie della complessa storia dell’African American Cinema rimediandole definitivamente nell’industria hollywoodiana e instaurando in tal modo nuove dinamiche di potere.

Ed eccoci al punto. Nope parte dal pre-cinema e da una “politica” riappropriazione inserita persino nel trailer del film. Peele immagina che il fantino al galoppo in uno dei celeberrimi esperimenti cronofotografici di Eadweard Muybridge (la serie di figure Animal Locomotion del 1872) fosse afroamericano. Quindi, ad essere tirato in ballo non è tanto il cinema delle origini, bensì l’invenzione di un dispositivo tecnico (lo zooprassinoscopio) che ha fatto scattare la scintilla del movimento-nelle-immagini ma ha ancora bisogno di esperienza e figure umane per diventare “cinema”. Ecco perché il fantino ingiustamente cancellato dalla storia diventa l’antenato dei protagonisti del nostro film, i fratelli Haywood, discendenti da una famiglia di ammaestratori di animali per le Major classiche hollywoodiane. In Nope, pertanto, la dimensione dell’immaginario popolare diventa il correlativo oggettivo della dimensione privata dei personaggi: l’episodio chiave dell’infanzia dei fratelli O.J. ed Emerald è legato al set de Il Re Scorpione nel 2002 (l’alba del nuovo millennio) con la scelta autoritaria del padre Otis di affidare al figlio il cavallo preferito della sorellina.

E adesso? L’anziano genitore (interpretato non a caso dall’icona carpenteriana Keith David) è morto improvvisamente colpito da misteriosi detriti caduti dal cielo. Proprio nei pressi di una strana nuvola in fermo-immagine che sembra uno sfondo desktop e che probabilmente nasconde alieni aggressivi pronti ad attaccare. Un fatto che scatena la reazione dei due fratelli ossessionati dalla cattura dell’immagine mancante (ancora le superfici) nel vano tentativo di lenire il dolore della perdita. Ma Emerald e O.J. non vogliono registrare semplici video amatoriali, ma vogliono l’inquadratura definitiva degli alieni (“The Oprah Shot”) che faccia impallidire decenni di fantascienza divenendo virale e risollevando in un colpo solo le sorti economiche della loro azienda. Fermiamoci qui. 

Nella rassicurante confezione di un canonico Blockbuster estivo da consumare insieme a bibite e popcorn, Nope ragiona in maniera lucidissima sulle derive dell’attuale Social Media Entertainment e sul ruolo del cinema nel sempre più fitto involucro mediale fagocitante che calamita i nostri sguardi anestetizzati. E il cinema, appunto, prende una posizione netta con i suoi scarti memoriali: innanzitutto rivendicando una primogenitura storica nelle immagini in movimento (dalla cronofotografia alla cinepresa manuale analogica fuori dalla “rete”) e subito dopo perseguendo un’etica della forma che si interroghi ancora sulle responsabilità insite nell’atto del guardare. Cosa inquadrare e cosa lasciare in fuori campo? Cosa guardare e a cosa dire nope? Un percorso non dissimile da quello narrativamente compiuto da O.J.: dopo la morte del padre/padrone e dopo la profonda crisi dell’azienda Haywood/Hollywood, infatti, il ragazzo depresso tenta faticosamente di riattivare la sua memoria emotiva per superare il trauma (alieno) riconoscendo infine la sorella come unica protagonista della storia.

Il genere western diventa lo spazio immaginario dove tentare questo disgelo emotivo. Il cielo inglobante in campo lunghissimo riattiva l’iconografia e l’epica del “cinema americano per eccellenza” dispiegando un’ambiziosissima dialettica tra il thriller metafisico di Hitchcock e l’horror moderno di Carpenter, la sci-fi filosofica di Kubrick e il disaster movie fracassone di Roland Emmerich, il metacinema riflessivo di De Palma e il blockbuster intimista di Lucas/Spielberg. Ci risiamo: Jordan Peele è sin troppo ambizioso? I suoi film sono troppo costruiti e peccano di uno strategico didascalismo (vi ricordate le critiche sollevate al pittore di Candyman)? Forse… ma non è questo il punto. Perché il film cerca cocciutamente un referente emotivo dietro ogni immagine riciclata aprendosi a nuove possibili interpretazioni politiche (lo scioccante episodio della scimmia Gordy e del bambino prodigio delle sitcom divenuto un ambiguo imprenditore del suo trauma), teoriche (l’alieno torna a essere un significante puro, un occhio caldo del cielo che ci sfida a ragionare), culturali (le invisibili maestranze afroamericane che hanno fatto la storia di Hollywood elette a protagoniste di un blockbuster mainstream) e sentimentali (la lenta elaborazione del lutto dei due fratelli resta la “cosa” più forte e commovente), salvaguardando nel contempo le regole auree del cinema di intrattenimento.

Insomma, piacciano o meno, le inquadrature di Jordan Peele non sono mai pacificate. Perché pur partendo da presupposti differenti Scappa, Noi e Nope attivano un simile percorso di spoliazione del visibile tendendo a un campo-controcampo finale che condensi magnificamente la nostra esperienza estetica. I see you: da Cameron a Spielberg, da Shyamalan a Gray, passando per D. R. Mitchell e Jordan Peele, molto cinema americano del XXI secolo sta tentando di opporre una riflessione critica sul nostro rapporto con le immagini invitandoci a una sacrosanta ecologia dello sguardo. Il vecchio e malandato grande schermo ha ancora molte cose da dirci sul nostro presente.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 10 Agosto 2022 di Pietro Masciullo


mercoledì 3 agosto 2022

Irma Vep di Olivier Assayas (2022 - miniserie)

 



Per fortuna Olivier Assayas continua a essere uno dei più grandi registi contemporanei. E, a differenza di molti “maestri” di oggi, non ha paura ad esempio di filmare esseri umani che usano lo smartphone. O di raccontare personaggi del mondo dello spettacolo che preparano una scena e rivedono una sequenza del 1916 su un supporto digitale del 2022. Conta il contenuto, non il contenitore sembra volerci raccontare lucidamente il cineasta francese, qui alle prese con una complessa, ambiziosa, serie televisiva di otto puntate prodotte da HBO e ispirate al film da lui diretto nel 1996.

Siamo a Parigi e l’astro nascente di Hollywood Mira (Alicia Vikander, perfetta e coraggiosa sia da interprete sia da produttrice esecutiva), nel pieno della promozione di un film di supereroi, accompagnata dalla sua giovane assistente, inizia le riprese di una serie televisiva remake di Les Vampires, il capolavoro muto di Louis Feuillade che di fatto diede inizio nel 1915 alla narrazione cinematografica a episodi e a Irma Vep, la prima grande eroina femminile del grande schermo. A dirigere c’è René Vidal (Vincent Macaigne, qui vero e proprio alter ego di Assayas, molto più del Jean-Pierre Léaud del “primo” Irma Vep), un regista di nicchia che lotta contro il suo esaurimento nervoso e i fantasmi del film che molto tempo prima ha girato sullo stesso argomento. Un film che lo fece innamorare dell’ex-moglie, un’attrice hongkongese che non vede più da anni. Siamo quindi immersi nel dietro le quinte della serie. Nel “film nel film”. Ma anche nella vita privata e nelle relazioni umane di chi lavora nello show business. E sul set la vita non solo imita l’arte, ne assorbe la magia e la maledizione. Così non appena indossa il costume nero, bondage, di Irma Vep, Mira “diventa” Irma Vep. Entra ed esce dallo schermo, dalle stanze d’albergo. Attraversa la notte.

Copie e fantasmi si inseguono continuamente. Irma Vep è un’opera all’insegna del doppio e oltre. La serie tv del 2022 insegue il film del ’96, lo amplifica e lo supera. Assayas rifà Feuillade e forse diventa Feuillade. Macaigne diventa Assayas. Vikander sostituisce Maggie Cheung che a sua volta reinventava Musidora, la prima Irma Vep. E quindi le tante versioni femminili del personaggio si incrociano in una dissolvenza incrociata senza fine che attraversa le epoche, i fotogrammi e gli immaginari. Poi c’è l’attore tedesco drogato (Lars Eidenger) che vive come fosse lo spettro di Fassbinder o di una star del rock ‘n roll. E l’assistente giovane di Mira, che rimanda alla Kristen Stewart di Sils Maria e Personal Shopper. Connessioni, specchi che riflettono forme, personaggi, presenze di altri film o di altri set.

Quante storie, tracce, percorsi, sovrapposizioni… Irma Vep non è un film, né un serial. È un magnifico esorcismo. “La luce è più difficile da raggiungere dell’oscurità” dice alla fine delle riprese Mira a René Vidal. Tutta la serie è immersa nelle tenebre della notte e dell’inconscio. È la notte di Parigi, mai così contemplata e “fotografata” dal cineasta francese. La notte di Feuillade. Ma soprattutto la notte del cinema. Del cinema come lo abbiamo sempre pensato e (forse) non può più essere. Poi, a un certo punto, quasi inaspettatamente dopo la “tempesta”, arriva la fine delle riprese che il regista e la musa hanno faticosamente e istericamente portato a termine. Irma Vep finisce. La troupe sembra sciogliersi alla luce del giorno. Come i sogni. Il set si svuota dalle presenze. I personaggi hanno volti distesi. Il cinema, o la serialità, o quello che è, ha fatto il suo corso. La luce dopo il buio. Bellissimo. Rispetto al referente cinematografico di venticinque anni prima, l’opera viene conclusa. Certo Vidal vive la sua “crisi” e la delirante ossessione per Feuillade e Musidora, ma riesce a liberarsi. Se nel lungometraggio del ’96 il regista storyteller falliva e, da iconoclasta underground cresciuto con il cinema sperimentale degli anni ’60 e ‘70, decideva di graffiare il girato, stavolta l’autore scommette ancora nella narrazione. Continua a graffiare e a elettrificare le proprie immagini, ma riesce a “vedere” e a “raccontare”. E così anche noi spettatori “vediamo” e intercettiamo le molecole del cinema e quelle della vita, speculari l’uno all’altra. Come il buio e la luce. Attraversiamo e accogliamo la magia nera, la linea onirica che unisce Feuillade, Kenneth Anger, Godard e Truffaut, e poi torniamo a casa. Aspettando il futuro. Aspettando gli spiriti e le storie che resistono allo scorrere del tempo.


Regia: Olivier Assayas

Interpreti: Alicia Vikander, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Antoine Reinartz, Devon Ross, Jeanne Balibar, Vincent Lacoste, Alex Descas, Lars Eidinger, Hippolyte Girardot, Pascal Greggory 

Distribuzione: Sky, Now  Origine: Francia, USA, 2022  

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 3 Agosto 2022 di Carlo Valeri