giovedì 29 dicembre 2022

2022 rewind

top
Station Eleven (HBO Max-miniserie)
The Velvet Underground (Todd Haynes - AppleTV)
1883 (miniserie Paramount - Taylor Sheridan)
Binker & Moses - Feeding the Machine
Parigi, 13Arr. (Jacques Audiard)
Licorice Pizza (Paul Thomas Anderson)
Apollo 10 e mezzo (Richard Linklater)
The Innocents (Eskil Vogt)
Memoria (Apichatpong Weerasethakul)
Crimes of The Future (David Croneneberg) 
Stefano Pilia - Spiralis Aurea 
Esterno Notte (Marco Bellocchio)
Tiffany McDaniel - L'eclisse di Laken Cottle  (Jimenez Ediz.)
We Own This City (miniserie HBO - George Pelecanos & David Simon)
Moor Mother - Jazz Codes
Better Call Saul (season finale - Netflix)
P. Milligan & M. Allred - X:Cellent Ereditario X (Panini Comics)
Derek Jarman - Testamento di Un Santo (Shake Ediz.)
Nope (Jordan Peele)
Hernan Diaz - Trust (Feltrinelli)
Irma Vep (miniserie Sky - Olivier Assayas)
William T. Vollmann - Come un'onda che sale e che scende (ristampa-minimum fax)
Fire of Love (Sara Dosa)
Paolo Angeli - Rade
Stephen King - Fairy Tale (S&K)
Sun Ra Arkestra - Living Sun 
Gli Orsi Non Esistono (Jafar Panahi)
Oren Ambarchi - Shebang
Un Anno, Una Notte (Isaki Lakuesta)
Sault - Untitled (God) + 11 + AIIR + Earth + Today & Tomorrow 
Mary Halvorsen - Amaryllis/Belladonna
Donal Barthelme - Racconti (minimum fax)
Gianluca Petrella - Cosmic Renaissance
Pinocchio (Guillermo Del Toro)
Silvia Tarozzi & Deborah Walker - Canti di guerra, di lavoro e d'amore
The Banshees of Inisherin (Martin McDonagh)
Saint Omer (Alice Diop)
Aftersun (Charlotte Wells)
The Fabelmans (Steven Spielberg)

(of the) Pops
Paolo Virno - Negli anni del nostro scontento (Derive E Approdi)
C'Mon Tigre - Scenario
Top Gun: Maverick (Joseph Kosinski)
Rosalia - Motomami
Elvis (Baz Luhrmann)
Agustin F. Mallo - Trilogia della Guerra (Utopia)
Beyoncé - Renaissance
Mayor Of Kingstown (Taylor Sheridan - Paramount+ - st.1)
La Bella Stagione (Marco Ponti)
Mercoledi (Tim Burton - Nextflix)

martedì 20 dicembre 2022

Aftersun di Charlotte Wells (2022)


Aftersun sembra quasi un’espansione low-fi dell’universo serial/letterario di Normal People. Non c’entra solo il ruolo da protagonista di Paul Mescal, quanto il fatto che il suo personaggio pare espandere una tragicità già centrale nella serie tratta da Sally Rooney.

Qui il protagonista è Callum, un trentenne padre quasi per caso di una bambina, Sophie, avuta undici anni prima, da una donna da cui ormai è separato. Callum è inquieto, si crede un fallito nella vita, forse soffre di depressione, vive con paura la sua omosessualità latente ed in cuor suo è convinto che non arriverà a quarant’anni. Prova però a essere un buon padre per Sophie, a tal punto che la porta con lui in vacanza in Turchia, sforzandosi di nascondere le sue tensioni e di regalare alla bambina un momento di leggerezza. Ma questo ormai è il passato, custodito da nastri DV con cui Sophie e suo padre hanno raccontato quella vacanza e che la bambina, ormai adulta, trent’anni dopo, guarda senza darsi pace. Perché suo padre non c’è più, forse si è ucciso davvero, quella vacanza all’inizio degli anni ’90 è stato l’ultimo momento che ha condiviso con lui e ora la donna, matura, vuole capire chi fosse davvero quell’uomo.

Aftersun è un grande film di continue dissimulazioni che riflette sul peso traumatico della verità e che, anche per questo, si diverte a truccare costantemente le carte, a nascondere la sua vera natura, i suoi percorsi, come se fossero troppo complessi da gestire. Il film di Charlotte Wells si presenta dunque come un racconto di formazione a due voci dall’afflato generazionale, tutto pensato in sottrazione, retto dall’evidente chimica tra Paul Mescal (sempre centratissimo, straordinariamente fisico, teso tra la gestualità esplosiva e parentesi di grande introspezione) e la piccola rivelazione Frankie Corio, ma Aftersun è soprattutto una lucida e sistematica riflessione sull’opacità dell’immagine cinematografica.

Perché quando quegli allegri video vengono completati dai ricordi di Sophie, ci si rende conto che Callum è sé stesso solo nel fuori campo: piange disperato quando Sophie non c’è, si perde nei pensieri quando la piccola dorme, si getta in mare di notte, quando nessuno vede. È probabilmente un atteggiamento troppo semplicistico, manicheo a tratti, eppure colpisce la lucidità con cui Charlotte Wells torna, coerentemente, ad una concezione “analogica” del rapporto tra verità e immagine: è vero solo ciò che si può vedere con gli occhi, ciò che si può testimoniare. Forse anche per questo il racconto è dominato da una forsennata pulsione scopica. Tutti guardano ciò che li circonda, da lontano oltre le serrature o le fessure e non è un caso, tra l’altro, se Sophie scopre l’omosessualità del padre guardandolo, non vista, baciare un altro uomo.

Ma forse è troppo tardi, forse la verità si può solo sfiorare. Anche le immagini “riattraversate” da Sophie sono intrinsecamente false perché distorte dal ricordo e non possono evitare di caricarsi del trauma di Paul, non possono che ragionare della loro ambiguità. Charlotte Wells, però non fa un passo indietro e le asseconda in tutta la loro complessità.

Chiude dunque i due protagonisti in inquadrature strette, li isola come per proteggerli ma è un gesto che non può evitare un sentore di minaccia, come se in quei piani stretti bloccasse anche Callum, prigioniero di un modello genitoriale che non sente suo. Ovvio allora che i momenti migliori sono quelli in cui l’uomo si offre allo spettatore in tutta la sua imperfezione, costantemente indeciso se trattare Sophie come una sorella o come una figlia, insicuro, ma soprattutto incoerente.

Aftersun è un film abissale, l’esordio di una regista straordinariamente consapevole delle spigolosità dello spazio in cui sta operando e pronta a raccontarlo senza filtri, esorbitando addirittura in un finale tanto “impossibile” quanto cinico che mostra, implacabile, tutta la caducità del fotogramma, quasi a rimarcare quanto la verità stia racchiusa in immagini mute e a non rimane che un ricordo condannato a sfiorire.

pubblicato su sentieriselvaggi. it il 15/10/22 di A. Baronci

giovedì 10 novembre 2022

Un anno, una notte di Isaki Lacuesta (2022)

 

Ha molto del cinema Nouvelle Vague e post questo gran bel film sugli effetti traumatici dell’attentato al Bataclan. L’intesa tra Noémie Merlant e Nahuel Pérez Biscayart ha qualcosa di miracoloso.

La fine, il nuovo inizio e ancora la fine di una storia. A volte l’intesa tra due attori fa miracoli. È il caso di Noémie Merlant e Nahuel Pérez Biscayart. Lei è stata la protagonista di Ritratto della giovane in fiamme ma ha confermato il suo talento anche con Jacques Audiard (Parigi, 13 Arr.) e ha tenuto testa alla grande a Cate Blanchett in Tàr. Lui invece ha lasciato il segno con l’incredibile vitalità sprigionata nel ruolo di Sean in 120 battiti al minuto. Il film è tutto nei loro cenni d’intesa, distacchi, riavvicinamenti, disagi. All’inizio di Un anno, una notte c’è il dettaglio sulle palpebre e i piedi. Alla fine due corpi. Potrebbe essere un flash che arriva da Alain Resnais o Marguerite Duras. Oppure quello del tempo infinito della ricerca della felicità di La maman et la putain di Jean Eustache. Ha molto del cinema Nouvelle Vague e post questo gran bel film girato dal cineasta spagnolo Isaki Lacuesta. Perché prima della storia, sono i sentimenti dei personaggi che parlano. Non c’è voce-off ma è come se i rispettivi monologhi interiori s’incrociassero in continuazione.

C’è un prima e un dopo nella relazione tra Céline e Ramón. C’è una notte cha cambia tutto, quella dell’attentato al Bataclan di Parigi il 13 novembre 2015. Quella sera entrambi erano lì assieme ai loro amici Carlos e Lucie. Céline cerca di reagire subito e di lasciarsi quel tragico evento alle spalle continuando a lavorare come assistente sociale. Ramón invece non ce la fa. Fa fatica ad uscire di casa, non riesce più ad andare al lavoro che poi cambia e cerca aiuto nella terapia. La loro storia è a un bivio. Riuranno a ritrovare un equilibrio nella loro vita e tornare alla normalità?

Ci sono due scene centrali in Un anno, una notte. La prima è quella in cui i due protagonisti sono assieme ai loro amici Carlos e Lucie. Ramón vorrebbe provare a parlare di quello che è accaduto quella notte. Céline invece cerca di cambiare argomento. L’altra è quella della litigata dopo una serata passata con gli amici spagnoli di lui. Li entrambi vivono tutta la difficoltà di parlare sulla loro pelle. Perché è su questo che si sofferma il film: l’incapacità di trovare le parole per raccontare quello che è successo. Questo elemento, già alla base del romanzo Paz, amor y death metal di Ramón González dove i due personaggi principali hanno gli stessi nomi di quelli reali, nel film si amplifica ancora di più. Ci sono flash che possono essere soggettivi. I ricordi di quella sera. L’appuntamento, il ritardo di lui e la corsa con lo scooter, l’allegria, le voci confuse nel locale, la musica e poi di colpo gli spari. A volte sono nitidi, altre invece più confusi. Proprio il controcampo passato/presente ripercorre una vicenda che può lasciare anche una doppia interpretazione sull’epilogo.

La regia di Isaki Lacuesta, che già aveva mostrato come i traumi del passato condizionano inevitabilmente il presente come nei ricordi dei due fratelli che avevano assistito alla morte violenta del padre in Entres dos aguas e dell’adolescente ritrovato in un centro d’accoglienza che non ricorda niente della sua infanzia in La prossima pelle, è viscerale, non trattenuta e non si ferma neanche davanti a qualche piccolo sbandamento come il pianto di Ramón davanti alla psicologa. Sa essere attaccato alla pelle dei suoi personaggi. Un po’ Audiard, un po’ Almodóvar. Ma anche senza nessuno dei due. Quando si allontana dalla narrazione a lascia deambulare da soli i due protagonisti, sono vertigini: l’attacco di panico di Ramón al museo, Céline che torna a ballare (da sola) tra paura e l’istinto a (ri)perdere finalmente il controllo. A quel punto tutto va in secondo piano: la rabbia per il discorso del Presidente Hollande, quella di non sentirsi francesi anche se si è in Francia, l’ossessione di riavvolgere il nastro per tornare a quella notte. E tutta l’energia devastante di Un anno, una notte non è tanto nella ricostruzione, ma proprio nella capacità di rivivere la serata al Bataclan attraverso gli occhi di chi c’era. Le mantelle fluorescenti all’inizio mostrano tutta l’incredulità di come tutto possa cambiare da un momento all’altro. E le strade, le persone, la stessa Parigi, sono cambiati per sempre.

Pubblicato il 10 Novembre 2022 su sentieriselvaggi.it di Simone Emiliani

martedì 25 ottobre 2022

Oren Ambarchi - Shebang

 

The most difficult music sometimes makes it look easy, almost as if nothing’s happening at all. Glenn Branca’s electric guitar symphonies aren’t that hard to play. Chopin’s Nocturnes might seem deceptively simple, given their fragile beauty. Terry Riley’s In C is literally one note. Peeking beneath the hood of any of the above reveals each to require titanic powers of concentration, focus, and an almost psychic connection with the instrument.

If you’re not paying attention, you might be tempted to think there’s not much happening with Shebang, the newest from Australian avant guitarist/composer/experimenter par excellence Oren Ambarchi. It’s the third in a triptych of albums focusing on rhythm, following 2014’s Quixotism and 2016’s Hubris. Shebang picks up where Hubris‘ rhythmic pulse left off, with stuttering pointillist percussive guitar from Ambarchi creating a scaffolding over which an all-star cast of international improvisers weave an impressively random array of sounds and exquisite improvisation.

Like Hubris, Shebang is structured as four “movements,” or maybe sections would be more apt, as there’s not a whole lot moving here. Or, rather, everything’s moving, constantly, as crystalline guitar harmonics are joined by odd underpinnings of bass, triggered by Ambarchi’s guitar, and what sounds like a synth, giving the proceedings the air of an arthouse ’80s psychological drama, To Live and Die in L.A. by way of Steve Reich. Before long, the atonal stringed instruments are joined by the driving, propulsive groove of Joe Talia’s high hat, at which point the band seem to seamlessly shift into an excellent fusion band, as if Teo Macero were remixing Goblin for Miles Davis’ Bitches Brew. The scene shifts, yet again, with the introduction of a pedal steel slide guitar, courtesy of BJ Cole of “Tiny Dancer” fame, of all things. The atmospheric pedal steel, entirely out of the blue and seemingly out of thin air, perhaps inevitably brings to mind Brian Eno’s Apollo: Atmospheres and Soundtracks, at which point the whole affair takes on an “out of this world” quality for a moment.

What is most impressive of all of this is the fact that this all-star group of stellar improvisers were never in the same physical space while making Shebang. This level of detailed, concentrated, focused playing is always deserving of accolades, even if it’s not the flashiest thing in the world. The fact that this level of precision can be achieved across continents is vaguely mind-blowing.

Listening to Shebang, it’s clear there’s some sort of guiding principle at play but it’s not immediately obvious what it is. Slinky guitar arpeggios, sounding more like something from a gamelan orchestra or African marimba ensemble, seem to set off corresponding bass runs – exactly how is anybody’s guess. It gives the feeling of some larger pattern at work, of staring at a time-lapse video of spreading chemical reactions, unthinkably complex and impossible to comprehend. Yet there is a method to the madness; there is a pattern to the chaos. That idea brings a bit of peace.

Anyone looking for big, grand gestures in Shebang is likely to be slightly frustrated, though. This is music for prolonged concentration, demanding focus and attention to truly appreciate its craftsmanship. For those willing to brave the 40-minute runtime of experimental instrumental improv, though, it’s a hypnotic, meditative journey that’s well worth taking.

Pubblicato su spectrumculture.com 2022/10/11 By J Simpson


Il flusso è un concetto importante nello stile di Oren Ambarchi, un elemento che ha trovato un primo pieno compimento nell’ottimo Saggittarian Domain (2012) per riemergere di tanto in tanto in alcuni lavori lunghi. Tra questi, il nuovo Sheband, terzo capitolo di una trilogia dedicata allo studio ritmico che comprende anche gli album Quixotism (2014) e Hubris (2016). Se in quest’ultimo il Nostro cavalcava in solitaria linee techno dal sapore krauto, nel precedente chiamava a raccolta una schiera di amici e collaboratori (Thomas Brinkmann, Matt Chamberlain, Crys Cole, Eyvind Kang, Jim O’ Rourke, John Tilbury, U-zhaanper, Ilan Volkov & the Icelandic Symphony Orchestra) viaggiando con millimetrica precisione all’interno di teorie contemporanee.

Un folto gruppo di compagni d’avventura torna ad animare anche la nuova fatica, opera in quattro atti dall’incedere avant jazz distesa su un unico tempo che ne mantiene salda la pervicace consequenzialità: un movimento costante e intelligentemente sostenuto da cambiamenti di intensità e variazioni grandangolari a oliarne lo scorrimento. A dare l’avvio, la sei corde di Ambarchi, che stratifica una fitta ragnatela di note cristalline e armonici componendo un denso quadro di armonie nevrotiche. Una sommatoria che si sviluppa con tutto il tempo necessario fino all’ingresso del batterista australiano Joe Talia a disegnarne lo scheletro ritmico con sincopi jazzate.

La seconda parte regola morbide implosioni funk fusion esaltate dalla steel guitar di B.J. Cole e con Sam Dunscombe a incresparle di dissonanze di clarinetto basso, mentre leggeri impulsi elettronici dirigono il suono dentro teorie circolari à la Necks. Più di un’evocazione, visto che nella terza parte è proprio Chris Abrahams dell’avant trio australiano a incentivare l’ipnosi con i suoi austeri ed eleganti fraseggi di pianoforte; Johan Berthling (già con il Nostro nel recente Ghosted) sostiene con bassi dub, e i tagli di synth di O’Rourke si ergono sotto la linea dell’orizzonte. L’ultima parte accoglie la 12 corde di Julia Reidy a scarnificare il suono con puntellature squillanti, l’umore essiccato gradatamente riprende il passo spingendo la stasi al suo apice. La tensione declina rapidamente in dispersioni sintetiche, ciò che doveva esser detto è stato detto e con classe.

Pubblicato su sentireascoltare.com di Massimo Onza,  23/10/22


THE FABELMANS (2022) di Steven Spielberg

 


Samuel Fabelman è il primogenito di Burt e Mitzi, nonché fratello maggiore di Reggie, Natalie, e Lisa. Quando ha sei anni i genitori lo portano al cinema per la prima volta, e lo spettacolo di un incidente ferroviario gli si installa nella mente, terrorizzandolo. Come riprodurre quella paura, per far sì che cessi? In soccorso arriva la cinepresa amatoriale di famiglia… 

“Where’s the horizon?”, chiede con fare burbero e ben poco condiscendente John Ford a un ragazzo che gli si pianta davanti nel suo ufficio. Perché l’orizzonte non è solo un punto, ma è una prospettiva, il senso di un perché cinematografico, e dunque di un perché della e nella vita. Ma su questo punto occorrerà tornare più tardi. Tutti conoscono il termine imprinting, anche se in pochi probabilmente sanno che il suo utilizzo derivò solo dalla necessità di tradurre in inglese i testi originali dell’etologo Konrad Lorenz, che parlava di Prägung: praticamente tutti i vertebrati presentano all’inizio della loro esistenza delle forme di imprinting, vale a dire l’apprendimento per esposizione, la capacità di un neonato di emulare il comportamento di un adulto in modo da comprendere istintivamente l’incombere di un pericolo. Quando Lorenz dà alle stampe il suo volume fondamentale, vale a dire L’anello di re Salomone (Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen, letteralmente “Parlò al bestiame, agli uccelli, e ai pesci”) è il 1949 e il cinematografo ha da poco festeggiato il mezzo secolo di vita. L’intero Novecento, infatti, ha sviluppato il suo imprinting nei confronti del cinema, perché la settima arte è l’arte per eccellenza del Ventesimo secolo. E quell’imprinting passa per le rotaie di un treno: è un treno quello che arriva alla stazione di La Ciotat nel 1895, a quanto si dice terrorizzando gli spettatori alla prima proiezione pubblica – restando in tema fordiano si sa che tra realtà e leggenda è quest’ultima a prevalere –, ed è un treno anche quello attorno al quale ruota The Great Train Robbery di Edwin S. Porter, che nel 1903 diventa il primo western iconograficamente compiuto e quindi di fatto il progenitore dell’intera industria hollywoodiana. Anche lo stupore negli occhi del seienne Sam Fabelman di fronte alla sua prima sortita in una sala cinematografica passa per le rotaie di un treno: è lì che si raggiunge l’acme ne Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, con lo scontro terrificante tra due convogli. Eccolo l’imprinting di Samuel Fabelman, un incidente ferroviario che tutto distrugge, e che appare credibile, vero al di là di qualsiasi finzione.

È notorio come il film di DeMille abbia segnato in profondità il piccolo Steven Spielberg che in seguito a quella visione iniziò a girare filmini amatoriali in casa, utilizzando la cinepresa super-8 di famiglia, ed è quindi inevitabile per lo spettatore che si avvicina a The Fabelmans vedere nel piccolo Sammy un alter ego del regista. Dopotutto gli elementi della trama che collimano con la biografia di Spielberg non sono pochi: la famiglia ebraica di origine russo-ucraina (cantano davanti al fuoco, durante un campeggio, Kalinka di Ivan Petrovič Larionov) composta oltre che dai genitori e da Sam anche da tre sorelle minori; il lavoro del padre, ingegnere elettronico, e della madre, pianista che ha abbandonato la carriera musicale per la famiglia; lo spostamento di città in città per seguire la professione paterna, che dal New Jersey porterà i Fabelman in Arizona e quindi in California; il bullismo subito al liceo, in gran parte causato dall’antisemitismo, che il regista ha raccontato in varie interviste, perfino in Italia al Corriere della Sera in occasione della proiezione veneziana di The Terminal nel 2004 («Avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano “sporco ebreo”»). È evidente che The Fabelman racchiuda al proprio interno molti elementi autobiografici, e non è certo un caso che il regista torni a firmare una sceneggiatura – a cui ha lavorato con Tony Kushner: è la quarta collaborazione tra i due dopo Munich, Lincoln, e West Side Story – a oltre venti anni di distanza da A.I. – Intelligenza Artificiale e addirittura quarantacinque anni dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Dopotutto se si esclude il côté fantascientifico degli altri due film tutti e tre condividono una riflessione amara sulla famiglia, sull’inevitabile disgregarsi degli affetti, e sull’imprinting, l’ossessione che guida i protagonisti. L’imprinting di Richard Dreyfuss è l’immagine della Torre del Diavolo in Wyoming; quello di Haley Joel Osment è la madre, la prima cosa che ha visto aprendo gli occhi; quello, infine, di Sam Fabelman è il cinema. 

Ma sarebbe riduttivo, oltre che poco “preciso”, considerare The Fabelman un film cinefilo. Non lo è, nonostante inizi in una sala cinematografica e poi si sviluppi anche attraverso il cinema – si pensi alla sequenza di L’uomo che uccise Liberty Valance. E non è neanche un film sulla cinefilia, e sul perché un ragazzino della classe media del New Jersey dovrebbe decidere di diventare regista: il giovane Sam non ha nulla a che spartire con Dawson Leery, tra i protagonisti del serial Dawson’s Creek quello che voleva diventare a tutti i costi regista e da amante indefesso di Spielberg passava le ore nella sua cameretta a passare al setaccio i suoi film per scoprire le gemme preziose più nascoste. No, Sam ama il cinema, ma quello di Spielberg non è il romanzo di formazione di un giovane cinefilo. Non è neanche importante capire se da grande diventerà davvero un regista questo gracile ebreo che partecipa alla vita degli scout e vorrebbe le luminarie di Natale a dare calore alla casa invece della singola candela che ogni giorno viene accesa per festeggiare Hannukkah. Ancora sconvolto dalla visione de Il più grande spettacolo del mondo, che lo ha profondamente turbato, Sam chiede per regalo per le festività un trenino elettrico, che il padre ingegnere è ben felice di acquistare. Il trenino si muove sulla rotaia in modo perfetto, eppure non basta a Sam. In realtà non è ciò che voleva. Poi d’improvviso comprende: lui non voleva il trenino, ma la possibilità di replicare quell’incidente trionfale e catastrofico mille volte, e dunque crea un incidente e lo riprende in super-8. Solo attraverso l’immagine in movimento – motion picture, come gli spiega il padre prima di entrare per esordire alla visione sul grande schermo – si può esorcizzare la propria paura più profonda, solo ricorrendo al cinema si può davvero tentare un’analisi di sé, e del mondo circostante. Questa esperienza sarà il vero leit motiv di The Fabelmans, insieme alla crisi coniugale tra i genitori (eccellenti Paul Dano e Michelle Williams, come del resto tutto il cast a partire dal diciannovenne Gabriel LaBelle che interpreta Sam). Anzi, sarà proprio attraverso lo studio di una pellicola in moviola che il ragazzo si renderà conto che non tutto fila liscio tra i genitori.

È quella appena citata una delle tre sequenze chiave che Spielberg costruisce per far comprendere appieno il senso che lui stesso in primis dà al cinema, e al concetto di crescita. Dopo il succitato campeggio e l’improvvisa morte della nonna, la madre di sua madre, Sam viene spinto dal padre a montare le riprese fatte tra la tenda e il falò in modo da alleggerire lo stato d’animo della moglie: mentre si trova in moviola, però, rivedendo tutto il materiale girato, Sam comprende che c’è un non detto che si agita all’interno della sua famiglia, e del quale lui non si era mai reso conto. Tale disvelamento, che è negli occhi di Sam come in quelli dello spettatore, avviene mentre la madre sta suonando Bach al pianoforte, e il padre la ascolta assorto, quasi rapito. Non c’è nessun dialogo, non c’è bisogno di nessuna parola per articolare un concetto: basta l’immagine, e il suo peso (im)materiale. D’altro canto era stato pochi giorni prima il prozio Boris, fratello della nonna defunta (che aveva lavorato nell’industria cinematografica all’epoca del muto, in particolar modo sul set de La capanna dello zio Tom per la regia di Harry A. Pollard) a pregarlo di smetterla di parlare per raccontargli lo storyboard che aveva approntato, visto che bastano le immagini. Oltre a questa e a quella già descritta del trenino ripreso per riprodurre l’incidente visto nel film di DeMille, c’è una terza sequenza particolarmente significativa. È il ballo di fine anno nel liceo che frequenta nel nord della California, e Sam vi si reca con la sua fidanzatina Monica – una invasata cristiana, che ha disseminato la sua camera con poster raffiguranti Gesù –, anche perché verrà mostrato all’intera scuola il filmino in 16mm che ha diretto durante una gita collettiva al mare. Il breve film è un grande successo, ma scatena la crisi di Logan, uno dei bulli che nel corso dell’anno ha perseguitato Sam insultandolo per via delle sue origini: nonostante questi screzi, infatti, Sam nel suo film lo ha descritto per le sue doti migliori, quelle atletiche. Esiste dunque una distanza quando ci si pone dietro la macchina da presa, e Sam l’ha imparata suo malgrado, in modo quasi istintivo, quello stesso istinto che all’epoca del filmino The Last Gun – diretto a tredici anni: questo, come anche il corto di guerra Escape to Nowhere diretto a quindici anni sono altri due riferimenti diretti alla vera biografia di Spielberg – gli fece bucare con uno spillo la pellicola per fingere il colpo sparato dalla pistola. Dunque il cinema non è un sollazzo, un modo per giocare con i film degli altri, ma un vero e proprio addestramento alla vita, il modo per una persona timida di comprendere meglio se stesso, e gli altri.

“Were’s the Horizon?”, si torna al quesito di John Ford, che com’è noto da mesi Spielberg affida alle cure di un suo coetaneo collega, David Lynch. “When the horizon is at the top, it’s interesting,”, continua Ford, “when it’s on the bottom, it’s interesting. When it’s in the middle, it’s fucking boring!”; sta dunque a Sam comprendere dove si trovi la linea dell’orizzonte, e in che modo può essere giusto riprenderla, osservarla, mostrarla agli altri. In qualche misura The Fabelmans è il racconto di questo, del tentativo di guardare senza paura l’orizzonte e accettarlo, affrontarlo, superando la wilderness dell’esistenza. Spielberg, che non disdegna qualche piccolo omaggio affettuoso agli amici di sempre – il ballo di fine anno rimanda inevitabilmente sia ad American Graffiti di George Lucas che a Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, tanto per fare un esempio –, affronta la magnifica, dolorosa, e in realtà normalissima adolescenza del suo alter ego con uno sguardo sempre partecipe, mai retorico neanche nei momenti apparentemente più didascalici (lo dimostra la crisi personale che la madre pensa di risolvere portando in casa una scimmietta, un cebo cappuccino come quello messo in scena appena cinque anni fa da Lynch nel surreale cortometraggio What Did Jack Do?), e intriso di una melanconica dolcezza struggente. La dolcezza che si respirava anche nella rivisitazione del musical già portato in scena al cinema da Robert Wise e Jerome Robbins, e che altro non è se non la constatazione della fine dei tempi, della morte di quel cinema e di quel mondo (il mondo in cui è vissuto lui, che è anche quello di Lynch e conteneva ancora i tempi di Ford, e magari perfino del muto), e del dissolversi perfino delle memorie. Questa melanconia viene smussata da un’ironia feroce, contagiosa, che trova anche battute spiazzanti (quando una compagna di scuola gli chieda come faccia a vivere senza Gesù nel cuore Sam risponde “Ci riusciamo da oltre cinquemila anni, si vede che si può fare”) e che rende The Fabelmans la prima commedia spielbergiana dai tempi di The Terminal, diciotto anni fa. Ma forse più di ogni altra cosa The Fabelmans è lo studio, la rappresentazione, e la testimonianza più fertile di un dettaglio che ha sempre reso unico l’approccio alla regia di Spielberg, fin dai primissimi film, vale a dire la capacità di rendere il senso di meraviglia dei suoi protagonisti. Non c’è bisogno di alcun controcampo quando l’effetto di ciò che è fuori scena lo si può leggere senza errori o indugi già sul volto del personaggio che sta assistendo a quel che accade. L’apparizione di E.T. è già negli occhi di Elliot, così come i diplodochi si vedono già nello sguardo di Ellie Sattler. Non è importante quel che sta davvero proiettando il fascio di luce se si può scoprire quella verità già con il primo piano di Michelle Williams; The Fabelmans ne è letteralmente disseminato, quasi si trattasse di una rivendicazione poetica in piena regola. Gli uomini giganti sul grande schermo sono lì a fare quello che il montaggio ha deciso facciano, ma Spielberg si concentra sul primissimo piano di Sam a sei anni, sprofondato nella poltroncina tra mamma e papà, gli affetti che però non sono l’imprinting, non sono la crescita, non sono l’evoluzione. Un film sincero, tragico, struggente, spietato, che lascia a bocca aperta: potere del senso di meraviglia.

Pubblicato su quinlan.it il 10/20/2022 di Raffaele Meale

 

 

Prima delle biciclette di E.T. ci sono stati i carrelli della spesa che si muovevano in mezzo la strada sotto il tornado in The Fabelmans. Perché si, in qualunque momento ci si può alzare da terra e volare. Proprio come uno dei ragazzi che ha bullizzato Sammy nella scuola della California ma nel film che il protagonista ha fatto per il Ditch Day del 1964, lo ha reso una specie di angelo. Il cinema può cambiare sempre le cose. Può essere una cinepresa amatoriale o un Arriflex 16 mm. Non importa. The Fabelmans sottolinea che è sempre un fotogramma che fa la differenza. Proprio come uno rivelatore della sua famiglia che farà saltare tutti gli equilibri. Da una sola immagine possono partire tante storie che non sono state mai viste, oppure erano nascoste. “Dov’è l’orizzonte?”. Per Sammy ci sarà proprio un incontro fondamentale che diventerà decisivo nella costruzione dell’immagine cinematografica come regista. Bisogna sempre guardare dov’è l’orizzonte. “Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è interessante. Quando è al centro, è una palla mortale”.

Si potrebbe riavvolgere tutto The Fabelmans all’indietro. Anzi, ripercorrere la filmografia di Spielberg da oggi agli inizi per cercare dove sta l’orizzonte. Scritto da Spielberg con Tony Kushner, il film ha come protagonista Sammy e la sua famiglia di cui fanno parte il padre Burt (Paul Dano), la madre Mitzi (Michelle Williams), le sorelle. Con loro c’è poi sempre lo zio Bennie (Seth Rogen), migliore amico del padre che è ormai diventato uno di famiglia. I Fabelmans si trasferiscono dal New Jersey prima in Arizona e poi in California, dopo che Burt ha avuto una promozione sul lavoro. In un’atmosfera apparentemente serena c’è proprio quel dettaglio rubato dalla cinepresa di Sammy, che all’epoca aveva circa 16 anni, che fa saltare tutti gli equilibri.

In The Fabelmans c’è tutta la magia, la paura e la spietatezza del cinema. La cinepresa cattura dettagli che l’occhio umano non vede. Inoltre non è il solo, appassionante, viaggio nostalgico: i film della vita, i registi fondamentali per la formazione. O almeno non solo. Certo, ci sono due passaggi fondamentali: Il più grande spettacolo del mondo (1952) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Cecil B. De Mille e John Ford. Sono questi i modelli da imitare nella testa di Sammy. Del primo rimarrà impresso lo scontro tra l’auto dei delinquenti e il treno del circo che per il protagonista diventerà un’ossessione e cercherà di rifarlo più volte prima con i modellini del trenino e poi ripreso da una piccola cinepresa su consiglio della madre. Il secondo rappresenta l’ipnosi. Sammy è in sala con i suoi amici che fanno casino. Lui si sposta in avanti e, in seguito ricrea un set per rifare, anche lui, un western.

Il film della sua famiglia è il (suo) film della vita. È coming of age, commedia familiare, melodramma, viaggio nel mondo dei sogni. Il set si può accendere in ogni momento: i fari della macchina che illuminano Mitzi che balla con un vestito trasparente. Bisognerebbe rivedere questa immagine davanti, per esempio, ad Always. Per sempre. Perché fa capire come c’è qualcosa che va oltre la sceneggiatura di ferro, l’inquadratura perfetta, un cast da urlo. Non è qualcosa che si può spiegare razionalmente. Certo, è l’istinto ma non basta. È qualcosa di soprannaturale, di divino. Il cinema di Spielberg vola anche quando resta a terra. Succede anche nelle scene più comiche con i dialoghi su Gesù con la ragazza che è stata la prima cotta per Sammy. La scena nella camera da letto di lei e del ballo scolastico, in pochissimo tempo, già raccontano un solo, intero, film.

L’autobiografia non è fatto soltanto di episodi. Dentro The Fabelmans ci sono tanti Effetto notte: il film di guerra Escape to Nowhere girato da Sammy dove c’è il soldato che piange mentre tutti i suoi uomini sono a terra; l’intuizione della pellicola perforata con le puntine ispirato al foglio dello spartito musicale bucato dal tacco della madre. Ci sono tanti buchi, fessure, da dove si può guardare tutto. A 76 anni lo stupore e la meraviglia di Spielberg  sono ancora intatti. Sono sempre quelli del suo miglior cinema. Ma The Fabelmans va oltre. Diventa una confessione struggente vista non solo attraverso gli occhi di Sammy, ma con quelli di Sammy e la sua cinepresa. E Spielberg ritrova se stesso adolescente attraverso il volto e l’incredibile performance di Gabriel LaBelle. Cambia tutto. È anche una lezione di cinema assoluta. Finalmente non c’è più bisogno di tirare in ballo 8 1/2 quando si parla di un film sul cinema. Negli anni Dieci film ha fatto film fondamentali: Lincoln, The Post, West Side Story. The Fabelmans è quello che li raccoglie tutti, anche i precedenti. C’è l’immaginario backstage. C’è il senso del ritmo. C’è la ricerca della dimensione spettacolare e quella invece più privata e intima. Si può vedere anche soltanto in un’inquadratura. Gli occhi spaventati di Sammy mentre guarda al cinema lo scontro tra il treno e la macchina. Si, il cinema  è “il più grande spettacolo del mondo”. Sono pochissimi i film della storia del cinema che finiscono troppo presto anche se durano 151 minuti. The Fabelmans è uno di questi.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 20/10/22 di Simone Emiliani

 

 

The Fabelmans è l’ultima creatura cinematografica di Steven Spielberg, un nome gigantesco che, ancora una volta, con questo film, ha saputo brillare e stupire, aprendosi al pubblico nel modo più sincero ed intimo possibile. La pellicola è stata inizialmente proiettata al Toronto International Film Festival, dove ha conquistato il People’s Choice Award, ed è stata presentata in anteprima nazionale alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma in collaborazione con Alice nella Città. Il titolo sarà nelle sale italiane dal 22 dicembre 2022 grazie a 01Distribution.

The Fabelmans ha una dote davvero rara, che ultimamente non è per nulla semplice rintracciare nelle varie opere che affollano il grande e piccolo schermo: la profonda empatia. Dal primo momento in cui vediamo Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle da ragazzo), la sua storia diventa automaticamente la nostra, perché il cinema, per quanto possa essere una passione per moltissimi, un’ossessione per alcuni, un lavoro per visionari e sognatori, ha incrociato la strada di tutti, nel bene e nel male. Vedere la propria esperienza di vita riflessa in uno specchio può provocare turbamento, forti emozioni, ma parla con chiarezza alla nostra interiorità e ci fa innamorare ancora una volta del Cinema.

The Fabelmans ha un obiettivo ben preciso e puntuale, che viene perseguito per l’intera durata del lungometraggio: raccontare una passione, ovviamente nel caso di Spielberg è l’arte di fare film, ma il suo discorso è talmente tanto complesso e ricco di sfumature da potersi applicare più generalmente alle nostre ambizioni e desideri più ardenti. L’approccio del giovane protagonista al Cinema è una lezione di vita profonda, priva di ogni orpello motivazionale o di una retorica spicciola, il suo ardore e la sua insana ostinazione diventano quello degli spettatori. Da quella prima volta in sala, nel 1952, a vedere Il più grande spettacolo del mondo, all’inizio della sua carriera nella parte conclusiva della pellicola, il cineasta riesce a non mollare mai la presa sul pubblico.

Ci riesce non solo perché la storia che racconta è ovviamente sincera e vera, perché è effettivamente la sua anche se nascosta da degli pseudonimi, ma anche perché descrive la sua passione con tutte le sfumature possibili ed il miracolo si verifica quando arriva a condensare, in circa 2 ore 30 di girato, tutti i successi e le sconfitte, la gloria e il trionfo, i fallimenti e gli ostacoli del suo viaggio emotivo e artistico che poi convoglia nel suo lavoro da regista. “Il cinema è solo un hobby”, è “un’arte che ti spezza in due”, è un mondo salvifico, ma anche pericoloso: tutte parole che non ci risultano nuove, specialmente se almeno una volta nella vita abbiamo trovato qualcosa che ci smuove l’animo da dentro.

Per raggiungere questa particolare connessione con gli spettatori, in The Fabelmans la regia di Spielberg è in continua trasformazione ed evoluzione: rappresentativo in tal senso è il cammino registico che fa proprio Sammy, che viene mostrato dall’inizio alla fine dal suo punto di vista, cominciando con una semplice scena dove un treno si schianta contro una macchina, arrivando poi a sequenze più complesse e ricche di comparse, soluzioni ardite, inquadrature inaspettate. Il nostro sguardo, di conseguenza, guarda avanti e dietro la cinepresa, osserva il risultato finale, ma anche la preparazione che c’è dietro. Non c’è probabilmente modo migliore per incarnare il vero significato del Cinema, perché si unisce emozione, tecnica, artigianalità e rigore.

Ed è lì che avviene lo stupore e la magia, proprio nel momento in cui, parallelamente, il film-maker ci parla da un lato della sua inesauribile forza d’animo che ripone nella sua arte preferita nonostante i continui conflitti interni ed esterni che coinvolgono in particolare la sua famiglia; dall’altro, con la macchina da presa, ci pone davanti alla sua visione e ci fa crescere con lui, ci ispira, seduce, ma anche allontana. Ma incredibilmente, il film riesce a non essere solo questo, perché la regia non solo riproduce una passione in maniera millimetrica ed emotiva, ma sceglie anche di rappresentare il Cinema dall’altra parte della barricata, dalla prospettiva degli spettatori.

In The Fabelmans, infatti, l’occhio di Spielberg si concentra profondamente sulle risposte emotive dei vari personaggi alle opere di Sammy ed è curioso notare come ognuna di loro è diversa, proprio come sono differenti le opinioni di ognuno di noi di fronte ad un particolare film, nessuna è replicabile ed è questo uno degli elementi più affascinanti della settima arte. Se uniamo quindi la sua esperienza sul campo alle reazioni effettive degli altri, arriviamo diretti ad un’universalità che riesce a ricoprire a tutto tondo l’esperienza cinematografica.

Questa avventura totalizzante è resa ancora più evidente da un copione, redatto dallo stesso regista in compagnia di Tony Kushner, che racchiude, probabilmente, tutte le variabili emotive dell’essere umano senza però rinunciare ad una divisione a tappe chirurgica e perfetta, quasi rappresentando l’esigenza di un controllo nel processo artistico. In essa confluiscono il dramma familiare che tra l’altro ha un ruolo fondante all’interno della trama ad una comicità genuina e spontanea. Il tutto tenuto legato da un esistenzialismo brillante, che emerge in alcuni passaggi narrativi chiave del film, tra i quali spicca, in particolare, l’incontro con John Ford, un momento catartico che riesce a racchiudere in pochi minuti l’intero significato della realizzazione.

Parlando degli interpreti del film, si avverte una familiarità impressionante (dimostrando una ricerca notevole da parte del casting), seguita poi da una certezza: il talento smisurato per ogni singolo attore coinvolto all’interno del progetto. Inevitabilmente, però, c’è sempre chi ruba la scena e in questo caso non abbiamo dubbi nel definire Michelle Williams il vero astro splendente, una figura cardine per la vita del protagonista che è stata riportata alla luce con sentimento e delicatezza. Non possiamo inoltre dimenticarci di quel David Lynch che torna sul grande schermo con una parte profetica e metacinematografica, un attestato di stima artistica che non passa inosservata. E silenzioso, in un angolo, in modo composto, elegante e servile, c’è anche John Williams e la sua musica, un impronta fondamentale e indispensabile per la riuscita del lungometraggio.

The Fabelmans è un lungometraggio che ti rimane dentro, che brucia con un’intensità strabiliante ed esplosiva, che ci tiene in piedi, incollati allo schermo ad osservare l’epopea umana, ma eccezionale di un regista che ha votato l’intera vita alla sua passione. Grazie al potere narrativo e immaginifico del cinema, quella sua ossessione così ostinata diventa la nostra, una storia che non può passare in sordina perché la regia ci tiene per mano, mostrandoci la sua arte in profondità su più livelli interpretativi. Anche la sceneggiatura è immersiva e profonda nella sua costruzione e contenuto, rappresentando diverse sfumature emotive, ma mantenendo una linea ordinata e puntuale. Il sogno diventa vero e tangibile, infine, grazie anche alle essenziali note di Williams e lo smisurato talento degli attori: degli elementi fin troppo importanti che ci legano ancora più alla fiaba cinematografica di Steven Spielberg.

Pubblicato su cinematographe.it il 20/10/22 di Massimiliano Meucci

 

lunedì 29 agosto 2022

NOPE di Jordan Peele (2022)

 


1998. Sul set della sitcom Gordy’s Home, lo scimpanzé protagonista attacca e uccide quasi tutti i membri del cast. Solo l’attore più giovane, Ricky “Jupe” Park, rimane illeso. Tornato tranquillo, mentre sta tendendo amichevolmente la zampa a Ricky, lo scimpanzé viene abbattuto dai colpi della polizia. Oggi: dopo la morte del padre, i figli OJ e Em Haywood cercano di tenere a galla l’attività del ranch, un allevamento di cavalli addestrati per lavorare nel mondo dello spettacolo…

Si muove su più piani Nope, blockbuster dichiaratamente estivo, eppure dall’evidente connotazione autoriale. Direzioni apparentemente opposte, persino inconciliabili, come ad esempio capita (quasi sempre) anche all’accostamento tra fantascienza e western, stimolante più sulla carta che nella pratica. Insomma, guarda verso l’alto Jordan Peele, con una consapevolezza davvero sorprendente: novello Icaro dell’arthouse horror, il regista, sceneggiatore e produttore statunitense sembra saper prendere dei rischi calcolati al millimetro, giusto un alito di vento prima del precipizio. Si pensi, ad esempio, a tutta la prima parte, che regala un sussulto iniziale per poi dipanarsi soprattutto tra parole e caratterizzazione psicologica: un rischio abnorme per una pellicola (già, proprio pellicola) che punta al box office. In questo senso, però, Peele può contare sulla pazienza spettatoriale, dilatata dai successi di Get Out e Us. Insomma, la platea sa che vale la pena aspettare…

Fantascienza e western, si è detto. Peele pesca a piene mani dalla storia del cinema, persino da prima. A suo modo, Nope è un nipotino sagace de Lo squalo e di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ne recupera la spettacolarità ma anche la teoria, il gusto per la narrazione e l’utilizzo parco degli effetti speciali, con la tensione nutrita anche (e soprattutto) dal fuori campo. Nope è spielberghiano, è shyamalaiano, ma non basta. In linea con l’afflato politico di Get Out e Us, Peele scava fino ai prodromi della Settima Arte, e mette il grande pubblico di fronte a Sallie Gardner at a Gallop, aka The Horse in Motion, di Eadweard Muybridge: siamo nel 1878 e questo esperimento fotografico su un cavallo a galoppo rappresenta uno dei primi passi del cinema. Ma ancora non basta. Peele attira la nostra attenzione su quello che stiamo vedendo, un cavallo e un fantino, sui nomi che si sono tramandati (il regista, il cavallo), e sulle sabbie del tempo che hanno sepolto l’identità del misconosciuto cavallerizzo. Afroamericano, ovviamente. Dal 1878 al 1998 il passo non sembra breve, e nemmeno il contesto: con una serie di flashback che via via ci svelano tutto l’accaduto, Peele ci mette di fronte a un altro paradigma del mondo dello spettacolo, la singolare serie televisiva Gordy’s Home e lo scimpanzé protagonista. Lo sfruttamento dello showbiz nelle sue varie forme.

Con una mirabile serie di rovesciamenti di prospettiva, Peele costruisce pezzo dopo pezzo un film-mostro: infatti, Nope si nutre esattamente di quello che mette in scena, senza mascherare le proprie responsabilità. Gioca col fuoco Peele e gioca con le stesse regole del vero mostro gargantuesco, la società dello spettacolo. Armato inizialmente di un disco volante che avrebbe inorgoglito Ed Wood, Peele sembra essere cresciuto a pane, Spielberg e Debord, senza dimenticare altri maestri (tra i tanti, Carpenter) e altre bandiere – l’anima western di Nope deve molto anche a Non predicare… spara! (Buck and the Preacher, 1972) di Sidney Poitier, tra le pietre angolari dell’immaginario cinefilo e politico di Peele.

Deciso a domare il mostro, o quantomeno a non farsi divorare (sarebbe interessante, in questo senso, poter sondare la scelta di un personaggio di origine asiatica come Jupe), Peele agisce dall’interno e modella a proprio piacimento alcuni fatti reali. Se la storia di The Horse in Motion è comprensibilmente potenziata per agganciarsi al film e a determinate considerazioni socio-politiche, è il flashback di Gordy’s Home a tracciare i confini (im)morali di Nope: non è infatti difficile risalire al reale e tragico incidente dello scimpanzé Travis e alla sventurata sorte di Charla Nash, massacrata e sfigurata come la giovane attrice della fittizia sitcom Mary Jo Elliott. Conscio dei pericoli e delle contraddizioni dello sguardo, del semplice atto di guardare e del più complesso atto di mettere in scena, Peele pone l’accento sulla responsabilità individuale, sulla consapevolezza, sulla capacità di rapportarsi alla realtà e alla realtà filtrata\alterata\tradita dalle immagini. Non a caso, Nope è anche un manifesto tecnico-teorico, un compendio delle possibilità passate e attuali, dagli strumenti rudimentali (non solo Muybridge…) all’IMAX. Dal cinema ai video amatoriali, dalla pellicola al digitale, nuovamente alla pellicola. Banalmente, oggi come ieri, è la consapevolezza a guidarci tra la selva delle immagini.

Grazie anche al cristallino talento del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema (Lasciami entrare, Interstellar, Dunkirk, Ad Astra), alle performance di Daniel Kaluuya (OJ) e Keke Palmer (Em), Nope è un notevole oggetto d’intrattenimento, un raro esempio di narrazione libera, distante dalla frenesia e approssimazione di tanti blockbuster contemporanei. Apparentemente senza timori, Peele mette insieme i cocci taglienti del sogno americano, gli abissi oscuri del mondo dello spettacolo, le diseguaglianze sociali e la disperata volontà di riscatto, la fantascienza degli anni Cinquanta (era dai tempi di Tremors che non si respiravano così pienamente quelle atmosfere), l’epicità del western e le sue diramazioni televisive da quattro soldi, l’horror autoriale e Il mago di Oz, le frenesie del consumismo e l’illusione dei verdi pascoli, il dualismo analogico\digitale e tutto quel che segue. Nope è The Twilight Zone all’ennesima potenza. È un film d’autore. È un blockbuster. È Jean Jacket contro Kid Sheriff. È la rivincita di Sidney Poitier e Harry Belafonte.

Pubblicato su quinlan.it , 08/11/2022 di  Enrico Azzano

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C’è un momento nell’ultimo film di Jordan Peele che riassume straordinariamente i tanti discorsi sul riciclo dei generi classici che più o meno opportunamente si fanno intorno al suo cinema. Questa volta Daniel Kaluuya scappa da una cosa aliena che lo bracca cercando di sedurre il suo sguardo; il giovane ferma la sua auto, si sporge appena dallo sportello per guardare, poi abbassa gli occhi e dice letteralmente: “Nope!“. Pensiamoci. La torrida atmosfera notturna, il furgone in una strada di campagna e l’imponente presenza aliena dall’alto fanno venire in mente una speculare sequenza di Incontri ravvicinarti del terzo tipo nella quale, però, Richard Dreyfuss si sporge fiducioso da quello stesso finestrino guardando con estatica beatitudine la nave aliena che fluttua sulla sua testa. Insomma, cos’è successo nel frattempo a Hollywood per doverci ossessivamente ricordare quant’è pericoloso guardare in alto? Don’t Look Up, appunto….

Quello di Jordan Peele si conferma un cinema di pure superfici lentamente messe in abisso che sfrutta l’accumulo ossessivo dei cliché visivi per far balenare infine le originarie potenze dell’immagine cinematografica: il raccordo di sguardo e il rapporto con il fuori campo. Ma andiamo con ordine. Dopo l’horror politico sulle latenti tensioni etniche in era Trump (in Scappa – Get Out la perturbante ipnosi associata all’immersione in un piccolo schermo dove guardarsi-guardare è una trovata che supera di slancio tutte le black mirror distopiche degli ultimi anni); e ancora, dopo l’horror siegeliano che disloca lo stesso discorso su un piano economico-sociale (il tema del doppio e i rapporti di classe in Noi); lo step successivo non poteva che essere il Blockbuster di matrice spielberghiana capace di riflettere le derive attuali della società dello spettacolo. Peele, del resto, è il produttore/regista che più di ogni altro ha ereditato le istanze immaginarie della complessa storia dell’African American Cinema rimediandole definitivamente nell’industria hollywoodiana e instaurando in tal modo nuove dinamiche di potere.

Ed eccoci al punto. Nope parte dal pre-cinema e da una “politica” riappropriazione inserita persino nel trailer del film. Peele immagina che il fantino al galoppo in uno dei celeberrimi esperimenti cronofotografici di Eadweard Muybridge (la serie di figure Animal Locomotion del 1872) fosse afroamericano. Quindi, ad essere tirato in ballo non è tanto il cinema delle origini, bensì l’invenzione di un dispositivo tecnico (lo zooprassinoscopio) che ha fatto scattare la scintilla del movimento-nelle-immagini ma ha ancora bisogno di esperienza e figure umane per diventare “cinema”. Ecco perché il fantino ingiustamente cancellato dalla storia diventa l’antenato dei protagonisti del nostro film, i fratelli Haywood, discendenti da una famiglia di ammaestratori di animali per le Major classiche hollywoodiane. In Nope, pertanto, la dimensione dell’immaginario popolare diventa il correlativo oggettivo della dimensione privata dei personaggi: l’episodio chiave dell’infanzia dei fratelli O.J. ed Emerald è legato al set de Il Re Scorpione nel 2002 (l’alba del nuovo millennio) con la scelta autoritaria del padre Otis di affidare al figlio il cavallo preferito della sorellina.

E adesso? L’anziano genitore (interpretato non a caso dall’icona carpenteriana Keith David) è morto improvvisamente colpito da misteriosi detriti caduti dal cielo. Proprio nei pressi di una strana nuvola in fermo-immagine che sembra uno sfondo desktop e che probabilmente nasconde alieni aggressivi pronti ad attaccare. Un fatto che scatena la reazione dei due fratelli ossessionati dalla cattura dell’immagine mancante (ancora le superfici) nel vano tentativo di lenire il dolore della perdita. Ma Emerald e O.J. non vogliono registrare semplici video amatoriali, ma vogliono l’inquadratura definitiva degli alieni (“The Oprah Shot”) che faccia impallidire decenni di fantascienza divenendo virale e risollevando in un colpo solo le sorti economiche della loro azienda. Fermiamoci qui. 

Nella rassicurante confezione di un canonico Blockbuster estivo da consumare insieme a bibite e popcorn, Nope ragiona in maniera lucidissima sulle derive dell’attuale Social Media Entertainment e sul ruolo del cinema nel sempre più fitto involucro mediale fagocitante che calamita i nostri sguardi anestetizzati. E il cinema, appunto, prende una posizione netta con i suoi scarti memoriali: innanzitutto rivendicando una primogenitura storica nelle immagini in movimento (dalla cronofotografia alla cinepresa manuale analogica fuori dalla “rete”) e subito dopo perseguendo un’etica della forma che si interroghi ancora sulle responsabilità insite nell’atto del guardare. Cosa inquadrare e cosa lasciare in fuori campo? Cosa guardare e a cosa dire nope? Un percorso non dissimile da quello narrativamente compiuto da O.J.: dopo la morte del padre/padrone e dopo la profonda crisi dell’azienda Haywood/Hollywood, infatti, il ragazzo depresso tenta faticosamente di riattivare la sua memoria emotiva per superare il trauma (alieno) riconoscendo infine la sorella come unica protagonista della storia.

Il genere western diventa lo spazio immaginario dove tentare questo disgelo emotivo. Il cielo inglobante in campo lunghissimo riattiva l’iconografia e l’epica del “cinema americano per eccellenza” dispiegando un’ambiziosissima dialettica tra il thriller metafisico di Hitchcock e l’horror moderno di Carpenter, la sci-fi filosofica di Kubrick e il disaster movie fracassone di Roland Emmerich, il metacinema riflessivo di De Palma e il blockbuster intimista di Lucas/Spielberg. Ci risiamo: Jordan Peele è sin troppo ambizioso? I suoi film sono troppo costruiti e peccano di uno strategico didascalismo (vi ricordate le critiche sollevate al pittore di Candyman)? Forse… ma non è questo il punto. Perché il film cerca cocciutamente un referente emotivo dietro ogni immagine riciclata aprendosi a nuove possibili interpretazioni politiche (lo scioccante episodio della scimmia Gordy e del bambino prodigio delle sitcom divenuto un ambiguo imprenditore del suo trauma), teoriche (l’alieno torna a essere un significante puro, un occhio caldo del cielo che ci sfida a ragionare), culturali (le invisibili maestranze afroamericane che hanno fatto la storia di Hollywood elette a protagoniste di un blockbuster mainstream) e sentimentali (la lenta elaborazione del lutto dei due fratelli resta la “cosa” più forte e commovente), salvaguardando nel contempo le regole auree del cinema di intrattenimento.

Insomma, piacciano o meno, le inquadrature di Jordan Peele non sono mai pacificate. Perché pur partendo da presupposti differenti Scappa, Noi e Nope attivano un simile percorso di spoliazione del visibile tendendo a un campo-controcampo finale che condensi magnificamente la nostra esperienza estetica. I see you: da Cameron a Spielberg, da Shyamalan a Gray, passando per D. R. Mitchell e Jordan Peele, molto cinema americano del XXI secolo sta tentando di opporre una riflessione critica sul nostro rapporto con le immagini invitandoci a una sacrosanta ecologia dello sguardo. Il vecchio e malandato grande schermo ha ancora molte cose da dirci sul nostro presente.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 10 Agosto 2022 di Pietro Masciullo


mercoledì 3 agosto 2022

Irma Vep di Olivier Assayas (2022 - miniserie)

 



Per fortuna Olivier Assayas continua a essere uno dei più grandi registi contemporanei. E, a differenza di molti “maestri” di oggi, non ha paura ad esempio di filmare esseri umani che usano lo smartphone. O di raccontare personaggi del mondo dello spettacolo che preparano una scena e rivedono una sequenza del 1916 su un supporto digitale del 2022. Conta il contenuto, non il contenitore sembra volerci raccontare lucidamente il cineasta francese, qui alle prese con una complessa, ambiziosa, serie televisiva di otto puntate prodotte da HBO e ispirate al film da lui diretto nel 1996.

Siamo a Parigi e l’astro nascente di Hollywood Mira (Alicia Vikander, perfetta e coraggiosa sia da interprete sia da produttrice esecutiva), nel pieno della promozione di un film di supereroi, accompagnata dalla sua giovane assistente, inizia le riprese di una serie televisiva remake di Les Vampires, il capolavoro muto di Louis Feuillade che di fatto diede inizio nel 1915 alla narrazione cinematografica a episodi e a Irma Vep, la prima grande eroina femminile del grande schermo. A dirigere c’è René Vidal (Vincent Macaigne, qui vero e proprio alter ego di Assayas, molto più del Jean-Pierre Léaud del “primo” Irma Vep), un regista di nicchia che lotta contro il suo esaurimento nervoso e i fantasmi del film che molto tempo prima ha girato sullo stesso argomento. Un film che lo fece innamorare dell’ex-moglie, un’attrice hongkongese che non vede più da anni. Siamo quindi immersi nel dietro le quinte della serie. Nel “film nel film”. Ma anche nella vita privata e nelle relazioni umane di chi lavora nello show business. E sul set la vita non solo imita l’arte, ne assorbe la magia e la maledizione. Così non appena indossa il costume nero, bondage, di Irma Vep, Mira “diventa” Irma Vep. Entra ed esce dallo schermo, dalle stanze d’albergo. Attraversa la notte.

Copie e fantasmi si inseguono continuamente. Irma Vep è un’opera all’insegna del doppio e oltre. La serie tv del 2022 insegue il film del ’96, lo amplifica e lo supera. Assayas rifà Feuillade e forse diventa Feuillade. Macaigne diventa Assayas. Vikander sostituisce Maggie Cheung che a sua volta reinventava Musidora, la prima Irma Vep. E quindi le tante versioni femminili del personaggio si incrociano in una dissolvenza incrociata senza fine che attraversa le epoche, i fotogrammi e gli immaginari. Poi c’è l’attore tedesco drogato (Lars Eidenger) che vive come fosse lo spettro di Fassbinder o di una star del rock ‘n roll. E l’assistente giovane di Mira, che rimanda alla Kristen Stewart di Sils Maria e Personal Shopper. Connessioni, specchi che riflettono forme, personaggi, presenze di altri film o di altri set.

Quante storie, tracce, percorsi, sovrapposizioni… Irma Vep non è un film, né un serial. È un magnifico esorcismo. “La luce è più difficile da raggiungere dell’oscurità” dice alla fine delle riprese Mira a René Vidal. Tutta la serie è immersa nelle tenebre della notte e dell’inconscio. È la notte di Parigi, mai così contemplata e “fotografata” dal cineasta francese. La notte di Feuillade. Ma soprattutto la notte del cinema. Del cinema come lo abbiamo sempre pensato e (forse) non può più essere. Poi, a un certo punto, quasi inaspettatamente dopo la “tempesta”, arriva la fine delle riprese che il regista e la musa hanno faticosamente e istericamente portato a termine. Irma Vep finisce. La troupe sembra sciogliersi alla luce del giorno. Come i sogni. Il set si svuota dalle presenze. I personaggi hanno volti distesi. Il cinema, o la serialità, o quello che è, ha fatto il suo corso. La luce dopo il buio. Bellissimo. Rispetto al referente cinematografico di venticinque anni prima, l’opera viene conclusa. Certo Vidal vive la sua “crisi” e la delirante ossessione per Feuillade e Musidora, ma riesce a liberarsi. Se nel lungometraggio del ’96 il regista storyteller falliva e, da iconoclasta underground cresciuto con il cinema sperimentale degli anni ’60 e ‘70, decideva di graffiare il girato, stavolta l’autore scommette ancora nella narrazione. Continua a graffiare e a elettrificare le proprie immagini, ma riesce a “vedere” e a “raccontare”. E così anche noi spettatori “vediamo” e intercettiamo le molecole del cinema e quelle della vita, speculari l’uno all’altra. Come il buio e la luce. Attraversiamo e accogliamo la magia nera, la linea onirica che unisce Feuillade, Kenneth Anger, Godard e Truffaut, e poi torniamo a casa. Aspettando il futuro. Aspettando gli spiriti e le storie che resistono allo scorrere del tempo.


Regia: Olivier Assayas

Interpreti: Alicia Vikander, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Antoine Reinartz, Devon Ross, Jeanne Balibar, Vincent Lacoste, Alex Descas, Lars Eidinger, Hippolyte Girardot, Pascal Greggory 

Distribuzione: Sky, Now  Origine: Francia, USA, 2022  

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 3 Agosto 2022 di Carlo Valeri

martedì 24 maggio 2022

Crimes of the Future di David CRONENBERG (2022)


“Body’s Reality”. La scritta su una tv su sfondo nero sposta il cinema di Cronenberg dalla definizione – sempre parziale – di body horror a quella di ‘body beaty’. Perché Crimes of the Future è un cinema sulla bellezza che racchiude l’attrazione, la sessualità, la metamorfosi, la carne, gli organi. Anche la mostruosità diventa forma di seduzione: l’esibizione con il viso e gli occhi cuciti, il volto e il corpo in cui sono cosparse dappertutto le orecchie.

 “Body’s Reality”. Si, potrebbe ripartire tutto dalla tv, come quella via cavo di Videodrome da cui non vengono però captati i segnali inquietanti che precipitano nell’incubo. Si entra invece sotto la pelle di un cinema dove non ci sono solo più ‘demoni’ (?) (la madre del bambino ucciso) ma soprattutto di divinità – unica sintesi possibile biologica-tecnologica dove la vita la morte, l’organico e l’inorganico sono solo tappe passeggere di un corpo che non si decompone ma muta – possono davvero essere immortali nel cinema del regista canadese.

Crimes of the Future, un progetto pensato da più di 20 anni subito dopo eXistenZ, è la sintesi più radicale (oggi) del cinema di Cronenberg. La figura avvolta in un mantello di Viggo Mortensen rimanda a fantasy/horror lontani, dalle origini del cinema a quelli del futuro. Il suo personaggio Saul Tenser, celebre artista performer, è un incrocio tra Dracula e la mosca cronenberghiana. L’estensione tecnologica del proprio corpo mostra ancora come nella filmografia del cineasta la creazione e l’invenzione, Dr. Frankenstein e il mostro, il soggetto e l’oggetto stesso della propria identità sono la stessa cosa. Saul, nelle proprie performances, crea delle opere d’arte che escono direttamente dal proprio corpo. Come Andy Warhol, oggi Cronenberg è l’unico cineasta di cui si può dire che loro stessi sono la propria opera. Warhol lo faceva fisicamente. Cronenberg si serve invece delle sue tante identità, ancora della moltiplicazione dei suoi corpi che hanno attraversato oltre 50 anni di cinema.

Nei suoi spettacoli Saul si fa assistere dalla sua partner, Caprice (Lèa Seydoux), altro volto ma ideale doppio, gemella come i due Jeremy Irons in Inseparabili. La loro attività attira Timlin (Kristen Stewart) e Tippet (Don McKellar), investigatori del Registro Nazionali degli Organi e del padre del bambino ucciso (Scott Speedman).

Come tutto Cronenberg anche Crimes of the Future va assorbito, metabolizzato. Pezzo per pezzo, inquadratura per inquadratura. La sua bellezza non è estetica ma prima di tutto fisica. Nelle cicatrici, nell’elenco degli organi che Saul offre durante la sua performance, c’è il limite ultimo di uno spettacolo (artistico, cinematografico, pittorico) che prende forma sotto i nostri occhi. Il bello non esplode in tutta la sua forza devastante mélo come in M Butterfly ma proprio nell’esibizione. Gli spettacoli di Saul e Caprice hanno lo stesso impatto della simulazione delle corse clandestine di Crash. Sono ancora le divinità che offrono i loro doni (del cinema). Corpo/macchina, chirurgia/sesso. Potrebbe essere un film (quasi) muto accompagnato soltanto dalla voce-off, proprio come il suo Crimes of the Future del 1970, che ha lo stesso titolo di quel film ma non è un remake. Se il suo cinema precedente è stato anticipatore, oggi Cronenberg parlaciò che siamo diventati: la fluidità, l’abbattimento della separazione del genere, la coesistenza con l’ambiente nella nave rovesciata dell’inizio e come sfondo durante il film (ancora di una performance?) e soprattutto del bambino che mangia la plastica.

È così denso Crimes of the Future, così  indispensabile che dovrebbe essere visto come l’Empire State Building di Andy Warhol. Ogni immagine fermata. Non analizzata ma contemplata, goduta come puro piacere estetico e sensoriale, accesa nel suo erotismo come pura estasi come in uno dei baci più belli degli ultimi anni tra Kristen Stewart e Viggo Mortensen. La passione è solo uno stadio, la sessualità è anche nel piacere singolo di mostrarsi. “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo” diceva Norma Desmond in Viale del tramonto. Crimes of the Future è film e corpo. Anzi più corpi, come quelli straordinari di Léa Seydoux e Kristen Stewart che possono aveer abitato da sempre il cinema di Cronenberg. Quindi può scendere quella scala come nel finale del film di Billy Wilder. E restare immortale. Proprio come Crimes of the Future, che sarà uno dei film fondamentali dei prossimi 100 anni.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 24 Maggio 2022 di Simone Emiliani

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Screen – Un film intenzionale ma non sterile, inquietante ma troppo realistico per impaurire realmente, sebbene si possa dire che tenta di fondere le paure del body horror con i cambiamenti climatici.

Telegraph – L’interpretazione migliore è quella di Sedoux. Ma al contrario di Crash di Cronenberg, che sconvolse Cannes nel 1996, non c’è nulla che sconvolga in Crimes of the Future – requisito necessario per qualsiasi vero film scandaloso da festival.

TheWrap – Nei momenti più memorabili, Cronenberg crea immagini visceralmente indipenditabili che spaventano, sì, ma provocano anche con idee grandi e scioccanti su noi stessi: la mostruosità della malattia, il forse inevitabile ibrido tra corporeo e meccanico, la determinazione di sé.

THR – Il film offre più misteri di quanti ne risolva. Tuttavia, le incredibili interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux come artisti performativi le cui tele sono gli organi interni trascineranno i curiosi al cinema.

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CRIMES OF THE FUTURE (1970)

1997. A seguito di una piaga catastrofica derivante da prodotti cosmetici che ha ucciso l’intera popolazione di donne sessualmente mature, il direttore della clinica dermatologica House of Skin, Adrian Tripod, sta cercando il suo mentore, il dermatologo pazzo Antoine Rouge scomparso in circostanze misteriose dopo aver contratto la malattia che porta il suo nome. Nel suo vagare, Tripod incontra quel che è rimasto di un’umanità lacerata, persone e gruppi di uomini che stanno cercando di adattarsi a un mondo post-femminile. Si unisce a una serie di organizzazioni, fra le quali una società di Import-Export metafisico e un misterioso Gruppo Oceanico Podologico, fino a quando non si imbatterà in un gruppo di pedofili che tiene in braccio una bambina di 5 anni… [sinossi]

Ogni virus ha i suoi tempi e i suoi stadi di incubazione. Deve svilupparsi, attecchire, crescere, diffondersi, contagiare, diventare una piaga. Ma prima ancora deve perfezionarsi, evolversi, trovare la sua forma compiuta, procedendo per tentativi e per selezione naturale fino a vincere la sua personale lotta per la vita. Perché un virus è un parassita che ha bisogno delle cellule di un altro organismo per potersi riattivare, ma è al contempo una forma vivente autonoma, con il proprio codice genetico, con la propria capacità di riprodursi, con la propria materialità e con la propria (nano)corporalità. Con la propria ferocia patogena, con le proprie implicazioni fisiche, psicologiche e filosofiche, con i propri effetti sempre più devastanti. E con, appunto, la necessità di un tempo di latenza e gestazione prima di poter giungere alla sua definitiva maturazione e compiutezza. Un tempo nel quale il virus sperimenta nuove forme e strategie d’attacco, un tempo nel quale l’infezione supera difficoltà e si mette alla prova fra le difese immunitarie da aggirare e gli antibiotici a cui imparare a sopravvivere. Un tempo nel quale il morbo non è ancora del tutto maturo, ma già lascia intravvedere tutto il suo potenziale ancora in fieri, tutta la veemenza che saprà avere nelle sue successive manifestazioni, e nel frattempo si allena, si perfeziona, mette sul piatto la propria essenza primigenia e cerca le direzioni nelle quali spingerla.

Specialmente quando l’agente patogeno in questione è quel virus mutaforma che scorre sotto le immagini e dentro le ossessioni di David Cronenberg, quel virus sul quale si impernia e nel quale si identifica tutto il suo cinema, quel virus che in un certo senso è il suo cinema, l’elemento fondante, il linguaggio e il campo di ricerca, la forma e la sostanza, la domanda e la risposta, l’origine e il punto di arrivo. E se il cinema di Cronenberg è assimilabile a un virus, allora la sua opera seconda Crimes of the future ne è l’ultimo stadio d’incubazione, è quell’ultimo gradino espressivo che era necessario affrontare perché l’infezione potesse farsi trovare pronta a diventare pandemia, trovando con i (pochi ma fondamentali) denari di una produzione quella che sarà la sua prima forma compiuta ma mai definitiva ne Il demone sotto la pelle (1975).

Perché no, al pari del precedente Stereo e a differenza dei lavori successivi Crimes of the future, se preso da solo, non è ancora un film pienamente compiuto e maturo. È un lavoro autoprodotto a costi risibili, totalmente indipendente e già consapevole del talento e dell’immaginario del suo autore, profondamente coraggioso nei suoi temi spinosi e lucidamente intrigante ed enigmatico nell’affrontarli, orgogliosamente underground nelle sue forme sperimentali e forte dei propri limiti, a partire dalla trasformazione in puro linguaggio della necessità di girare ancora una volta senza audio in presa diretta a causa del forte rumore prodotto dalla Bolex. Eppure, fra i tanti spunti di interesse, le sequenze risultano ancora troppo separate fra un incontro e l’altro del protagonista, mentre alla drammaturgia e al ritmo narrativo, spesso dilatati, ancora mancava quella piena calibratura che giungerà solo dal lavoro seguente.

È arduo provare a immaginare quale possa essere stata l’accoglienza riservata a un UFO cinematografico come Crimes of the future nel 1970, al momento della prima presentazione. Certo, c’erano già state quelle ossessioni cinematografiche di psico(pato)logia, solitudine, sconfitta e apocalisse ereditate dalle letture compulsive di Ballard che Cronenberg covava sin dai primi cortometraggi Transfer (1966) e From the Drain (1967), e c’era già stata una loro prima evoluzione distopica e musiva nell’immaterialità (erotica) della telepatia con il primo lungo Stereo (1969) – del quale sin da subito e come vedremo più avanti, per la voce fuori campo che cuce le fila narrative fra i silenzi delle riprese mute, per le location, per le atmosfere, per i personaggi e per le soluzioni di messa in scena, questo lavoro si configura(va) non solo come la seconda parte di un dittico sperimentale a cavallo fra la fantascienza e l’horror, ma quasi come una sorta di secondo tempo a colori dello stesso film.

Il reale valore di Crimes of the future però, emerso con tutto il suo vigore nel corso degli anni, può essere capito appieno solo oggi, alla luce di quelli che sono stati i lavori successivi dell’autore nativo di Toronto. Per quanto il fiuto di un recensore del tempo potesse sfiorare la chiaroveggenza, nessuno tranne, forse, lo stesso Cronenberg poteva ancora sapere quanto Crimes of the future, con le sue innegabili intuizioni pronte a emergere da un’altrettanto innegabile immaturità narrativa, sarebbe stato in seguito leggibile come una sorta di manifesto di tutto il suo cinema, come un chiaro e deciso intento programmatico, come una sorta di compendio di tutto ciò che sarà nei successivi 40 anni, da Il demone sotto la pelle a Scanners, Rabid a Brood, da La Mosca a Crash, da M. Butterfly a Spider, anticipati con precisione e coerenza impressionanti. Molto più semplice è tentare un approccio analitico fra le righe di Crimes of the future adesso, a posteriori, dopo che la carriera dell’allora ventisettenne David Cronenberg ha portato a definitiva maturazione tutti quei temi che, seppur in forma ancora acerba, già al tempo costituivano tutto l’immaginario, lo sguardo e la poetica dell’autore canadese.

 

Ci sono la mutazione, la distopia, la carne, la morte, la sparizione, il contagio. C’è l’aberrazione, c’è fobia, c’è l’attrazione sessuale. C’è la malattia, c’è la depravazione, c’è l’ossessione perversa. Ci sono le gerarchie sociali e le associazioni segrete, c’è la fascinazione nei confronti dei maestri e delle guide carismatiche, ci sono i feticismi, le cospirazioni e i riti esoterici, c’è il lato frustrato del desiderio e c’è una pedofilia (in)utile e obbligata, destinata a non essere mai consumata. E soprattutto, alla base, ci sono i brandelli di un mondo mondo post-femminile sui quali si innesta una metafora distopica che è al contempo sociale, esistenziale e metafisica, fatta di identità sessuale e di necessità di adattarsi per sopravvivere, di incroci impossibili fra discipline ormai prive di senso, di consapevolezza della fine interrotta solo da immorali illusioni.

È questo il (micro/macro)cosmo tormentato nel quale Adrian Tripod (il sodale e iconico Ronald Mlodzik, che mantiene la stessa centralità che aveva in Stereo guadagnando questa volta un nome e un ruolo definito), a detta della sua stessa voce narrante direttore della clinica dermatologica House of Skin, girovaga alla ricerca del «dermatologo pazzo» Antoine Rouge, suo mentore scomparso nel nulla dopo avere contratto, primo uomo dopo che la pandemia da lui stesso scoperta ha sterminato ogni donna sessualmente matura, la malattia che porta il suo nome. Il segno definitivo della malattia, provocata dai cosmetici e in seguito diventata una propagazione infettiva inarrestabile, è la spuma di Rouge, una sostanza spumosa e biancastra destinata a essere espulsa dalle orecchie dei malati e irresistibilmente invitante per chi, sano, si ritrova a mangiarla avidamente. È l’attrazione nei confronti della morte, del contagio, del dolore, ed esattamente all’opposto del sostanziale mostro fecale che sarà il virus di Il demone sotto la pelle la spuma si presenta languida, saporita, sensuale, morbida. Innocua quando il paziente è ancora in vita, ma letale da subito dopo la sua morte con la necessità di una cremazione il più possibile rapida.

Ma Tripod, che vede morire lentamente e agonizzando l’ultima paziente mentre i medici, fra smalti sulle unghie e crescente intimità cercano di ritrovare – un po’ come antesignani di M. Butterfly – una femminilità ormai impossibile, non sa se Antoine Rouge sia effettivamente vivo o morto. Vaga alla ricerca di un suo segno, di una sua presenza, della sensazione della sua esistenza, o meglio ancora della sua essenza. Lo vuole “sentire”, così come sente il freddo della montatura e delle lenti sulla lingua quando si ritrova a leccare gli occhiali quasi come se fosse il primo germe di quella commistione fra carne e lamiera che toccherà con Crash l’apice della sua sensualità malata, e nel frattempo incontra altri uomini che tentano disperatamente di sopravvivere, di non arrendersi, di adeguarsi a qualsiasi costo. O che rinunciano apertamente a farlo. C’è chi crea e colleziona organi nuovi e malformati all’Istituto per le Nuove Malattie Veneree, a metà strada fra una parodia della nascita e il rapporto con la carne dall’edonismo alla metafisica della malattia come atto creativo, c’è chi cerca di tornare al brodo primordiale di pinne natatorie e tentacoli per curare le crisi psicologiche con il Gruppo Oceanico Podologico impossibile rottura del confine fra due scienze difficilmente collegabili, c’è chi si rotola nei prati fra vecchie fotografie e dita dei piedi sindattili, c’è chi attende il proprio destino in silenzio, c’è chi sviluppa feticismi di ogni tipo nei confronti degli oggetti per non arrendersi alla realtà, c’è chi si limita a danzare senza proferire parola e soprattutto c’è chi, in un impossibile Import-Export metafisico, cerca di far coincidere idea e carne.

 

Ma a questo punto è necessario fare un piccolo passo indietro. È necessario tornare a Stereo, il precedente grado di incubazione del virus/cinema di David Cronenberg. A quel virus già latente nella società e nella psiche, nella carne e nella mutazione, nella scienza e nella macchina, nella realtà e nella distopia, nell’eros e nel feticcio. A quel virus da smascherare e analizzare, da dissezionare e da temere, e al contempo dal quale lasciarsi apertamente sedurre come unica possibile liberazione. Dove in Stereo, a intervallare il coro di voci narranti, il silenzio era accompagnato dal solo (amplificato) fruscio dello scorrere della pellicola, in Crimes of the Future Cronenberg aggiunge all’unico commento del protagonista uno straordinario lavoro sul rumore, sorta di sinfonia industrial fatta di effetti audio e di vecchi cancelli, di vetri rotti e di cigolii ferrosi, di percussioni e di nacchere irregolari, di motoseghe e di campionatori, di pop corn che esplodono e di corde saltate, di robotici motori e di (non) brusche interruzioni. Ma anche di inaspettati suoni naturali, fra i latrati dei cani e il bubolare dei gufi. Quasi come fosse la parziale sonorizzazione noise di un film muto, il cui effetto è straniante quanto stordente, fisico, meccanico, contagioso.

E nel frattempo il regista, insieme agli stock di pellicola in bianco e nero, abbandona anche i vertiginosi ralenti e i repentini cambi di punto di vista che costituivano i raccordi di montaggio più audaci di Stereo per cercare una narrazione che iniziasse a essere più compiuta e definita, mentre con il passaggio al colore le scelte cromatiche diventano inevitabilmente una parte fondamentale dell’aspetto visivo. Quelle che erano la telepatia e le percezioni extra-fisiche destinate a divenire corpo e malizia mutano forma, si trasformano in quel bilico fra attrazione anche squisitamente erotica e repulsione pronta a sconfinare nella paura che, giusto un anno prima di quel 1997 messo futuristicamente e distopicamente in scena nel ’70, troveranno nelle cicatrici, nei ferri e negli incidenti automobilistici di Crash il loro definitivo punto di sintesi. Alla fin fine, il bollore carnale provocato dalla spuma di Rouge e dalla malattia nient’altro è che il gradino successivo del sublime filosofico e letterario. È una fascinazione irresistibile nei confronti dell’orrore, dell’escrescenza, della mutazione, della secrezione, del contagio, del dolore, della morte. È il virus, è il corpo estraneo, o forse è la macchina, dall’automobile dei tamponamenti come deflagrazione della sensualità e del desiderio a quel dispositivo che porterà alla fusione fra l’uomo e La mosca, all’ibrido, al mostro. O forse, ancora, è più semplicemente l’evoluzione, costante stimolo e modificazione genetica come storia dalla quale non si può fare a meno di partire e a cui non si può che tornare.

Fatto di stranianti inquadrature dal basso, vertiginosi campi lunghi, architetture futuristiche, tempeste di colori a squarciare il buio delle riunioni più segrete, granulosi controcampi e lunghi inseguimenti a mano, Crimes of the future mette in scena gelosie e promiscuità, seduzioni e secrezioni, mutazioni e feticismi, piedi mutanti che si fanno palmati e carte stereoscopiche, oscure teorie filosofiche e contaminazioni epide(r)miche, cospiratori pedofili e bambine ricreate dopo l’annientamento della donna ma non/mai del femminile. Le tappe del vagare di Tripod sono uomini e vestiti, ginnastica sacerdotale e perversione sessuale nelle immagini, espansione dei gruppi depravati al di fuori delle leggi e rapporti maestri/allievi, nuove guide spirituali e immersioni psicologiche nell’«acquario» delle sensazioni, dapprima cutanee e poi sempre più profonde, intime, ancestrali. Perverse, come le immagini alla costante ricerca di una nuova sessualità, e come gli uomini alla costante ricerca di una nuova tecnica riproduttiva. Quegli uomini che non si fidano più nemmeno delle proprie gambe, che temono la solitudine, che vivono delle proprie frustrazioni, e che sfidano apertamente la natura per tentare di tornare a uno status quo malato, perverso, fatto di desiderio ma ormai privo di qualsiasi capacità d’amore. E ancora scosso da squilibri e lotte sociali, da egoismi e complotti, da paure e ossessioni sempre più perverse, perché non si può sfuggire alla propria natura.

Tanto che Tripod inizierà a parlare di se stesso in terza persona, come per iniziare a prendere una distanza da ciò che non potrà fare a meno di diventare. Verrà ammesso nel centro di ricerca ginecologica, in cui idea e carne tornano a coincidere nelle forme di una nuova umanità o per lo meno nell’illusione di una nuova umanità, e l’Import-Export metafisico della bambina si fa fisicità pura, rapimento, altra sparizione mentre arriva la polizia impotente, e poi ancora una volta idea, simbolo, disegno infantile. Assenza e nuova presenza, lontano, proprio dove era sparito Rouge, proprio dove diventa chiaro anche a Tripod che il suo mentore non tornerà mai più. Una radice spunta come un’antenna cerebrale dal naso del portiere dell’albergo, ma non è questa la mutazione che farà sopravvivere l’essere umano, l’unica atroce speranza è la bambina. Che puntualmente, con la voluttuosa spuma che Tripod perfettamente conosce, dimostra di aver contratto la malattia di Rouge. E l’idea di una nuova umanità svanisce amara nella dolcezza nell’inevitabile boccone di panna. O in una lacrima. Il virus di David Cronenberg aveva appena iniziato a propagare il suo contagio, stava crescendo, si stava perfezionando. Lo aspettava un viaggio lungo e straordinario, fatto di corpi, menti, pulsioni, mutazioni. Un’epidemia di capolavori per sempre infetti.

Pubblicato su quinlan.it 08/05/2018 by Marco Romagna