Nella mia personalissima, quanto cangiante classifica dei
migliori film degli ultimi 20 anni (mi verrebbe da dire di sempre, ma potrebbe
suonare esagerato) ci sono almeno tre film di Paul Schrader: “Affliction (Oscar
a James Coburn)” “Auto Focus” e il capolavoro “Lo spacciatore”, dal molto più
eloquente titolo originale “Light Sleeper”.
Icona trasversale e non più gradita del cinema a stelle e strisce (come il quasi coetaneo Friedkin), il regista viene ricordato dal grande pubblico per l’armaniano Richard Gere di “American Gigolo”. Il vero addicted della settima arte lo ricorda, però, come eccelso sceneggiatore del miglior Scorsese di sempre, quello di “Toro Scatenato” e “Taxi Driver”. Proprio dal personaggio di Travis/De Niro, Schrader ha dato i suoi miglior frutti narrando storie di loser, fallimenti, disgregazione dell’America Dream (si, anche lui) tentativi più o meno vani di rinascita, critica feroce al mainstream hollywodiano.
Scritto a 4 mani con Breat Easton Ellis, The Canyons è arrivato sugli schermi anticipato dalla ovvia, banale pubblicità per le scene di nudo e scopate assortite della star tossica Lindsay Lohan e James Deen, porno divo targato US. Definito come film nichilista, thriller erotico, freddo, inutile, glaciale, è esattamente il parto che ci si poteva aspettare dal regista e dallo scrittore di American Psycho.
Finanziato attraverso il crowfounding lanciato dai due
autori, è anche per questo una riflessione sulla
vacuità di Hollywood come specchio dell’America/mondo, sulla morte del cinema e
dei suoi pseudo-divi, raffigurata in modo evidente durante i titoli di
apertura, da una matrice di cinema
abbandonati e decadenti. E’ soprattuto una storia iper-cinetica di
alienazione, già ampiamente scandagliata nelle carriere di Schrader ed Ellis, narrata
attraverso uno sguardo solo apparentemente freddo e distaccato, dove i
personaggi sembrano essere una sorta di zombie
romeriani colmi di vuoto e frustrazione. Orecchie e occhi vacui perennemente puntati sui telefoni cellulari - che
giocano un ruolo predominante nello smarrimento collettivo - inetti di fronte a tutto, anche alla perdita
della vita (privata e non).
Il personaggio di Tara calza a pennello alla Lohan, quasi ricalcandone le orme da incerta starlette dannata. Sigaretta in
mano, si aggira per negozi costosi, occhiali da sole oversize, si lamenta con
il suo fidanzato Christian (Deen) per non riuscire più a mantenere alcuni
aspetti della sua vita privata, ma "Nessuno ha più una vita privata,
Tara".
Christian, così simile alla
freddezza del Patrick Bateman di Ellis, a parte produrre film low-budget con i soldi
della famiglia, è dedito a riprendere i ménage à
trois che vedono partecipe la fidandata ex-modella, nella sua villa minimalista
di Malibu, sorta di laboratorio biotech degna dei sociopatici preferiti dallo scrittore di Less Than Zero.
In procinto di avviare una nuova produzione con l’aspirante attore Ryan, è all’oscuro che
Tara ha una relazione con lui. Nutrito da una serie di personaggi, che andranno
inevitabilmente a convergersi, il sospetto di Christian si trasformerà da ossessione in violenza.
Apparentemente asettico e banale,
The Canyons è un grandissimo esempio di post-cinema, quello che ha abbandonato
la capacità e la voglia di farci sognare,
per mettere a nudo il (solito, dirà qualcuno) lato oscuro della natura umana,
dei rapporti che si intersecano come
sorta di germi malsani tra esseri viventi.