lunedì 22 ottobre 2012

...pulp, molto pulp, pure troppo... "Killer Joe" (2012) di William Friedkin


Gli allori della fama sono forse i più dannosi per un artista, e Friedkin ne è un caso emblematico.
Il successo internazionale, raggiunto prima con una nuova lettura del cinema poliziesco de “Il braccio violento della legge (1971)” con Gene Hackman, poi con l’eccellente e traumatizzante parabola sul rapporto tra uomo e fede de “L’Esorcista  (1973)”, indicarono Friedkin come un importante e fondamentale tassello del cinema hollywodiano.
Autore non molto prolifico, mostrò ancora una volta il proprio enorme talento con l’oscura discesa nei meandri più bui della violenza e della sessualità nel poliziotto interpretato da Al Pacino in “Cruising (1980), fino al capolavoro “Vivere e morire a Los Angeles (1985)”, una versione aggiornata e radicale del poliziotto interpretato nel ’71 da Gene Hackman, che si spinge ben oltre ai limiti imposti dalla legge pur di arrivare alla cattura del proprio bersaglio, creando la figura dell’anti-eroe con il distintivo. Da lì in avanti avrebbe sovvertito le leggi del cinema poliziesco, non solo americano, in cui la labile differenza tra il buono e il cattivo sarà destinata a confondersi o annullarsi per sempre.
Da allora in poi il buio, con tremende cadute come la favola horror de “L’albero del male (1990) o perdibili film come “Jade (1995)” o il Rambo versione noir di “The Hunted-La preda (2003)”.
“Killer Joe”, presentato all’ultimo festival di Venezia con plausi di tanta critica non solo nostrana, mette a nudo i limiti del Friedkin attuale, perso tra una visione cinica e a tratti ridocolmente violenta della provincia, influenzata dall’ormai vituperato stile “pulp” alla Tarantino, con personaggi sempre sopra le righe che ormai, più che divertire o incuriosire per le loro follie, annoiano.

Il giovane spacciatore (Emile Hirsch), in combutta con il padre, cerca un killer per uccidere la madre e incassare i soldi dell’assicurazione. Killer Joe (un buon Matthew McConaughey), che di mestiere fa il poliziotto a Dallas e nel tempo libero arrotonda con lavoretti extra, accetta l’incarico,  pretendendo il pagamento in anticipo, e dato che i contanti non ci sono, inserisce nel patteggiamento la presunta illibatezza della giovanissima Dottie, la sorellastra carina e un po’ svanita. Tutto è stato previsto, nulla andrà come pronosticato, in una sorta di violenta rilettura di Cenerentola e del suo folle principe azzurro.
Black comedy grottesca, ma noiosa e quasi inutile, “Killer Joe” è stato definito in conferenza stampa da Friedkin, come un film che oggi Hollywood non vuole più fare, impegnata in produzioni, che per bocca dello stesso regista, sono indirizzate agli  adolescenti, divoratori di fumetti e videogiochi.
Tratto da una piccola pièce teatrale dello sceneggiatore e drammaturgo Tracy Letts, che ha fatto innamorare Friedkin dopo averla vista in un piccolo teatro-off di Los Angeles, “Killer Joe” fallisce nel ripristinare su grande schermo i dialoghi, la storia e le scene di personaggi borderline, che probabilmente sul palcoscenico riuscivano a collocarsi in una dimensione più consona, ma che su pellicola vengono trasformati in pupazzi che nulla hanno a vedere con quelli manovrati magistralmente dai fratelli Coen di “Fargo” o “Blood simple”.
Classica occasione perduta, e forse ultima prova di appello mancata per Friedkin.




venerdì 5 ottobre 2012

Immobilità e ricostruzione: "Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d'os - 2012) di Jacques Audiard



Jacques Audiard è uno dei pochi registi contemporanei dotato della rara perfezione di illustrare la capacità dei personaggi dei suoi film. La capacità, o almeno il forte tentativo, di crearsi le proprie regole e la propria resistenza, di trovare la propria identità rispetto al mondo e alle sue difficoltà, alla violenza, all’amore. Alla vita.


Che sia l’ex galeotto interpretato da Vincent Cassel in “Sulle mie labbra (2001)” ( l’unico in grado di non guardare e deridere dell’handicap di un’impiegata mezza sorda, riuscendo a strapparla alla monotona vita d’ufficio e dalla derisione dei colleghi, coinvolgendola in una rapina ), il Thomas di “Tutti i battiti del mio cuore (2005)” (spinto dal padre in loschi e biechi affari, fino all’incontro con una pianista vietnamita, che riuscirà a sradicarlo dalla vita violenta impostagli dal genitore) o il giovane carcerato Malik  di “Un Profeta (2010)”, i personaggi di Audiard affrontano e sorpassano le loro personali mutazioni, fisiche ed emotive, determinate da situazioni e incontri spesso non cercati o voluti.
Tratto dal libro di Craig Davidson “Ruggine e ossa (Einaudi, 2008)”, anche in "De rouille et d'os”  secondo certa critica francese clamorosamente escluso dal Palmarès del 65° Festival di Cannes - il pugile Ali e  Stephane non sfuggono a questa regola, alla capacità di sopravvivere, di crearsi la propria nicchia in un universo ostile.

Ali (Matthias Schoenaerts), operaio disoccupato ed ex pugile, con il piccolo figlio Sam  che conosce appena, trova rifugio ad Antibes, a casa della sorella. Lavorando come buttafuori in una discoteca, conosce Stephanie (una fantastica e dolente Marionne Cotillard), un'addestratrice di orche, che durante il lavoro subisce un incidente in cui perde le gambe.  Mesi di solitudine dopo l’incidente, Stephanie cerca quell’uomo ruvido ma gentile che una notte l’aveva accompagnata a casa. Da qui nasce  un rapporto di amicizia, sesso, amore mai esplicato verbalmente, un rapporto fra una donna menomata nel corpo e nell'anima, e un uomo che sa usare solo la sua  brutale  fisicità e leggerezza come verbalizzazione. Attraverso allontanamenti, incotri di pugilato clandestini, la leggerezza di Ali nel vivere il rapporto con la famiglia e con il figlio, drammi personali, i due riusciranno in un percorso di cambiamento e avvicinamento reciproco, trovando comunque, in quell'apparente antipodo emotivo che separa uno dall'altra, la stabilità forse mai realmente vista, o cercata e voluta fino ad allora.
“Un sapore di ruggine e ossa” è anche un film sul corpo e sulla mente: il suo potere, la sua distruzione, la sua immobilità, la sua ricostruzione. Il sapore di ruggine e sangue è quello che Ali sente in bocca come ogni pugile dopo un combattimento, quando la bocca si riempie di sangue e un cortocircuito di sensazioni contrastanti pervade la mente dell’uomo al tappeto, quello che metaforicamente tutti hanno/abbiamo la sgradevolezza di provare su se stessi.
Gli eventi tragici che coinvolgono i protagonisti sono i motori propulsori verso la rinascita, la luce in fondo al tunnel, la capacità di trasformare il dolore in salvezza, la tristezza in felicità, dalla caduta al riscatto, alla propria ricostruzione, tramutando la pulsione di morte in attaccamento per la vita.
Audiard ha dichiarato che dopo “Un Profeta” aveva il desiderio di fare un film sull’amore, sui suoi innumerevoli aspetti e diversità d’interpretazione, sulle donne, sul linguaggio amoroso della coppia; cosi come nel registro finto-noir di “Sulle mie labbra”, il regista concentra ancora il suo sguardo personale su una storia d'amore apparentemente fuori misura.
Stephane è in questo caso l’emblema perfetto di quanto espresso da Audiard, con l’ossessione per una sensualità disperata, per il suo corpo martoriato, che da strumento di lavoro, riesce a diventare strumento d’amore, che le permette di riprendere il contatto con Ali, con la vita, con l’acqua, altro simbolo preponderante con tutto ciò che il contatto con essa comporta,  sensazione di libertà e di pericolo insieme.
Ali è invece l’unione della dolcezza e della rabbia, della ferocia, sentimenti che si amalgamano e si separano di continuo, quei sentimenti qui rappresentati anche dal suo rapporto con il piccolo Sam, che spesso fanno emergere nell’uomo gli istinti animali che lo pervadono,  istinti mitigati da ciò che ci contraddistingue - non sempre - dalle bestie feroci, quella ricerca di pace interiore o di ricostruzione della relazione affettiva, filiale o meno che sia.
Quelle moltitudini di sensazioni che capita di percepire fisicamente, quell'amaro che almeno una volta nella vita tutti abbiamo dovuto e dovremmo, nostro malgrado, assaporare.