martedì 26 novembre 2013

The Canyons (2013) di Paul Schrader



Nella mia personalissima, quanto cangiante classifica dei migliori film degli ultimi 20 anni (mi verrebbe da dire di sempre, ma potrebbe suonare esagerato) ci sono almeno tre film di Paul Schrader: “Affliction (Oscar a James Coburn)” “Auto Focus” e il capolavoro “Lo spacciatore”, dal molto più eloquente titolo originale “Light Sleeper”.

Icona trasversale e non più gradita del cinema a stelle e strisce (come il quasi coetaneo Friedkin), il regista viene ricordato dal grande pubblico per  l’armaniano Richard Gere di “American Gigolo”. Il vero addicted  della settima arte lo ricorda, però, come eccelso sceneggiatore del miglior Scorsese di sempre, quello di “Toro Scatenato” e “Taxi Driver”. Proprio dal personaggio di Travis/De Niro, Schrader ha dato i suoi miglior frutti narrando storie di loser, fallimenti, disgregazione dell’America Dream (si, anche lui) tentativi più o meno vani di rinascita, critica feroce al mainstream hollywodiano.

Scritto a 4 mani con Breat Easton Ellis, The Canyons è arrivato sugli schermi anticipato dalla ovvia, banale pubblicità per le scene di nudo e scopate assortite della star tossica Lindsay Lohan e James Deen, porno divo targato US. Definito come film nichilista, thriller erotico, freddo, inutile, glaciale, è esattamente il parto che ci si poteva aspettare dal regista e dallo scrittore di American Psycho.
Finanziato attraverso il crowfounding lanciato dai due autori, è anche per questo una riflessione sulla vacuità di Hollywood come specchio dell’America/mondo, sulla morte del cinema e dei suoi pseudo-divi, raffigurata in modo evidente durante i titoli di apertura, da una matrice di cinema abbandonati e decadenti. E’ soprattuto una storia iper-cinetica di alienazione, già ampiamente scandagliata nelle carriere di Schrader ed Ellis, narrata attraverso uno sguardo solo apparentemente freddo e distaccato, dove i personaggi sembrano essere una sorta di zombie romeriani colmi di vuoto e frustrazione. Orecchie e occhi vacui perennemente puntati sui  telefoni cellulari - che giocano un ruolo predominante nello smarrimento collettivo  - inetti di fronte a tutto, anche alla perdita della vita (privata e non).
Il personaggio di Tara calza a pennello alla Lohan, quasi ricalcandone le orme da incerta starlette dannata. Sigaretta in mano, si aggira per negozi costosi, occhiali da sole oversize, si lamenta con il suo fidanzato Christian (Deen) per non riuscire più a mantenere alcuni aspetti della sua vita privata, ma "Nessuno ha più una vita privata, Tara".
Christian, così simile alla freddezza del Patrick Bateman di Ellis, a parte produrre film low-budget con i soldi della famiglia, è dedito a riprendere i ménage à trois che vedono partecipe la fidandata ex-modella, nella sua villa minimalista di Malibu, sorta di laboratorio biotech degna dei sociopatici  preferiti dallo scrittore di Less Than Zero. In procinto di avviare una nuova produzione con l’aspirante attore Ryan, è all’oscuro che Tara ha una relazione con lui. Nutrito da una serie di personaggi, che andranno inevitabilmente a convergersi, il sospetto di  Christian si trasformerà da ossessione in violenza.
Apparentemente asettico e banale, The Canyons è un grandissimo esempio di post-cinema, quello che ha abbandonato la capacità e la voglia di farci sognare, per mettere a nudo il (solito, dirà qualcuno) lato oscuro della natura umana, dei rapporti che si intersecano come sorta di germi malsani tra esseri viventi.

mercoledì 13 novembre 2013

Il Passato-Le Passé (2013) di Asghar Farhadi



Ritratto di famiglia - allargata - in un interno, cronaca intima della coppia, dramma familiare.
Senza dubbio alcuno (per chi scrive, ovviamente) uno dei Migliori Film dell’anno (uscita prevista il 25 Novembre).

Premio alla Miglior Attrice con Berenice Bejo all’ultimo festival di Cannes, Asghar Farhadi continua con il suo personale registro nel mettere in scena la vita nuda e cruda, la vita dei personaggi (noi ?), le loro tensioni nascoste e apparentemente banali, che portano irrimediabilmente ad una tardiva deflagrazione. L’apparente banalità delle storie dei suoi personaggi, esplorati nella loro profondità, viene sviluppata con una intensità e potenza all'altezza delle grandi tragedie, visuali e narrative, del passato. Il tutto senza mai perdere un approccio cinematografico di ammirevole sensibilità.
Prolungamento naturale del lavoro di Farhadi dopo " Una separazione (2011)", dove in una trama cristallizzata attorno a un evento e un luogo - qui un suicidio e la periferia parigina - la storia procede per strati e chiavi occultate, rivelazione dopo rivelazione, in una scomoda postura di dubbi e interrogativi. Per il regista iraniano, la certezza è vietata .

Marie (Berenice Bejo) accoglie il suo ex marito iraniano Ahmad (Ali Mossaffa), arrivato a Parigi per ratificare il processo di divorzio. Nel frattempo Marie ha ricostruito la sua vita con Samir , la cui moglie è in coma dopo aver tentato il suicidio. Nella casa di Marie , il velenoso passato si riproporrà a contaminare i presenti con l'arrivo di Ahmad,  in-consapevole meccanismo nel far scaturire segreti e contraddizioni interne che paralizzano le vite di Marie, la figlia Lucia e Samir .
Il peso del passato è onnipresente, testimoniato anche dalla casa di Marie, colma di oggetti d'antiquariato, segno dell'incapacità della famiglia acquisita di vivere insieme pacificamente, di lasciarsi alle spalle quegli eventi che, come barriere invisibili, si interpongono tra i protagonisti.
Ahmad, da elemento scatenante, si tramuterà in elemento pacificatore, atto a lenire le tensioni tra la famiglia, in cui i bambini reciteranno un ruolo determinante.

Un film coraggioso, che orchestra magistralmente un avanti e indietro tra presente e passato, senza il quale diventa impossibile ipotizzare un futuro. Incredibili gli attori, Mossaffa è senza dubbio la rivelazione del film, come i piccoli protagonisti, disarmanti nella loro intensità rivelatrice, grazie a Farhadi, che conferma lo status di uno tra i migliori registi contemporanei.