Per qualcuno
alla fine hanno vinto lo sport e i suoi ideali, ma se guardiamo ai numeri quello
sulla Superlega è stato semplicemente lo scontro di due concezioni differenti
dell’industria del calcio, legate alla diversa situazione materiali dei club.
Se l’economia è globale e il calcio è un’industria, il piano dei superclub,
oggi naufragato miseramente, potrebbe riproporsi.
La vicenda è nota: nella notte tra domenica 18 e
lunedì 19 Aprile, 12 club tra i principali del calcio europeo annunciano la
creazione di un proprio torneo chiamato Superlega. Un campionato privato tra 12
squadre più cinque che avranno il privilegio di essere scelte di volta in volta
per accedere a questo club esclusivo i cui portavoce affermano di avere già in
tasca l’impegno di altre potenze calcistiche ad aderire. Nelle 48 ore
successive la notizia ha il potere di far sparire dalle prime pagine
l’emergenza della pandemia, di mobilitare i massimi vertici politici europei
(Macron, Merkel, Draghi, Johnson, Sanchez) in un moto comune di indignazione; di
scatenare gli organi di governo del calcio a tutti i livelli nella minaccia di
sanzioni, espulsioni, ritorsioni legali contro i club coinvolti; di produrre un
fiume di dichiarazioni e analisi da parte di allenatori, giocatori,
commentatori sportivi e opinionisti più o meno esperti su tutti i canali della
comunicazione contemporanea; persino di generare mobilitazioni di piazza e
manifestazioni negli stadi da parte delle tifoserie storiche soprattutto
inglesi, ma anche spagnole e, in minima parte, italiane. Di conseguenza, tra
retromarce imbarazzanti e scuse pubbliche di alcuni club, il progetto viene
ritirato o, nell’interpretazione di alcuni, soltanto accantonato.
Interessa poco, in questa sede, entrare nelle
dinamiche specifiche del mondo del pallone che hanno portato a questo scontro. Quello
che è interessante approfondire è invece il significato più complessivo da un
punto di vista sociale e politico, il carattere rivelatore, paradigmatico, di
questa vicenda rispetto al contesto in cui è nata. Perché il calcio, e forse
ormai solo il calcio, riesce ad essere un fenomeno che va ben oltre il suo
significato strettamente sportivo e di gioco, arrivando a coinvolgere nelle sue
vicende, come abbiamo visto, persino i massimi vertici politici europei? In
fondo, nel basket esiste da vent’anni l’Eurolega, un vero e proprio campionato
dei più forti e ricchi club europei basato su licenze decennali (a pagamento) e
ridotti meriti sportivi. Certo, il livello di popolarità tra le due discipline
è imparagonabile, ma la popolarità è più un effetto che una causa. Nel tempo, infatti,
il calcio si è caricato di significati che vanno ben oltre il suo sistema di
gioco e di tecniche, e anche di responsabilità che, in fondo, nemmeno gli
competono. E’ uno strumento di geopolitica, una fonte economica, ha sostituito
molti elementi di coesione nazionale e di identità in crisi (partiti politici, chiesa,
luogo di lavoro, tradizioni locali), oltre a produrre contro e sottoculture (si
pensi agli Ultras). Anche il mondo del calcio è quindi investito e vive la contraddizione
che caratterizza questa epoca: il superamento delle entità nazionali e locali per
effetto della globalizzazione economica e delle tecnologie della comunicazione,
e la necessità di conservare o avere un’identità, un’appartenenza di cui,
spesso suo malgrado, diventa interprete.
In questo senso, la vicenda della Superlega è, come
dicevamo, paradigmatica. I 12 club coinvolti (e anche molti sin da subito
contrari) sono da tempo squadre globalizzate e non a caso occupano (con
l’eccezione del Bayern di Monaco) tutte le prime posizioni della classifica mondiale dei tifosi dominata dal Manchester United con una stima di 650
milioni di tifosi, cui seguono Barcellona con 450 milioni e Real Madrid con 350
milioni. La prima italiana è la Juventus (ottava) con 27 milioni di tifosi in
tutto il mondo. Prendendo ad esempio il primo in classifica, la vendita delle
sue magliette nel globo è pari a 2.850.000 pezzi all’anno. Non è certo un caso se il disegno delle
casacche delle squadre cambia ogni anno e il numero delle divise di gioco per
stagione si moltiplica a dismisura. A livello proprietario, poi, questo aspetto
è ancora più evidente: fondi americani e arabi, società cinesi, magnati russi hanno
da tempo acquistato importanti squadre europee, molte delle quali direttamente
coinvolte nell’operazione Superlega. Anche laddove il quadro legislativo e la
tradizione favoriscono l’azionariato diffuso, come in Spagna e Germania, questo
non è certo un antidoto alla gestione dei campionati e dei club come imprese
economiche globali. In effetti, si parla ormai comunemente di “industria del
calcio” e le cifre economiche in campo non smentiscono certo questa
definizione. Il rapporto annuale sul calcio nel nostro paese di
PricewaterhouseCoopers Italia,
curiosamente a cura e con prefazione di Enrico Letta, fornisce un quadro
completo dell’impatto del calcio sull’insieme dell’economia nazionale. L’impatto
socio-economico generato dal professionismo calcistico, che riguarda poco più 1.300.000
persone tra calciatori, tecnici, dirigenti e arbitri, è calcolato in circa 3
miliardi di euro. L’apporto al PIL nazionale è dello 0,22%. Non una grande
cifra in termini assoluti, certamente sproporzionata al peso di cui gode da un
punto di vista politico e sociale questa “industria” un po’ particolare. Chi di
fronte alla Superlega si è indignato, invocando una presunta violazione di
chissà quale codice di onore e meritocrazia sportiva dell’attuale situazione, lo
ha fatto per interesse occultando i privilegi e i favoritismi di volta in volta
concessi anche della politica alle società più potenti e alla federazione che
le rappresenta: la FIGC. Basti ricordare che per ripulire la sua immagine screditata
dallo scandalo di “calciopoli”, solo uno dei
tanti nella sua storia, nel 2007 fu scomodato persino il giudice di mani pulite
Saverio Borrelli. La spinta alla trasformazione del calcio in business ha trovato un puntuale supporto
legislativo che ha permesso di mutare le società calcistiche in Spa, godendo
però di vantaggi e privilegi particolari. L’indebitamento complessivo dei club
di serie A nel 2019 ha sfondato i 4 miliardi di euro a fronte di un patrimonio
netto aggregato delle società pari a 551 milioni di Euro (BusinessInsider030321). Una situazione catastrofica, aggravata anche dal
Covid, e che però periodicamente beneficia di interventi a carico della finanza
pubblica per evitare il collasso. Si va dal Decreto “salvacalcio” del Governo
Berlusconi (all’epoca proprietario del Milan) fino alle misure del Decreto Rilancio
del 2020, che consentono in sostanza un rinvio di pagamenti fiscali e previdenziali,
la possibilità di spalmare l’indebitamento nei bilanci fino a venti anni, la
sospensione dei canoni di locazione e di superficie degli impianti sportivi,
ecc. Un trattamento di favore puntualmente giustificato dai governi di ogni
orientamento con l’esigenza di salvaguardare un’industria fondamentale e un
introito per l’erario e la previdenza di poco superiore al miliardo di euro
grazie anche al contributo del prelievo fiscale sulle scommesse. La politica e
la burocrazia statale si mettono a disposizione del calcio per interesse
elettorale o per alimentare un circuito di corruzione legato agli enormi flussi
di denaro anche pubblico legati al fenomeno del pallone. Il caso più
emblematico è stato il mondiale di Italia ’90 (FattoQuotidiano080620) costato alle casse dello stato 6.000 miliardi di
lire ,oggi rivalutabili in 7 miliardi di euro, e alla categoria degli edili 24
morti a causa delle deroghe alla sicurezza e alla pressione ad affrettare i
tempi nei cantieri. Cantieri di opere faraoniche inutili e già demolite, o
rimaste, come gli stadi frettolosamente ampliati o costruiti ex novo sulla base di previsioni di
pubblico assolutamente illogiche solo per farne lievitare i costi (fino al 180%
nel caso dello Stadio Olimpico di Roma), a carico delle casse comunali per
tutti gli oneri di mantenimento e gestione. Un ulteriore, perfetto esempio di profitto
privato a spese della finanza pubblica, dato che i ridicoli canoni che le
società calcistiche pagano, spesso in ritardo, ai comuni che hanno in gestione
gli stadi non compensano affatto il costo di mantenimento di questi impianti. Altri
17 milioni di euro sono stati spesi per ammodernare gli stadi che hanno
ospitato i Campionati Europei under 21 nel 2019. Questo ulteriore esborso non
ha affatto compensato la vetustà degli stadi italiani e la loro inadeguatezza rispetto
agli standard di fruizione da parte del pubblico cui sono orientate le maggiori
società di calcio internazionali. Il 93% degli stadi italiani è di proprietà
pubblica e ha una età media di 63 anni, e solo il 58% di posti al coperto. Da
questo punto di vista il divario con le società calcistiche del club dei 12 scissionisti,
anche per le squadre italiane coinvolte nel progetto, è enorme. Gli stadi
polifunzionali di ultima generazione, di proprietà e gestione dei club e non
più degli enti pubblici, come lo Stamford Bridge del Chelsea, il Tottenham
Hotspur Stadium, l’Allianz Arena del Bayern di Monaco, il Camp Nou del
Barcellona o Santiago Barnabeu del Real Madrid, solo per fare qualche esempio,
sono progettati per ospitare vari eventi tutto l’anno e rappresentano una fonte
di guadagno per i club in una logica di diversificazione delle entrate. Lo stadio più redditizio d’Europa, il Camp
Nou, per esempio, nella stagione 2017-2018ha generato un introito di 144
milioni di euro. Il gigantismo architettonico degli stadi da 160.000 posti come
il Maracanà brasiliano è stato sostituito da un modello esclusivo fatto di
posti a sedere, hospitality, box privati,
ristoranti, parcheggi sotterranei, musei, ecc., e ovviamente, biglietti sempre
più cari per fare della partita e della trasferta non più un appuntamento
settimanale, ma un “evento” cui assistere poche volte lasciando il resto alla
visione in tv. Solo la Juventus si è avvicinata in Italia a questo modello, ma
a Roma e a Milano il futuro elettorale degli attuali sindaci si gioca anche sulla
risposta da dare alle squadre della città rispetto ai loro progetti di ristrutturazione
di San Siro e dell’Olimpico. Né poteva mancare un provvedimento ad hoc
del Governo, che con Gentiloni ha varato una norma tesa a garantire la
“bancabilità” e semplificare l’iter burocratico a quelle società interessate a
investire in strutture sportive.
Nonostante gli stadi, il merchandising, gli sponsor,
i diritti televisivi, il botteghino, al profondo rosso di bilancio non sfugge
nessuno dei top club coinvolti nella
Superlega, a causa di una gestione societaria che se si confrontasse con i
criteri e le regole delle imprese economiche “normali” avrebbe già determinato
il fallimento e probabilmente l’incriminazione dei presidenti e degli organi
amministrativi. Il loro indebitamento complessivo ammonta a 7,7 miliardi di
euro, e il peggio probabilmente deve ancora arrivare, dato che si stima a causa
del Covid una perdita di ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di euro da ripartirsi tutti
a carico dei vari club.
Si sa che la fonte di introito principale del calcio
moderno sono i diritti televisivi sulle partite. Si stima che i diritti
televisivi della Superlega, considerato un potenziale di pubblico pari a 4
miliardi di tifosi nel mondo, con i relativi abbonamenti alle pay-tv, avrebbero
potuto ammontare a 10 miliardi di euro all’anno. 4-5 volte di più del valore
dei diritti televisivi dell’attuale Champions League da spartirsi, inoltre, non
più tra 32 squadre, ma al massimo tra 20. Senza contare le ricadute economiche
su tutto il resto dell’indotto: dagli sponsor
al merchandising. Un affare
potenzialmente enorme sia per le società coinvolte, sia per i loro azionisti, che
per la JP Morgan che contava su una redditività a due cifre del suo
investimento iniziale di 3.5 miliardi di euro. L’interesse economico dei
promotori dell’operazione è evidente, così come quello di quanti si sono
opposti con così tanta forza e, alla fine, efficacia. In assenza del top club le attuali competizioni
internazionali, così come i campionati locali se fosse andato in porto il
provvedimento di espulsione dei “ribelli”, si sarebbero rapidamente svalutati agli
occhi degli appassionati di calcio e, di conseguenza, anche degli sponsor e delle televisioni. Le squadre
e le competizioni escluse sarebbero entrate in un circolo vizioso tra meno
risorse disponibili, meno ingaggi di qualità, meno interesse praticamente senza
fine con il risultato di una polarizzazione sempre maggiore tra club super ricchi
e club in difficoltà.
Oltre che interessata, quindi, la levata di scudi da
parte della UEFA, della FIFA (sui cui scandali e corruzione si potrebbe
lungamente disquisire) e della FIGC è anche un monumento all’ipocrisia. Tra due
anni, infatti, nella stessa logica della Superlega che vede nella
moltiplicazione a dismisura delle partite il canale principale di aumento degli
introiti per le società calcistiche, la UEFA inaugurerà una nuova formula della
Champions League a 36 squadre che garantirà a ogni club partecipante un minimo
di 10 partite contro le attuali 3. Inoltre, nella stagione 2021-2022 prenderà
il via una terza competizione europea per club: la Conference League aperta a
184 squadre. Anche il Mondiale di Calcio nella prossima edizione passerà dalle
attuali 32 nazionali a 48. In Italia, infine, nessuno mette in discussione l’allargamento
del campionato a 20 squadre, la moltiplicazione dei tornei o che per
raccogliere qualche soldo dalle televisioni, le ultime finali della Supercoppa
italiana si sono giocate a Doha, Gedda e Riad.
La bulimia di incontri, paragonabile alla
sovrapproduzione di merci, sembra essere l’unica risposta del mondo del calcio modello
società per azioni globale alle sue difficoltà finanziarie. C’è da chiedersi se
e per quanto questa strada per certi versi obbligata potrà funzionare o non
finirà per logorare per troppa offerta e ripetitività anche l’interesse più radicato
del tifoso o dell’appassionato di calcio. Anche l’emozione di un clasico
Barcellona-Real Madrid se ripetuta per decine di volte può finire per annoiare.
Già oggi nel tifoso più giovane l’interesse per il calcio è più legato alla
socialità che ne deriva che allo sport in sé, e la partita vera e propria è seguita
attraverso gli highlights piuttosto che per tutta la durata dell’incontro (Fan of the future. Defining Modern Football Fandom).
La vicenda della Superlega asseconda e rivela un
fenomeno di polarizzazione della ricchezza, di proiezione verso un mercato
globale, di lotta senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse già
ben noto a livello economico complessivo e in via di ulteriore accelerazione in
questa fase e che non risparmia nessun settore, nemmeno il calcio. Inoltre, da
un punto di vista dei protagonisti: presidenti, dirigenti sportivi, manager,
calciatori, mostra la loro natura di super privilegiati interessati a
conservare e ad ampliare la loro condizione di distacco e di privilegio fatta
di spregiudicatezza finanziaria, senso di impunità, voli privati, feste, cene, tamponi
e vaccini proibiti ai più, ancor più evidente in questa fase di emergenza
sanitaria e di crisi economica. Un privilegio che è anche “salariale”, come
testimoniano due semplici cifre: tra il 2017 e il 2018 il costo del lavoro del
calcio professionistico è aumentato del
14,6%, mentre per i lavoratori dipendenti italiani aumentava tra il 2% e il
2,5%.