giovedì 27 settembre 2012

La comedie humaine di Simenon


Pongo all’attenzione di voi lettori (ma mi leggerà mai qualcuno?) due romanzi e dello stesso autore: “Il presidente” – “Il piccolo libraio di Archangelsk” – George Simenon (Liegi 1903 – Losanna 1989) – Adelphi editore.

Nella galassia di temi che nel corso di una titanica produzione letteraria (più di duecento i titoli tra romanzi e  saga del commissario Maigret) lo ha visto protagonista, George Simenon si dedica alla storia della carriera politica di un esimio e autorevole statista francese. Fin dalla prima pagina si respira un’atmosfera di dejavù,  la fine di una stagione umana prima ancora che politica e il luogo in cui il pluri presidente del consiglio ha deciso di ritirarsi e perire in solitudine ne è la prova, circondato da una servitù in perenne afflizione per la sua fragile condizione psico fisica. Una fissità da iconografia russa descrive il presidente seduto per gran parte del tempo sulla sua vecchia poltrona Luigi Filippo compagna di tante lotte politiche e oggetto imprescindibile del quale non può fare a meno.

In un excursus meditativo dilatato nel tempo i ricordi vagano alla ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi per decifrare la personalità di un uomo che ha fatto della sua coerenza e austerità il carattere predominante. Segreti e relazioni interpersonali passate interagiscono conflittualmente nella sua mente che tenta ancora di riflettere e comportarsi come se nulla fosse cambiato, come se il protagonismo di un tempo non lo avesse abbandonato. Nello status mentale in cui si trova, la senescenza genera incroci di aneddoti e esperienze nei quali è difficile scorgere l'oggettiva e reale autenticità.
Interessante infatti decifrare nel testo come il tempo giochi un ruolo fondamentale nel riportare alla mente esperienze passate e come l’interpretazione di queste vanifichi in un certo senso l’oggettiva nascita, evoluzione e fine di esperienze vissute anni o addirittura decenni addietro. Dei rapporti di forza e dei continui compromessi che un uomo impegnato in politica  deve attuare quotidianamente.  Una indistruttibile consapevolezza personale, un unico modo di intendere il senso da dare alla vita, privo di dubbi, una gelida valutazione delle persone e delle vicissitudini di cui è stato testimone descrivono il ritratto  di  un uomo ossessionato dal potere, dagli oneri e dagli onori che questo comporta. La sete di potere per Tacito era: ''la più manifesta di tutte le passioni'' e in questo caso è anche l'unica ragione, l'unico riflesso da cui parte ogni riga del romanzo.

Il secondo romanzo è la prova indiscutibile di come un talento, un genio, riesca da un contesto piccolo borghese, sciatto e asfittico, dove è il nulla che domina la scena, a trarne un dramma realistico e potente.
Partiamo con una citazione: "E' più facile spezzare un atomo che un pregiudizio". Ma cosa c'entra Einstein con Simenon? Una massima del padre della relatività riassume perfettamente la costruzione di questo gioiello.

Storia semplice e lineare: un emigrato russo svolge la professione di libraio in un piccolo paese francese nel suo negozio-casa ripetendo ogni giorno poche e abitudinarie azioni (caffè al bar, pulizia della casa, catalogazione dei libri, osservazione e passione della sua raccolta di francobolli) fino a quando non irrompe nella sua vita Gina, bella e trasgressiva compaesana presa come governante. Jonas si innamorerà di Gina come un padre si innamora di una figlia, vuole darle un equilibrio, una sicurezza che fino a quel momento non hai mai posseduto.
Una silente contrapposizione di due persone che non vogliono cambiare l'altro per non cambiare se stessi non farà che evidenziare la crescente angoscia di Jonas nel non saper vivere pienamente la sua prima e unica relazione amorosa tanto da nascondere ai suoi vicini, con una bugia ingenua, la fuga della sua amata. Una bugia che instaurerà col passare dei giorni una plumbea atmosfera nel contesto della storia e che assumerà la pesantezza di un macigno nell'anima del povero libraio.
Sospetti, diffidenze, malanimo assorbiranno le giornate di Jonas incapace di riconoscere e ammettere per tempo l'unica colpa che, agli occhi dei suoi "amici", equivale a una sentenza di colpevolezza. Solo al secondo interrogatorio confesserà al commissario del paese la sua menzogna, impacciato e confuso in un inverosimile processo basato su sospetti e illazioni. Che fine ha fatto Gina? Perchè Jonas non racconta al commissario la confidenza di una portiera d'albergo che lo salverebbe da ogni possibile addebito?

Alla fine di un romanzo di Simenon si ha di rado la sensazione, l’impressione,  di un trionfo, ma piuttosto di uno scoramento, di una lenta e inesorabile caduta di tutti i personaggi che costellano il suo microcosmo.
Quello che comunque stupisce nella sua opera omnia è il livello mediamente alto che è riuscito a mantenere in ogni suo scritto, senza che la sua ispirazione si indebolisse, che la prosa semplice ma allo stesso tempo profonda scendesse di tono.
Questa gigantesca architettura letteraria, ricca di uomini, di paesaggi e di passioni somiglia ad una commedia umana, che talora è stata accostata a quella di Balzac ed il  suo successo immenso e duraturo  è stato oggetto di traduzione in tutte le lingue. Non stupisce dunque che il cinema se ne sia impadronito. Il testo, dove i dialoghi occupano un grande posto, reclama le immagini. Quasi tutti i romanzi sono stati ridotti in pellicola, ed alcuni più volte. Se così ricca è la sostanza dei temi che ciascuno vi può prendere ciò che vuole, farne ciò che più gli aggrada, ben pochi riescono tuttavia a rendere la complessità del libro.

lunedì 24 settembre 2012

"Pietà" (2012) di Kim Ki-Duk. La Corea, il sacrificio e il Leone D’Oro al festival del cinema di Venezia


“Pietà” è l’ormai noto film di Kim Ki-Duk vincitore del Leone D’Oro al festival del cinema di Venezia 2012, che ha visto il regista coreano, scevro dei classici abiti da cerimonia che la tradizione festivaliera richiede, ritirare il premio con il gesto, voluto o meno, che vedete nella fotografia.

Al di la di questo siparietto, quello che più volte mi ha colpito, che ho ascoltato e letto in merito a Ki-Duk è l’appellativo che gli viene rivolto, come se fosse un marchio indelebile del suo cinema: controverso, un termine che mi ha sempre fatto sorridere. Cosa c’è di controverso nell’arte, non solo intesa come settima arte ? Proporre immagini blasfeme, scene splatter, narrare storie di politici corrotti, rivisitare i fasti di personaggi storici assurti a miti inappropiati, narrare storie di violenza urbana o domestica, utilizzare un linguaggio cinematografico che un certo tipo di pubblico spesso definirebbe con il classico troppo lento ? Mi è sempre parso un modo non adeguato, fino al rischio della più stupida delle banalizzazioni, per approcciarsi alla lettura, alla critica di un’opera e del suo autore.
Di registi controversi la storia del cinema ne è piena, la storia del cinema narrata da recensori di ogni epoca ha bollato con lo stesso appellativo Autori tout-court Orson Welles, Fritz Lang, Friedrich W. Murnau, Stanley Kubrick piuttosto che Terence Malick.
Kim Ki-duk è un regista. Punto. Un regista con un linguaggio fortunatamente personale, a volte forte e rabbioso come nei suoi primi film “Crocodile (1996)” o “Birdcage Inn (1998)”, violenti e duri ritratti di giovani alienati o prostitute, che davano una visione del mondo profondamente disincantata, come se rappresentassero lo stato normale delle relazioni tra persone, tra uomini e donne. Una visione comunque distante da registi orientali come Kim Jee-Woon (da recuperare assolutamente lo pseudo-thriller “I Saw The Devil (2010)”, Park Chan-Wook (“Old Boy (2003) e la trilogia della vendetta, l’eccellente parabola del prete-vampiro di “Thirst (2009)”) o Takashi Miike (“Ichi The Killer (2001)”, tra la sua lunghissima filmografia ).
La trasformazione del suo fare cinema, per alcuni momenti vicina a quella di Wong Kar-Wai (“In the Mood for Love (2000)” il titolo più noto, o la bellissima e struggente storia dell’amore gay di “Happy Together (1997)” ) viene alla ribalta con “L’Isola (2000)”, dove la bellezza pittorica delle immagini sembra fare a pugni con la storia di  una ragazza che si cura di un piccolo villaggio di pescatori fino ad esserne la prostituta, e primo film a godere di una distribuzione che darà al regista coreano la meritata notorietà internazionale.
I film successivi, relativi successi commerciali anche in Italia come “Primavera, estate, ….(2003)”, “La samaritana (2004)” e soprattutto “Ferro 3 - La casa vuota (2004)” sono esplicativi del pensiero e delle tematiche di Ki-Duk: i sentimenti che albergano in ogni persona, amore, odio, gelosia, rabbia, fino alla violenza e agli istinti omicidi che trovano forma negli elementi genetici dell’uomo, come nell'istruzione, l'ambiente, la famiglia, i luoghi in cui cresce. Da questo punto di vista la sua  biografia (per il quale, come al solito, vi rimando al web) può essere letta come emblematica, dalla nascita in un villaggio di montagna, al duro servizio nei marines coreani, al trasferimento a Parigi e al ritorno in Corea nel 1993.
L’appellativo di controverso, pertanto, quale senso ha ? Quello di narrare più con il silenzio, in cui spesso si muovono i suoi personaggi, offrendo sensazioni più vere per le quali le parole potrebbero distorcerne il significato? Personalmente non esiste una risposta, Wim Wenders aveva utilizzato in modo superbo il silenzio del personaggio interpretato da Harry Dean Stanton in “Paris, Texas (1984)” per raccontare la ricerca dell’Io, silenzio che avvolge la vita dei due monaci buddisti e le anime perdute che si rivolgono a loro per cercare conforto in “Primavera, estate, ….(2003)”, o la dolente relazione e la successiva fuga romantica di “Ferro 3-La casa vuota” narrate dal coreano.
Un regista, un autore non ha l’obbligo di definire tutto, ma anche quello di rivolgere domande da porre al pubblico,  quasi a volerne discutere con loro, senza bisogno di fornire risposte concrete, risposte che possono cambiare costantemente.

“Pietà” è la storia di un riscossore che costringe, con distaccata e insana violenza, i clienti di uno strozzino quando questi non sono in grado di far fronte ai pagamenti degli interessi esorbitanti dei loro debiti. La crudele metodicità del silenzioso aguzzino nel mutilare i poveri debitori, inizia ad incespicare quando  una inquieta e ambigua donna  gli si presenta davanti , dichiarando di essere sua madre, che lo aveva abbandonato alla nascita; se inizialmente il ritrovato rapporto  lo porta a respingere con rabbia e violenza - le uniche espressioni che conosca - la donna, sarà proprio la sua persistenza a crepare la scorza indurita dell'uomo dalla rabbiosa solitudine racchiusa per anni, arrivando a ribaltare i ruoli di vittima-carnefice,  i sentimenti di pietà e vendetta.
Anche nel Leone D’Oro veneziano del 2012, Ki-Duk ripropone, nei suoi più classici non-luoghi, il tema della mancanza d'amore (materno, ma non solo) dell'incomunicabilità, dell’odio, del cambiamento, del sacrificio, uniti a quello del denaro come una  spietata lettura della società capitalistica da cui nemmeno i paesi e le società più lontane ne sono esenti,  dove il potere attraverso il possesso, il denaro stesso, è causa del male che attanaglia la storia dell’Uomo. 
Ritrovare la pietà, la pietas intesa non come sentimento religioso del rispetto per un’entita divina, ma per gli altri, per coloro con cui ci troviamo ogni giorno fianco a fianco, giudicandoli senza voler conoscerne la loro storia, che spesso è anche la nostra, nascosta agli occhi e all’anima degli altri; ritrovare quel sentimento che nel nostro oggi sembra restare un traguardo incompiuto, che solo una versione atea e personale della via crucis può essere in grado di rivelare.

venerdì 21 settembre 2012

Lo spread umano di Roth e il suo alter ego zuckermaniano

Premessa: il blog è, per antonomasia, un diario digitale sull'attualità, sui temi più disparati certo ma che riguardano i giorni nostri. Chiedo scusa quindi se irrompo o rompo le scatole con una riflessione su un testo e su un autore (ancora in vita peraltro) non proprio al passo coi tempi visto che (il testo)   si avvicina a compiere la maggiore età dall'uscita della sua prima  pubblicazione. 

Ma attualità è anche digitare, sulla nostra bella tastiera del laptop, pc o Mac che sia, raccontare, scrivere di opere ed autori che sono e restano comunque attuali…altrimenti che senso avrebbe redigere le proprie cervellotiche masturbazioni su prodotti di decenni fa se non del secolo scorso? L’arte, fortunatamente, spesso non invecchia come i suoi fruitori...
Negli ultimi tempi, mi riferisco agli ultimi 10 anni, Philip Roth ha ottenuto una tale gloria e considerazione da parte della critica mondiale da porlo ogni anno ai primi posti nella lista dei papabili al premio nobel della letteratura. Lo vincerà mai? Che importa. Oramai non passa mese che il quotidiano “La Repubblica” non pubblichi un’intervista di Antonio Monda al celeberrimo scribacchino. Temi trattati? I nuovi scrittori emergenti, i capisaldi della sua libreria personale, la sfera sessuale ai tempi della senilità, i cambiamenti culturali dell’ America che il nostro non riconosce più, le malinconiche considerazioni di un uomo giunto a affermare che la solitudine è divenuta la sua migliore amica e che il suo Nathan Zuckerman corrisponde per filo e per segno alla sua sua storia personale. Dopo "Lo scrittore fantasma", passando per "La lezione di anatomia" o ancora "L'orgia di Praga", nel 1997 l'alter ego dello scriba americano compie il suo capolavoro: "Pastorale americana".
Se i precedenti romanzi prendevano spunto da figure retoriche (metafore, climax, allegorie...) volte a raccontare le vicissitudini di Nathan, con questo libro il metodo di immedesimazione della scrittura figurata lascia posto ad una cronaca dai contorni, in molte pagine, più giornalistici che letterari. E' quasi un bildungsroman su lo "svedese" Seymour Levov, giovane ebreo, sportivo eccellente, ottimo imprenditore cresciuto dentro una bolla di borghese tranquillità che lo vedrà decadere di fronte a uno spaccato di vita moderna nella quale coloro i quali vivono assieme a lui assumeranno gesti e azioni di "innocenti" e grotteschi carnefici.
Gli anni '60 e l'inizio dei '70 aprono e chiudono la porta alla “dinastia”dei Levov arrichitasi con la produzione di guanti, famiglia circondata da un'aurea di sicumera e alterigia nel considerare il lavoro e lo status quo di un conservatorismo politically correct come unica via alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Ma è un libro carico di compassione, autentica compassione umana, non compassione idiota, che non vede, ma occhio e parole che vibrano di fronte alle debolezze umane. Straordinario il pezzo nella fabbrica dei guanti, quando lo Svedese racconta nei dettagli la storia delle concerie e di come suo padre prima e poi lui hanno saputo ingrandirsi, e lo racconta a una sorta di "piccola carnefice", a una persona che è l'interlocutrice completamente sbagliata, una delle maschere funebri che il destino indossa per far crollare le nostre certezze, le nostre passioni, la nostra dedizione, le basi che credevamo granitiche e che sono in realtà fangose e scricchiolanti della nostra personalità, di quell'illusione di "io " stabile.

Non è un romanzo che richiede tempo o pazienza al lettore per entrare dentro davvero nella narrazione. Richiede coraggio. Il coraggio che richiedono i grandi libri, abbandonarsi, non sfuggire pagine che sembrano costeggiare o solo avvicinare il tema principale, pagine che paiono solo digressioni, ma sono funzionali e talvolta rivelatrici preziosissime della trama della storia e del suo intreccio che si disfa e si ricompone, continuamente, ondulatorio, simile al procedere e arretrare delle onde ( fra schiuma, alghe e detriti), senza tregua, senza assoluzione, senza senso, molto spesso, o con un senso aleatorio, volatile, dai colori d'arcobaleno, un senso che, quando pensi di averlo afferrato è già volato via e ti lascia silenzioso e interdetto.

Già a pagina 33 Nathan, compagno di scuola di Seymour,  declina il percorso dell'intera vicenda paragonando l’amico ebreo all' Ivan Il'ic di Tolstoj: ... "magistrato che conduce una vita decorosa approvata dalla società, che sul letto di morte pensa: forse non sono vissuto come avrei dovuto. La vita di Ivan era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse nella Russia del 1886. Ma a Old Rimrock, New Jersey, nel 1995, quando tutti gli Il'ic vanno a frotte a mangiare al club dopo le buche del golf mattutino cantando: non potrebbe andar meglio di così, forse sono assai più vicini alla verità di quanto lo sia mai stato Lev."
Che cosa rimane infine dell’umanità trattata da Roth in questo libro: “la cui visione delle cose rozza e incolta ha pungolato un’intera generazione di figli, per i quali la visione delle cose si riassume nel torto o nella ragione, e in mezzo nulla. Un padre il cui miscuglio di ambizioni, pregiudizi e convinzioni è talmente refrattario alla riflessione da rendere il tentativo di sfuggirgli più difficile di quello che sembra. Uomini limitati provvisti di un’energia illimitata, per i quali la cosa più seria è andare avanti malgrado tutto”. Niente, solo la presa d’atto di una concatenazione di fatti e percorsi umani ai quali è inutile opporsi; le pieghe, gli anfratti, i vicoli oscuri, le case borghesi, le stanche ritualità sociali che perpetuiamo per noia, le passioni incomprensibili, il lato oscuro. Ecco, il lato oscuro. Del singolo e della vita. Parla solo di questo, in fondo.

giovedì 20 settembre 2012

L’aspettativa (consapelvomente) tradita. “Prometheus” (2012) di Ridley Scott

L’indecisione se dedicare o meno spazio al nuovo film di Ridley Scott, mi ha accompagnato fino ad oggi; perchè dedicare un post ad un film già annunciato ormai da tempo immemore, del quale è possibile reperire da mesi recensioni e trailer vari per quello che si annuncia come uno dei blockbuster del 2012 ?

Il motivo nasce soprattutto per i trent’anni compiuti da una pietra miliare - definirlo film di fantascienza sarebbe solo riduttivo - come “Blade Runner”, al ritorno al cinema di genere per il regista con il film che era annunciato come il prequel del mitico “Alien” del 1979, oltre ad un excursus sulla fantascienza, intesa sia come genere letterario che cinematografico, ma che meriterebbe un approfondimento molto più ampio.  
Cinema di genere per anni sottovalutato da pubblico e critica come prodotto di puro intrattenimento, ma che in realtà ha spesso avuto significati ben più profondi, anche di analisi del periodo storico in cui vennero a galla capolavori come “L’invasione degli ultracorpi (1956)” di Don Siegel (una parabola sulla paura della guerra fredda  e della possibile invasione degli allora contrapposti blocchi sovietici-americani); ad un argomento del genere andrebbe dedicato un capitolo a parte, e non poteva essere questa la sede per aprire un dibattito sulla fantascienza tutta, intesa anche come Letteratura, che spesso ha relegato scrittori magistrali come James Ballard o Philip K. Dick ad autori di serie B, visionari anticipatori di società future e del nostro presente, per essere poi riscoperti e finalmente assurti a Scrittori non solo di genere.


Ridley Scott aveva sorpreso pubblico e critica sul finire degli anni ’70 con due opere molto diverse tra loro, “I Duellanti” del ’77 ( http://www.youtube.com/watch?v=cbNe2mmBkbI ) e appunto “Alien”, considerati all’unanimità due opere di grande impatto. Se Keith Carradine e Harvey Keitel sono i magnifici protagonisti di un duello, non solo fisico, che si protrae per anni tra due tenenti ussari nella Francia napoleonica, il bavoso mostro alieno del ’79 sovvertiva le regole del cinema di fantascienza, genere che indicava da anni forti segni di aridità, usando un senso di claustrofobia narrativa e visiva raro per quel periodo, se non in alcuni capitoli di registi come John Carpenter e nelle prime opere di David Cronenberg. “Alien” suggellava il passaggio del cinema di fantascienza a cinema di serie A, pur utilizzandone le regole classiche ed utilizzando una trama molto essenziale: 7 persone intrappolate all’interno di un luogo, un’astronave, prede di un’entità mostruosa, spesso invisibile, e la lotta per la sopravvivenza.
Nel 1982 “Blade Runner” suggellava il nome di Scott nell’Olimpo del Cinema.
Personalmente la produzione del regista da quel momento si è tramutata in una serie di film di successo (“Thelma & Louise” del ’91 o “Il Gladiatore” del 2000), ma privi e lontani per invenzione e personalità dal suddetto trittico prodotto dal ’77 all’82, e davvero poco interessanti se non orrendi, “Soldato Jane” tra tutti. La dura storia del gangster di colore narrata in “American Gangster” (2007, con Denzel Washington e Russel Crowe) l’interpretai come un cenno di risveglio del regista, e comunque un segnale di fiducia per godere sul grande schermo dell’universo di “Prometheus”.
Il plot, noto quanto meno ai fan della saga di “Alien”, vede due archeologi che esplorando una grotta preistorica in cui i dipinti narrano il contatto tra l'uomo primitivo e un visitatore alieno, e incrociando diverse raffigurazioni della volta celeste rinvenute presso altre località, ottengono una mappa stellare. Verranno inviati, sull’astronave Prometheus ed il suo equipaggio, ad esplorare un pianeta in un  lontano sistema solare, dove potrebbero trovare le tracce di una civiltà che avrebbe generato la razza umana e scoprire la risposta ad una delle domande più profonde dell'uomo, l’evoluzione della vista stessa sulla Terra. Cosa accadrà una volta giunti a destinazione, sarà una sequenza di disavventure dovute all’incontro con i “creatori”, mostri tentacolari e con le macchinazioni della compagnia che ha finanziato l’esplorazione del pianeta.
Lo spettatore più attento avrà modo di trovare le connessioni con “Alien”, dato che la storia narrata in “Prometheus” si svolge 30 anni prima del futuro narrato nel film del ’79; l’attesa ha tradito le aspettative, vuoi perché Scott è ormai un normale regista di film d’avventura stile James Cameron (non a caso responsabile del primo sequel di “Alien”), vuoi perché la sceneggiatura di Damon Lindelof (tra i creatori di “Lost”) e J. Spaihts risulta in certi momenti davvero imbarazzante, sia creando dei momenti di involontaria ilarità in quelle che dovrebbero risultare scene ad alta tensione, che nella caratterizzazione dei personaggi. Lindelof è ricaduto nelle ambizioni di raccontare mitologie ed enigmi pseudo-filosofici in modo rapido e raffazzonato, difetti che resero l’ultima stagione di “Lost”  fallimentare e risibile tra i suoi vagheggiamenti new-age da salotto radical-chic.
Resta impresso il fascino tecnologico-visuale delle scenografie e l’ottima realizzazione visiva, che con un budget enorme e almeno un interpretazione di buon livello (Michael Fassbender nel ruolo dell’androide, ateo ricercatore della verità) a disposizione assume più la sembianza del difetto, ma davvero troppo poco per quello che poteva essere un’opera visionaria, smarrita e logorata da finti dibattiti dei protagonisti sul significato esistenziale e teologico della vita ed una sequenza di inseguimenti, esplosioni, mostriciattoli e  battaglie ormai già consumati e privi di suspense. Il 2019 di 30 anni fa dipinto in “Blade Runner”, del quale “Prometheus” è in parte debitore (la ricerca del creatore dell’androide Roy interpretata da Rutger Hauer nel capolavoro dell’82 è lo stesso motore propulsore che spinge l’archeologa Noomi Rapace e parte dell’equipaggio della Prometheus alla ricerca della verità), risulta ancora oggi più attuale e moderno di questo nuovo capitolo di Scott, che sembra essere solo la prima parte di una saga da videogame.

mercoledì 19 settembre 2012

Pollution, ci sei o ci fai...."Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi 2004)" di Jared Diamond

Post di Matteo Casali



Non sono un "saggista" e mai lo sarò. Appartengo piuttosto alla categoria dei "romanzieri", vuoi per un avvicinamento tardivo ai primi, vuoi per un'innata predisposizione ai secondi. Ma "the time they are a changin'" e qualche anno fa, aiutato da un originale librario del centro storico genovese dal quale saltuariamente mi servo, che mi ha dapprima sciorinato col suo esondante-esacerbante-nauseante? nozionismo da frustrato "home de lettre" una lunga lista di saggistica comprendente tutto lo scibile umano, dall' uomo di Neanderthal a Joseph Roth (Claudio Magris "lontano da dove" Einaudi) , da Mike Buongiorno (Umberto Eco docet) a Moana Pozzi , per arrivare in fretta alla prosaicità dei giorni nostri, per poi finalmente catturare la mia attenzione su questa pietra miliare del XXI secolo di 566 pagine -Collasso, come le società scelgono di morire o vivere- Einaudi editore. 
E allora inziamo col dire: “Homo homini lupus", l'uomo è un lupo nei confronti di un altro uomo. , un’espressione proverbiale risalente a Plauto rende l'idea ed   enuclea perfettamente l'egoismo e la crudeltà della natura umana, della  storia raccontata dall'etologo Jared Diamond  e la  recensione potrebbe finire qui ma vi romperò il cazzo ancora per un pò.
Grazie alla storia di popolazioni e territori lontani nel tempo e nello spazio (Isola di Pasqua, Groenlandia, Islanda,) dalla nostra civiltà moderna, è possibile comprendere e, se possibile, non ripetere gli errori e i comportamenti autolesionistici commessi dall'uomo nei confronti delle risorse ambientali a sua disposizione che ne hanno decretato la prematura scomparsa.
La prima parte del saggio è costruita sulla complessa analisi delle cause e degli effetti devastanti nati dai comportamenti consapevoli-inconsapevoli dell'uomo inseriti in un territorio e un ambiente naturale caratterizzato da una fragilità e da un ecosistema lento a rigenerarsi, tali da essere, prima la vittima e poi il carnefice dei suoi stessi abitanti. Un'analisi ad ampio raggio basata su dati storico-archeologici difficilmente opinabili prende in esame realtà continentali geograficamente distanti ma tutte accumunate da un processo evolutivo-distruttivo sfociato nella stessa tragica sorte.
La seconda parte si concentra sui possibili parallelismi e sulle dinamiche polito-sociali dei giorni nostri che, se non cambiate, potrebbero risultare esiziali per le future generazioni. Scioccano per l'oggettiva attualità alcuni esempi posti a confronto tra due popolazioni che hanno contemporaneamente vissuto nello stesso territorio secoli addietro. Una è sopravvissuta, l'altra è estinta. Gli inuit (eschimesi) e i norvegesi della Groenlandia. Paradigma attualissimo di come si può sostenere uno standard di vita accettabile (inuit) e di come, invece, non si può protrarre uno stile di vita basato sullo sfruttamento e il conseguente esaurimento (norvegesi) delle risorse naturali a propria disposizione.
I nodi nevralgici su cui si basa lo studio di Diamond sono il costante disboscamento non programmato delle foreste pluviali con inaridimento e salinizzazione del territorio, la crescita demografica con aumento geometrico del fabbisogno alimentare e sanitario, utilizzo scriteriato e irresponsabile dei combustibili fossili con danni incalcolabili all'ecosistema terrestre, oltre che all'impatto inquinante provocato dal rilascio di sostanze velenose nella lavorazione dei giacimenti minerari (oro, rame, argento, carbone) nel globo acquatico.
A bilanciare le azioni di un processo degenerativo generato dall'evoluzione biologica-sociale dell'uomo, l'autore, in dodici punti, spiega come è possibile arrestare il disfacimento in atto, invertendo la rotta intrapresa, assecondando e promuovendo comportamenti virtuosi ad iniziare dalla vita individuale di ogni cittadino mondiale. L'opinione pubblica, il formarsi di associazioni ambientaliste nel corso degli ultimi cinquant'anni hanno portato alla modificazione se non all'eliminazione (clorofluorocarburi) di sostanze altamente inquinanti.
Una goccia nell'oceano? Forse si vista la crescente modificazione del tessuto economico-sociale cinese e indiano (Cindia) che si avvicinano paurosamente a standard di vita conosciuti sinora soltanto dal mondo occidentale con un fabbisogno energetico e alimentare che cresce di giorno in giorno. Se i tassi di consumo pro capite cinesi raggiungessero i livelli del primo mondo (Europa, America) e se niente cambiasse a livello mondiale (ovvero la popolazione e i tassi di produzione/consumo rimanessero invariati nel resto del pianeta), allora la produzione totale mondiale dovrebbe aumentare del 94% solo per far fronte alla domanda della Cina. In altre parole, se i cinesi diventeranno ricchi come noi l'umanità avrà bisogno del doppio delle risorse attualmente disponibili. Come arginare tutto questo? Come scongiurare un tracollo globale? Leggete questo libro, potrete capire che le alternative, non indolori, esistono.