1883 (miniserie Paramount - Taylor Sheridan)
giovedì 29 dicembre 2022
2022 rewind
1883 (miniserie Paramount - Taylor Sheridan)
martedì 20 dicembre 2022
Aftersun di Charlotte Wells (2022)
Aftersun sembra quasi un’espansione low-fi dell’universo
serial/letterario di Normal People. Non c’entra solo il ruolo da protagonista
di Paul Mescal, quanto il fatto che il suo personaggio pare espandere una
tragicità già centrale nella serie tratta da Sally Rooney.
Qui il protagonista è Callum, un trentenne padre quasi per
caso di una bambina, Sophie, avuta undici anni prima, da una donna da cui ormai
è separato. Callum è inquieto, si crede un fallito nella vita, forse soffre di
depressione, vive con paura la sua omosessualità latente ed in cuor suo è
convinto che non arriverà a quarant’anni. Prova però a essere un buon padre per
Sophie, a tal punto che la porta con lui in vacanza in Turchia, sforzandosi di
nascondere le sue tensioni e di regalare alla bambina un momento di leggerezza.
Ma questo ormai è il passato, custodito da nastri DV con cui Sophie e suo padre
hanno raccontato quella vacanza e che la bambina, ormai adulta, trent’anni
dopo, guarda senza darsi pace. Perché suo padre non c’è più, forse si è ucciso
davvero, quella vacanza all’inizio degli anni ’90 è stato l’ultimo momento che
ha condiviso con lui e ora la donna, matura, vuole capire chi fosse davvero
quell’uomo.
Aftersun è un grande film di continue dissimulazioni che
riflette sul peso traumatico della verità e che, anche per questo, si diverte a
truccare costantemente le carte, a nascondere la sua vera natura, i suoi
percorsi, come se fossero troppo complessi da gestire. Il film di Charlotte
Wells si presenta dunque come un racconto di formazione a due voci dall’afflato
generazionale, tutto pensato in sottrazione, retto dall’evidente chimica tra
Paul Mescal (sempre centratissimo, straordinariamente fisico, teso tra la
gestualità esplosiva e parentesi di grande introspezione) e la piccola
rivelazione Frankie Corio, ma Aftersun è soprattutto una lucida e sistematica
riflessione sull’opacità dell’immagine cinematografica.
Perché quando quegli allegri video vengono completati dai
ricordi di Sophie, ci si rende conto che Callum è sé stesso solo nel fuori
campo: piange disperato quando Sophie non c’è, si perde nei pensieri quando la
piccola dorme, si getta in mare di notte, quando nessuno vede. È probabilmente
un atteggiamento troppo semplicistico, manicheo a tratti, eppure colpisce la
lucidità con cui Charlotte Wells torna, coerentemente, ad una concezione “analogica”
del rapporto tra verità e immagine: è vero solo ciò che si può vedere con gli
occhi, ciò che si può testimoniare. Forse anche per questo il racconto è
dominato da una forsennata pulsione scopica. Tutti guardano ciò che li
circonda, da lontano oltre le serrature o le fessure e non è un caso, tra
l’altro, se Sophie scopre l’omosessualità del padre guardandolo, non vista,
baciare un altro uomo.
Ma forse è troppo tardi, forse la verità si può solo
sfiorare. Anche le immagini “riattraversate” da Sophie sono intrinsecamente
false perché distorte dal ricordo e non possono evitare di caricarsi del trauma
di Paul, non possono che ragionare della loro ambiguità. Charlotte Wells, però
non fa un passo indietro e le asseconda in tutta la loro complessità.
Chiude dunque i due protagonisti in inquadrature strette, li
isola come per proteggerli ma è un gesto che non può evitare un sentore di
minaccia, come se in quei piani stretti bloccasse anche Callum, prigioniero di
un modello genitoriale che non sente suo. Ovvio allora che i momenti migliori
sono quelli in cui l’uomo si offre allo spettatore in tutta la sua
imperfezione, costantemente indeciso se trattare Sophie come una sorella o come
una figlia, insicuro, ma soprattutto incoerente.
Aftersun è un film abissale, l’esordio di una regista
straordinariamente consapevole delle spigolosità dello spazio in cui sta
operando e pronta a raccontarlo senza filtri, esorbitando addirittura in un
finale tanto “impossibile” quanto cinico che mostra, implacabile, tutta la caducità
del fotogramma, quasi a rimarcare quanto la verità stia racchiusa in immagini
mute e a non rimane che un ricordo condannato a sfiorire.
pubblicato su sentieriselvaggi. it il 15/10/22 di A. Baronci
giovedì 10 novembre 2022
Un anno, una notte di Isaki Lacuesta (2022)
Ha molto del cinema Nouvelle Vague e post questo gran bel film sugli effetti traumatici dell’attentato al Bataclan. L’intesa tra Noémie Merlant e Nahuel Pérez Biscayart ha qualcosa di miracoloso.
La fine, il nuovo inizio e ancora la fine di una storia. A
volte l’intesa tra due attori fa miracoli. È il caso di Noémie Merlant e Nahuel
Pérez Biscayart. Lei è stata la protagonista di Ritratto della giovane in
fiamme ma ha confermato il suo talento anche con Jacques Audiard (Parigi, 13
Arr.) e ha tenuto testa alla grande a Cate Blanchett in Tàr. Lui invece ha
lasciato il segno con l’incredibile vitalità sprigionata nel ruolo di Sean in
120 battiti al minuto. Il film è tutto nei loro cenni d’intesa, distacchi,
riavvicinamenti, disagi. All’inizio di Un anno, una notte c’è il dettaglio
sulle palpebre e i piedi. Alla fine due corpi. Potrebbe essere un flash che
arriva da Alain Resnais o Marguerite Duras. Oppure quello del tempo infinito
della ricerca della felicità di La maman et la putain di Jean Eustache. Ha
molto del cinema Nouvelle Vague e post questo gran bel film girato dal cineasta
spagnolo Isaki Lacuesta. Perché prima della storia, sono i sentimenti dei
personaggi che parlano. Non c’è voce-off ma è come se i rispettivi monologhi
interiori s’incrociassero in continuazione.
C’è un prima e un dopo nella relazione tra Céline e Ramón.
C’è una notte cha cambia tutto, quella dell’attentato al Bataclan di Parigi il
13 novembre 2015. Quella sera entrambi erano lì assieme ai loro amici Carlos e
Lucie. Céline cerca di reagire subito e di lasciarsi quel tragico evento alle
spalle continuando a lavorare come assistente sociale. Ramón invece non ce la
fa. Fa fatica ad uscire di casa, non riesce più ad andare al lavoro che poi
cambia e cerca aiuto nella terapia. La loro storia è a un bivio. Riuranno a
ritrovare un equilibrio nella loro vita e tornare alla normalità?
Ci sono due scene centrali in Un anno, una notte. La prima è
quella in cui i due protagonisti sono assieme ai loro amici Carlos e Lucie.
Ramón vorrebbe provare a parlare di quello che è accaduto quella notte. Céline
invece cerca di cambiare argomento. L’altra è quella della litigata dopo una
serata passata con gli amici spagnoli di lui. Li entrambi vivono tutta la
difficoltà di parlare sulla loro pelle. Perché è su questo che si sofferma il
film: l’incapacità di trovare le parole per raccontare quello che è successo.
Questo elemento, già alla base del romanzo Paz, amor y death metal di Ramón
González dove i due personaggi principali hanno gli stessi nomi di quelli
reali, nel film si amplifica ancora di più. Ci sono flash che possono essere
soggettivi. I ricordi di quella sera. L’appuntamento, il ritardo di lui e la
corsa con lo scooter, l’allegria, le voci confuse nel locale, la musica e poi
di colpo gli spari. A volte sono nitidi, altre invece più confusi. Proprio il
controcampo passato/presente ripercorre una vicenda che può lasciare anche una
doppia interpretazione sull’epilogo.
La regia di Isaki Lacuesta, che già aveva mostrato come i
traumi del passato condizionano inevitabilmente il presente come nei ricordi
dei due fratelli che avevano assistito alla morte violenta del padre in Entres
dos aguas e dell’adolescente ritrovato in un centro d’accoglienza che non
ricorda niente della sua infanzia in La prossima pelle, è viscerale, non
trattenuta e non si ferma neanche davanti a qualche piccolo sbandamento come il
pianto di Ramón davanti alla psicologa. Sa essere attaccato alla pelle dei suoi
personaggi. Un po’ Audiard, un po’ Almodóvar. Ma anche senza nessuno dei due.
Quando si allontana dalla narrazione a lascia deambulare da soli i due
protagonisti, sono vertigini: l’attacco di panico di Ramón al museo, Céline che
torna a ballare (da sola) tra paura e l’istinto a (ri)perdere finalmente il
controllo. A quel punto tutto va in secondo piano: la rabbia per il discorso
del Presidente Hollande, quella di non sentirsi francesi anche se si è in
Francia, l’ossessione di riavvolgere il nastro per tornare a quella notte. E
tutta l’energia devastante di Un anno, una notte non è tanto nella
ricostruzione, ma proprio nella capacità di rivivere la serata al Bataclan
attraverso gli occhi di chi c’era. Le mantelle fluorescenti all’inizio mostrano
tutta l’incredulità di come tutto possa cambiare da un momento all’altro. E le
strade, le persone, la stessa Parigi, sono cambiati per sempre.
Pubblicato il 10 Novembre 2022 su sentieriselvaggi.it di
Simone Emiliani
martedì 25 ottobre 2022
Oren Ambarchi - Shebang
The most
difficult music sometimes makes it look easy, almost as if nothing’s happening
at all. Glenn Branca’s electric guitar symphonies aren’t that hard to play.
Chopin’s Nocturnes might seem deceptively simple, given their fragile beauty. Terry
Riley’s In C is literally one note. Peeking beneath the hood of any of the
above reveals each to require titanic powers of concentration, focus, and an
almost psychic connection with the instrument.
If you’re
not paying attention, you might be tempted to think there’s not much happening
with Shebang, the newest from Australian avant guitarist/composer/experimenter
par excellence Oren Ambarchi. It’s the third in a triptych of albums focusing
on rhythm, following 2014’s Quixotism and 2016’s Hubris. Shebang picks up where
Hubris‘ rhythmic pulse left off, with stuttering pointillist percussive guitar
from Ambarchi creating a scaffolding over which an all-star cast of
international improvisers weave an impressively random array of sounds and
exquisite improvisation.
Like
Hubris, Shebang is structured as four “movements,” or maybe sections would be
more apt, as there’s not a whole lot moving here. Or, rather, everything’s
moving, constantly, as crystalline guitar harmonics are joined by odd underpinnings
of bass, triggered by Ambarchi’s guitar, and what sounds like a synth, giving
the proceedings the air of an arthouse ’80s psychological drama, To Live and
Die in L.A. by way of Steve Reich. Before long, the atonal stringed instruments
are joined by the driving, propulsive groove of Joe Talia’s high hat, at which
point the band seem to seamlessly shift into an excellent fusion band, as if
Teo Macero were remixing Goblin for Miles Davis’ Bitches Brew. The scene
shifts, yet again, with the introduction of a pedal steel slide guitar,
courtesy of BJ Cole of “Tiny Dancer” fame, of all things. The atmospheric pedal
steel, entirely out of the blue and seemingly out of thin air, perhaps
inevitably brings to mind Brian Eno’s Apollo: Atmospheres and Soundtracks, at
which point the whole affair takes on an “out of this world” quality for a
moment.
What is
most impressive of all of this is the fact that this all-star group of stellar
improvisers were never in the same physical space while making Shebang. This level
of detailed, concentrated, focused playing is always deserving of accolades,
even if it’s not the flashiest thing in the world. The fact that this level of
precision can be achieved across continents is vaguely mind-blowing.
Listening
to Shebang, it’s clear there’s some sort of guiding principle at play but it’s
not immediately obvious what it is. Slinky guitar arpeggios, sounding more like
something from a gamelan orchestra or African marimba ensemble, seem to set off
corresponding bass runs – exactly how is anybody’s guess. It gives the feeling
of some larger pattern at work, of staring at a time-lapse video of spreading
chemical reactions, unthinkably complex and impossible to comprehend. Yet there
is a method to the madness; there is a pattern to the chaos. That idea brings a
bit of peace.
Anyone
looking for big, grand gestures in Shebang is likely to be slightly frustrated,
though. This is music for prolonged concentration, demanding focus and
attention to truly appreciate its craftsmanship. For those willing to brave the
40-minute runtime of experimental instrumental improv, though, it’s a hypnotic,
meditative journey that’s well worth taking.
Pubblicato su
spectrumculture.com 2022/10/11 By J Simpson
Il flusso è un concetto importante nello stile di Oren Ambarchi, un elemento che ha trovato un primo pieno compimento nell’ottimo Saggittarian Domain (2012) per riemergere di tanto in tanto in alcuni lavori lunghi. Tra questi, il nuovo Sheband, terzo capitolo di una trilogia dedicata allo studio ritmico che comprende anche gli album Quixotism (2014) e Hubris (2016). Se in quest’ultimo il Nostro cavalcava in solitaria linee techno dal sapore krauto, nel precedente chiamava a raccolta una schiera di amici e collaboratori (Thomas Brinkmann, Matt Chamberlain, Crys Cole, Eyvind Kang, Jim O’ Rourke, John Tilbury, U-zhaanper, Ilan Volkov & the Icelandic Symphony Orchestra) viaggiando con millimetrica precisione all’interno di teorie contemporanee.
Un folto gruppo di compagni d’avventura torna ad animare
anche la nuova fatica, opera in quattro atti dall’incedere avant jazz distesa
su un unico tempo che ne mantiene salda la pervicace consequenzialità: un
movimento costante e intelligentemente sostenuto da cambiamenti di intensità e
variazioni grandangolari a oliarne lo scorrimento. A dare l’avvio, la sei corde
di Ambarchi, che stratifica una fitta ragnatela di note cristalline e armonici
componendo un denso quadro di armonie nevrotiche. Una sommatoria che si
sviluppa con tutto il tempo necessario fino all’ingresso del batterista
australiano Joe Talia a disegnarne lo scheletro ritmico con sincopi jazzate.
La seconda parte regola morbide implosioni funk fusion
esaltate dalla steel guitar di B.J. Cole e con Sam Dunscombe a incresparle di
dissonanze di clarinetto basso, mentre leggeri impulsi elettronici dirigono il
suono dentro teorie circolari à la Necks. Più di un’evocazione, visto che nella
terza parte è proprio Chris Abrahams dell’avant trio australiano a incentivare
l’ipnosi con i suoi austeri ed eleganti fraseggi di pianoforte; Johan Berthling
(già con il Nostro nel recente Ghosted) sostiene con bassi dub, e i tagli di
synth di O’Rourke si ergono sotto la linea dell’orizzonte. L’ultima parte
accoglie la 12 corde di Julia Reidy a scarnificare il suono con puntellature
squillanti, l’umore essiccato gradatamente riprende il passo spingendo la stasi
al suo apice. La tensione declina rapidamente in dispersioni sintetiche, ciò
che doveva esser detto è stato detto e con classe.
Pubblicato su sentireascoltare.com di Massimo Onza, 23/10/22
THE FABELMANS (2022) di Steven Spielberg
Samuel Fabelman è il primogenito di Burt e Mitzi, nonché
fratello maggiore di Reggie, Natalie, e Lisa. Quando ha sei anni i genitori lo
portano al cinema per la prima volta, e lo spettacolo di un incidente
ferroviario gli si installa nella mente, terrorizzandolo. Come riprodurre
quella paura, per far sì che cessi? In soccorso arriva la cinepresa amatoriale
di famiglia…
“Where’s the horizon?”, chiede con fare burbero e ben poco
condiscendente John Ford a un ragazzo che gli si pianta davanti nel suo
ufficio. Perché l’orizzonte non è solo un punto, ma è una prospettiva, il senso
di un perché cinematografico, e dunque di un perché della e nella vita. Ma su
questo punto occorrerà tornare più tardi. Tutti conoscono il termine
imprinting, anche se in pochi probabilmente sanno che il suo utilizzo derivò
solo dalla necessità di tradurre in inglese i testi originali dell’etologo Konrad
Lorenz, che parlava di Prägung: praticamente tutti i vertebrati presentano
all’inizio della loro esistenza delle forme di imprinting, vale a dire
l’apprendimento per esposizione, la capacità di un neonato di emulare il
comportamento di un adulto in modo da comprendere istintivamente l’incombere di
un pericolo. Quando Lorenz dà alle stampe il suo volume fondamentale, vale a
dire L’anello di re Salomone (Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den
Fischen, letteralmente “Parlò al bestiame, agli uccelli, e ai pesci”) è il 1949
e il cinematografo ha da poco festeggiato il mezzo secolo di vita. L’intero
Novecento, infatti, ha sviluppato il suo imprinting nei confronti del cinema,
perché la settima arte è l’arte per eccellenza del Ventesimo secolo. E quell’imprinting
passa per le rotaie di un treno: è un treno quello che arriva alla stazione di
La Ciotat nel 1895, a quanto si dice terrorizzando gli spettatori alla prima
proiezione pubblica – restando in tema fordiano si sa che tra realtà e leggenda
è quest’ultima a prevalere –, ed è un treno anche quello attorno al quale ruota
The Great Train Robbery di Edwin S. Porter, che nel 1903 diventa il primo
western iconograficamente compiuto e quindi di fatto il progenitore dell’intera
industria hollywoodiana. Anche lo stupore negli occhi del seienne Sam Fabelman
di fronte alla sua prima sortita in una sala cinematografica passa per le
rotaie di un treno: è lì che si raggiunge l’acme ne Il più grande spettacolo
del mondo di Cecil B. DeMille, con lo scontro terrificante tra due convogli.
Eccolo l’imprinting di Samuel Fabelman, un incidente ferroviario che tutto
distrugge, e che appare credibile, vero al di là di qualsiasi finzione.
È notorio come il film di DeMille abbia segnato in profondità il piccolo Steven Spielberg che in seguito a quella visione iniziò a girare filmini amatoriali in casa, utilizzando la cinepresa super-8 di famiglia, ed è quindi inevitabile per lo spettatore che si avvicina a The Fabelmans vedere nel piccolo Sammy un alter ego del regista. Dopotutto gli elementi della trama che collimano con la biografia di Spielberg non sono pochi: la famiglia ebraica di origine russo-ucraina (cantano davanti al fuoco, durante un campeggio, Kalinka di Ivan Petrovič Larionov) composta oltre che dai genitori e da Sam anche da tre sorelle minori; il lavoro del padre, ingegnere elettronico, e della madre, pianista che ha abbandonato la carriera musicale per la famiglia; lo spostamento di città in città per seguire la professione paterna, che dal New Jersey porterà i Fabelman in Arizona e quindi in California; il bullismo subito al liceo, in gran parte causato dall’antisemitismo, che il regista ha raccontato in varie interviste, perfino in Italia al Corriere della Sera in occasione della proiezione veneziana di The Terminal nel 2004 («Avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano “sporco ebreo”»). È evidente che The Fabelman racchiuda al proprio interno molti elementi autobiografici, e non è certo un caso che il regista torni a firmare una sceneggiatura – a cui ha lavorato con Tony Kushner: è la quarta collaborazione tra i due dopo Munich, Lincoln, e West Side Story – a oltre venti anni di distanza da A.I. – Intelligenza Artificiale e addirittura quarantacinque anni dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Dopotutto se si esclude il côté fantascientifico degli altri due film tutti e tre condividono una riflessione amara sulla famiglia, sull’inevitabile disgregarsi degli affetti, e sull’imprinting, l’ossessione che guida i protagonisti. L’imprinting di Richard Dreyfuss è l’immagine della Torre del Diavolo in Wyoming; quello di Haley Joel Osment è la madre, la prima cosa che ha visto aprendo gli occhi; quello, infine, di Sam Fabelman è il cinema.
Ma sarebbe riduttivo, oltre che poco “preciso”, considerare
The Fabelman un film cinefilo. Non lo è, nonostante inizi in una sala
cinematografica e poi si sviluppi anche attraverso il cinema – si pensi alla
sequenza di L’uomo che uccise Liberty Valance. E non è neanche un film sulla
cinefilia, e sul perché un ragazzino della classe media del New Jersey dovrebbe
decidere di diventare regista: il giovane Sam non ha nulla a che spartire con
Dawson Leery, tra i protagonisti del serial Dawson’s Creek quello che voleva
diventare a tutti i costi regista e da amante indefesso di Spielberg passava le
ore nella sua cameretta a passare al setaccio i suoi film per scoprire le gemme
preziose più nascoste. No, Sam ama il cinema, ma quello di Spielberg non è il
romanzo di formazione di un giovane cinefilo. Non è neanche importante capire
se da grande diventerà davvero un regista questo gracile ebreo che partecipa
alla vita degli scout e vorrebbe le luminarie di Natale a dare calore alla casa
invece della singola candela che ogni giorno viene accesa per festeggiare
Hannukkah. Ancora sconvolto dalla visione de Il più grande spettacolo del
mondo, che lo ha profondamente turbato, Sam chiede per regalo per le festività
un trenino elettrico, che il padre ingegnere è ben felice di acquistare. Il
trenino si muove sulla rotaia in modo perfetto, eppure non basta a Sam. In
realtà non è ciò che voleva. Poi d’improvviso comprende: lui non voleva il
trenino, ma la possibilità di replicare quell’incidente trionfale e
catastrofico mille volte, e dunque crea un incidente e lo riprende in super-8.
Solo attraverso l’immagine in movimento – motion picture, come gli spiega il
padre prima di entrare per esordire alla visione sul grande schermo – si può
esorcizzare la propria paura più profonda, solo ricorrendo al cinema si può
davvero tentare un’analisi di sé, e del mondo circostante. Questa esperienza
sarà il vero leit motiv di The Fabelmans, insieme alla crisi coniugale tra i
genitori (eccellenti Paul Dano e Michelle Williams, come del resto tutto il
cast a partire dal diciannovenne Gabriel LaBelle che interpreta Sam). Anzi,
sarà proprio attraverso lo studio di una pellicola in moviola che il ragazzo si
renderà conto che non tutto fila liscio tra i genitori.
È quella appena citata una delle tre sequenze chiave che
Spielberg costruisce per far comprendere appieno il senso che lui stesso in
primis dà al cinema, e al concetto di crescita. Dopo il succitato campeggio e
l’improvvisa morte della nonna, la madre di sua madre, Sam viene spinto dal
padre a montare le riprese fatte tra la tenda e il falò in modo da alleggerire
lo stato d’animo della moglie: mentre si trova in moviola, però, rivedendo
tutto il materiale girato, Sam comprende che c’è un non detto che si agita
all’interno della sua famiglia, e del quale lui non si era mai reso conto. Tale
disvelamento, che è negli occhi di Sam come in quelli dello spettatore, avviene
mentre la madre sta suonando Bach al pianoforte, e il padre la ascolta assorto,
quasi rapito. Non c’è nessun dialogo, non c’è bisogno di nessuna parola per
articolare un concetto: basta l’immagine, e il suo peso (im)materiale. D’altro
canto era stato pochi giorni prima il prozio Boris, fratello della nonna
defunta (che aveva lavorato nell’industria cinematografica all’epoca del muto,
in particolar modo sul set de La capanna dello zio Tom per la regia di Harry A.
Pollard) a pregarlo di smetterla di parlare per raccontargli lo storyboard che
aveva approntato, visto che bastano le immagini. Oltre a questa e a quella già
descritta del trenino ripreso per riprodurre l’incidente visto nel film di
DeMille, c’è una terza sequenza particolarmente significativa. È il ballo di
fine anno nel liceo che frequenta nel nord della California, e Sam vi si reca
con la sua fidanzatina Monica – una invasata cristiana, che ha disseminato la
sua camera con poster raffiguranti Gesù –, anche perché verrà mostrato
all’intera scuola il filmino in 16mm che ha diretto durante una gita collettiva
al mare. Il breve film è un grande successo, ma scatena la crisi di Logan, uno
dei bulli che nel corso dell’anno ha perseguitato Sam insultandolo per via
delle sue origini: nonostante questi screzi, infatti, Sam nel suo film lo ha
descritto per le sue doti migliori, quelle atletiche. Esiste dunque una
distanza quando ci si pone dietro la macchina da presa, e Sam l’ha imparata suo
malgrado, in modo quasi istintivo, quello stesso istinto che all’epoca del
filmino The Last Gun – diretto a tredici anni: questo, come anche il corto di
guerra Escape to Nowhere diretto a quindici anni sono altri due riferimenti
diretti alla vera biografia di Spielberg – gli fece bucare con uno spillo la
pellicola per fingere il colpo sparato dalla pistola. Dunque il cinema non è un
sollazzo, un modo per giocare con i film degli altri, ma un vero e proprio
addestramento alla vita, il modo per una persona timida di comprendere meglio
se stesso, e gli altri.
“Were’s the Horizon?”, si torna al quesito di John Ford, che
com’è noto da mesi Spielberg affida alle cure di un suo coetaneo collega, David
Lynch. “When the horizon is at
the top, it’s interesting,”, continua Ford, “when it’s on the bottom, it’s
interesting. When it’s in the middle, it’s fucking boring!”; sta dunque
a Sam comprendere dove si trovi la linea dell’orizzonte, e in che modo può
essere giusto riprenderla, osservarla, mostrarla agli altri. In qualche misura
The Fabelmans è il racconto di questo, del tentativo di guardare senza paura
l’orizzonte e accettarlo, affrontarlo, superando la wilderness dell’esistenza.
Spielberg, che non disdegna qualche piccolo omaggio affettuoso agli amici di
sempre – il ballo di fine anno rimanda inevitabilmente sia ad American Graffiti
di George Lucas che a Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, tanto per fare un
esempio –, affronta la magnifica, dolorosa, e in realtà normalissima
adolescenza del suo alter ego con uno sguardo sempre partecipe, mai retorico
neanche nei momenti apparentemente più didascalici (lo dimostra la crisi
personale che la madre pensa di risolvere portando in casa una scimmietta, un
cebo cappuccino come quello messo in scena appena cinque anni fa da Lynch nel
surreale cortometraggio What Did Jack Do?), e intriso di una melanconica
dolcezza struggente. La dolcezza che si respirava anche nella rivisitazione del
musical già portato in scena al cinema da Robert Wise e Jerome Robbins, e che
altro non è se non la constatazione della fine dei tempi, della morte di quel
cinema e di quel mondo (il mondo in cui è vissuto lui, che è anche quello di Lynch
e conteneva ancora i tempi di Ford, e magari perfino del muto), e del
dissolversi perfino delle memorie. Questa melanconia viene smussata da
un’ironia feroce, contagiosa, che trova anche battute spiazzanti (quando una
compagna di scuola gli chieda come faccia a vivere senza Gesù nel cuore Sam
risponde “Ci riusciamo da oltre cinquemila anni, si vede che si può fare”) e
che rende The Fabelmans la prima commedia spielbergiana dai tempi di The
Terminal, diciotto anni fa. Ma forse più di ogni altra cosa The Fabelmans è lo
studio, la rappresentazione, e la testimonianza più fertile di un dettaglio che
ha sempre reso unico l’approccio alla regia di Spielberg, fin dai primissimi
film, vale a dire la capacità di rendere il senso di meraviglia dei suoi
protagonisti. Non c’è bisogno di alcun controcampo quando l’effetto di ciò che
è fuori scena lo si può leggere senza errori o indugi già sul volto del
personaggio che sta assistendo a quel che accade. L’apparizione di E.T. è già
negli occhi di Elliot, così come i diplodochi si vedono già nello sguardo di
Ellie Sattler. Non è importante quel che sta davvero proiettando il fascio di
luce se si può scoprire quella verità già con il primo piano di Michelle
Williams; The Fabelmans ne è letteralmente disseminato, quasi si trattasse di
una rivendicazione poetica in piena regola. Gli uomini giganti sul grande
schermo sono lì a fare quello che il montaggio ha deciso facciano, ma Spielberg
si concentra sul primissimo piano di Sam a sei anni, sprofondato nella
poltroncina tra mamma e papà, gli affetti che però non sono l’imprinting, non
sono la crescita, non sono l’evoluzione. Un film sincero, tragico, struggente,
spietato, che lascia a bocca aperta: potere del senso di meraviglia.
Pubblicato su quinlan.it il 10/20/2022
di Raffaele Meale
Prima delle biciclette di E.T. ci sono stati i carrelli
della spesa che si muovevano in mezzo la strada sotto il tornado in The
Fabelmans. Perché si, in qualunque momento ci si può alzare da terra e volare.
Proprio come uno dei ragazzi che ha bullizzato Sammy nella scuola della
California ma nel film che il protagonista ha fatto per il Ditch Day del 1964,
lo ha reso una specie di angelo. Il cinema può cambiare sempre le cose. Può
essere una cinepresa amatoriale o un Arriflex 16 mm. Non importa. The Fabelmans
sottolinea che è sempre un fotogramma che fa la differenza. Proprio come uno
rivelatore della sua famiglia che farà saltare tutti gli equilibri. Da una sola
immagine possono partire tante storie che non sono state mai viste, oppure
erano nascoste. “Dov’è l’orizzonte?”. Per Sammy ci sarà proprio un incontro
fondamentale che diventerà decisivo nella costruzione dell’immagine
cinematografica come regista. Bisogna sempre guardare dov’è l’orizzonte.
“Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è
interessante. Quando è al centro, è una palla mortale”.
Si potrebbe riavvolgere tutto The Fabelmans all’indietro. Anzi,
ripercorrere la filmografia di Spielberg da oggi agli inizi per cercare dove
sta l’orizzonte. Scritto da Spielberg con Tony Kushner, il film ha come
protagonista Sammy e la sua famiglia di cui fanno parte il padre Burt (Paul
Dano), la madre Mitzi (Michelle Williams), le sorelle. Con loro c’è poi sempre
lo zio Bennie (Seth Rogen), migliore amico del padre che è ormai diventato uno
di famiglia. I Fabelmans si trasferiscono dal New Jersey prima in Arizona e poi
in California, dopo che Burt ha avuto una promozione sul lavoro. In
un’atmosfera apparentemente serena c’è proprio quel dettaglio rubato dalla
cinepresa di Sammy, che all’epoca aveva circa 16 anni, che fa saltare tutti gli
equilibri.
In The Fabelmans c’è tutta la magia, la paura e la
spietatezza del cinema. La cinepresa cattura dettagli che l’occhio umano non
vede. Inoltre non è il solo, appassionante, viaggio nostalgico: i film della
vita, i registi fondamentali per la formazione. O almeno non solo. Certo, ci
sono due passaggi fondamentali: Il più grande spettacolo del mondo (1952) e
L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Cecil B. De Mille e John Ford. Sono
questi i modelli da imitare nella testa di Sammy. Del primo rimarrà impresso lo
scontro tra l’auto dei delinquenti e il treno del circo che per il protagonista
diventerà un’ossessione e cercherà di rifarlo più volte prima con i modellini
del trenino e poi ripreso da una piccola cinepresa su consiglio della madre. Il
secondo rappresenta l’ipnosi. Sammy è in sala con i suoi amici che fanno
casino. Lui si sposta in avanti e, in seguito ricrea un set per rifare, anche
lui, un western.
Il film della sua famiglia è il (suo) film della vita. È
coming of age, commedia familiare, melodramma, viaggio nel mondo dei sogni. Il
set si può accendere in ogni momento: i fari della macchina che illuminano
Mitzi che balla con un vestito trasparente. Bisognerebbe rivedere questa
immagine davanti, per esempio, ad Always. Per sempre. Perché fa capire come c’è
qualcosa che va oltre la sceneggiatura di ferro, l’inquadratura perfetta, un
cast da urlo. Non è qualcosa che si può spiegare razionalmente. Certo, è
l’istinto ma non basta. È qualcosa di soprannaturale, di divino. Il cinema di
Spielberg vola anche quando resta a terra. Succede anche nelle scene più
comiche con i dialoghi su Gesù con la ragazza che è stata la prima cotta per
Sammy. La scena nella camera da letto di lei e del ballo scolastico, in
pochissimo tempo, già raccontano un solo, intero, film.
L’autobiografia non è fatto soltanto di episodi. Dentro The
Fabelmans ci sono tanti Effetto notte: il film di guerra Escape to Nowhere
girato da Sammy dove c’è il soldato che piange mentre tutti i suoi uomini sono
a terra; l’intuizione della pellicola perforata con le puntine ispirato al
foglio dello spartito musicale bucato dal tacco della madre. Ci sono tanti
buchi, fessure, da dove si può guardare tutto. A 76 anni lo stupore e la
meraviglia di Spielberg sono ancora
intatti. Sono sempre quelli del suo miglior cinema. Ma The Fabelmans va oltre.
Diventa una confessione struggente vista non solo attraverso gli occhi di
Sammy, ma con quelli di Sammy e la sua cinepresa. E Spielberg ritrova se stesso
adolescente attraverso il volto e l’incredibile performance di Gabriel LaBelle.
Cambia tutto. È anche una lezione di cinema assoluta. Finalmente non c’è più
bisogno di tirare in ballo 8 1/2 quando si parla di un film sul cinema. Negli
anni Dieci film ha fatto film fondamentali: Lincoln, The Post, West Side Story.
The Fabelmans è quello che li raccoglie tutti, anche i precedenti. C’è
l’immaginario backstage. C’è il senso del ritmo. C’è la ricerca della
dimensione spettacolare e quella invece più privata e intima. Si può vedere
anche soltanto in un’inquadratura. Gli occhi spaventati di Sammy mentre guarda
al cinema lo scontro tra il treno e la macchina. Si, il cinema è “il più grande spettacolo del mondo”. Sono
pochissimi i film della storia del cinema che finiscono troppo presto anche se
durano 151 minuti. The Fabelmans è uno di questi.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 20/10/22 di Simone
Emiliani
The Fabelmans è l’ultima creatura cinematografica di Steven Spielberg, un nome gigantesco che, ancora una volta, con questo film, ha saputo brillare e stupire, aprendosi al pubblico nel modo più sincero ed intimo possibile. La pellicola è stata inizialmente proiettata al Toronto International Film Festival, dove ha conquistato il People’s Choice Award, ed è stata presentata in anteprima nazionale alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma in collaborazione con Alice nella Città. Il titolo sarà nelle sale italiane dal 22 dicembre 2022 grazie a 01Distribution.
The Fabelmans ha una dote davvero rara, che ultimamente non
è per nulla semplice rintracciare nelle varie opere che affollano il grande e
piccolo schermo: la profonda empatia. Dal primo momento in cui vediamo Sammy
Fabelman (Gabriel LaBelle da ragazzo), la sua storia diventa automaticamente la
nostra, perché il cinema, per quanto possa essere una passione per moltissimi,
un’ossessione per alcuni, un lavoro per visionari e sognatori, ha incrociato la
strada di tutti, nel bene e nel male. Vedere la propria esperienza di vita
riflessa in uno specchio può provocare turbamento, forti emozioni, ma parla con
chiarezza alla nostra interiorità e ci fa innamorare ancora una volta del
Cinema.
The Fabelmans ha un obiettivo ben preciso e puntuale, che
viene perseguito per l’intera durata del lungometraggio: raccontare una
passione, ovviamente nel caso di Spielberg è l’arte di fare film, ma il suo
discorso è talmente tanto complesso e ricco di sfumature da potersi applicare
più generalmente alle nostre ambizioni e desideri più ardenti. L’approccio del
giovane protagonista al Cinema è una lezione di vita profonda, priva di ogni
orpello motivazionale o di una retorica spicciola, il suo ardore e la sua
insana ostinazione diventano quello degli spettatori. Da quella prima volta in
sala, nel 1952, a vedere Il più grande spettacolo del mondo, all’inizio della
sua carriera nella parte conclusiva della pellicola, il cineasta riesce a non mollare
mai la presa sul pubblico.
Ci riesce non solo perché la storia che racconta è
ovviamente sincera e vera, perché è effettivamente la sua anche se nascosta da
degli pseudonimi, ma anche perché descrive la sua passione con tutte le
sfumature possibili ed il miracolo si verifica quando arriva a condensare, in
circa 2 ore 30 di girato, tutti i successi e le sconfitte, la gloria e il
trionfo, i fallimenti e gli ostacoli del suo viaggio emotivo e artistico che
poi convoglia nel suo lavoro da regista. “Il cinema è solo un hobby”, è
“un’arte che ti spezza in due”, è un mondo salvifico, ma anche pericoloso:
tutte parole che non ci risultano nuove, specialmente se almeno una volta nella
vita abbiamo trovato qualcosa che ci smuove l’animo da dentro.
Per raggiungere questa particolare connessione con gli
spettatori, in The Fabelmans la regia di Spielberg è in continua trasformazione
ed evoluzione: rappresentativo in tal senso è il cammino registico che fa
proprio Sammy, che viene mostrato dall’inizio alla fine dal suo punto di vista,
cominciando con una semplice scena dove un treno si schianta contro una
macchina, arrivando poi a sequenze più complesse e ricche di comparse,
soluzioni ardite, inquadrature inaspettate. Il nostro sguardo, di conseguenza,
guarda avanti e dietro la cinepresa, osserva il risultato finale, ma anche la
preparazione che c’è dietro. Non c’è probabilmente modo migliore per incarnare
il vero significato del Cinema, perché si unisce emozione, tecnica,
artigianalità e rigore.
Ed è lì che avviene lo stupore e la magia, proprio nel
momento in cui, parallelamente, il film-maker ci parla da un lato della sua
inesauribile forza d’animo che ripone nella sua arte preferita nonostante i
continui conflitti interni ed esterni che coinvolgono in particolare la sua
famiglia; dall’altro, con la macchina da presa, ci pone davanti alla sua
visione e ci fa crescere con lui, ci ispira, seduce, ma anche allontana. Ma
incredibilmente, il film riesce a non essere solo questo, perché la regia non
solo riproduce una passione in maniera millimetrica ed emotiva, ma sceglie
anche di rappresentare il Cinema dall’altra parte della barricata, dalla
prospettiva degli spettatori.
In The Fabelmans, infatti, l’occhio di Spielberg si
concentra profondamente sulle risposte emotive dei vari personaggi alle opere
di Sammy ed è curioso notare come ognuna di loro è diversa, proprio come sono
differenti le opinioni di ognuno di noi di fronte ad un particolare film,
nessuna è replicabile ed è questo uno degli elementi più affascinanti della
settima arte. Se uniamo quindi la sua esperienza sul campo alle reazioni
effettive degli altri, arriviamo diretti ad un’universalità che riesce a
ricoprire a tutto tondo l’esperienza cinematografica.
Questa avventura totalizzante è resa ancora più evidente da
un copione, redatto dallo stesso regista in compagnia di Tony Kushner, che
racchiude, probabilmente, tutte le variabili emotive dell’essere umano senza
però rinunciare ad una divisione a tappe chirurgica e perfetta, quasi
rappresentando l’esigenza di un controllo nel processo artistico. In essa
confluiscono il dramma familiare che tra l’altro ha un ruolo fondante
all’interno della trama ad una comicità genuina e spontanea. Il tutto tenuto
legato da un esistenzialismo brillante, che emerge in alcuni passaggi narrativi
chiave del film, tra i quali spicca, in particolare, l’incontro con John Ford,
un momento catartico che riesce a racchiudere in pochi minuti l’intero significato
della realizzazione.
Parlando degli interpreti del film, si avverte una
familiarità impressionante (dimostrando una ricerca notevole da parte del
casting), seguita poi da una certezza: il talento smisurato per ogni singolo
attore coinvolto all’interno del progetto. Inevitabilmente, però, c’è sempre
chi ruba la scena e in questo caso non abbiamo dubbi nel definire Michelle
Williams il vero astro splendente, una figura cardine per la vita del
protagonista che è stata riportata alla luce con sentimento e delicatezza. Non
possiamo inoltre dimenticarci di quel David Lynch che torna sul grande schermo
con una parte profetica e metacinematografica, un attestato di stima artistica
che non passa inosservata. E silenzioso, in un angolo, in modo composto,
elegante e servile, c’è anche John Williams e la sua musica, un impronta
fondamentale e indispensabile per la riuscita del lungometraggio.
The Fabelmans è un lungometraggio che ti rimane dentro, che
brucia con un’intensità strabiliante ed esplosiva, che ci tiene in piedi,
incollati allo schermo ad osservare l’epopea umana, ma eccezionale di un
regista che ha votato l’intera vita alla sua passione. Grazie al potere
narrativo e immaginifico del cinema, quella sua ossessione così ostinata
diventa la nostra, una storia che non può passare in sordina perché la regia ci
tiene per mano, mostrandoci la sua arte in profondità su più livelli
interpretativi. Anche la sceneggiatura è immersiva e profonda nella sua
costruzione e contenuto, rappresentando diverse sfumature emotive, ma
mantenendo una linea ordinata e puntuale. Il sogno diventa vero e tangibile,
infine, grazie anche alle essenziali note di Williams e lo smisurato talento
degli attori: degli elementi fin troppo importanti che ci legano ancora più
alla fiaba cinematografica di Steven Spielberg.
Pubblicato su cinematographe.it il 20/10/22 di Massimiliano Meucci
lunedì 29 agosto 2022
NOPE di Jordan Peele (2022)
1998. Sul set della
sitcom Gordy’s Home, lo scimpanzé protagonista attacca e uccide quasi tutti i
membri del cast. Solo l’attore più giovane, Ricky “Jupe” Park, rimane illeso.
Tornato tranquillo, mentre sta tendendo amichevolmente la zampa a Ricky, lo scimpanzé
viene abbattuto dai colpi della polizia. Oggi: dopo la morte del padre, i figli
OJ e Em Haywood cercano di tenere a galla l’attività del ranch, un allevamento
di cavalli addestrati per lavorare nel mondo dello spettacolo…
Si muove su più piani Nope, blockbuster dichiaratamente
estivo, eppure dall’evidente connotazione autoriale. Direzioni apparentemente
opposte, persino inconciliabili, come ad esempio capita (quasi sempre) anche
all’accostamento tra fantascienza e western, stimolante più sulla carta che
nella pratica. Insomma, guarda verso l’alto Jordan Peele, con una
consapevolezza davvero sorprendente: novello Icaro dell’arthouse horror, il
regista, sceneggiatore e produttore statunitense sembra saper prendere dei
rischi calcolati al millimetro, giusto un alito di vento prima del precipizio.
Si pensi, ad esempio, a tutta la prima parte, che regala un sussulto iniziale
per poi dipanarsi soprattutto tra parole e caratterizzazione psicologica: un
rischio abnorme per una pellicola (già, proprio pellicola) che punta al box
office. In questo senso, però, Peele può contare sulla pazienza spettatoriale,
dilatata dai successi di Get Out e Us. Insomma, la platea sa che vale la pena
aspettare…
Fantascienza e western, si è detto. Peele pesca a piene mani
dalla storia del cinema, persino da prima. A suo modo, Nope è un nipotino
sagace de Lo squalo e di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ne recupera la
spettacolarità ma anche la teoria, il gusto per la narrazione e l’utilizzo
parco degli effetti speciali, con la tensione nutrita anche (e soprattutto) dal
fuori campo. Nope è spielberghiano, è shyamalaiano, ma non basta. In linea con
l’afflato politico di Get Out e Us, Peele scava fino ai prodromi della Settima
Arte, e mette il grande pubblico di fronte a Sallie Gardner at a Gallop, aka
The Horse in Motion, di Eadweard Muybridge: siamo nel 1878 e questo esperimento
fotografico su un cavallo a galoppo rappresenta uno dei primi passi del cinema.
Ma ancora non basta. Peele attira la nostra attenzione su quello che stiamo
vedendo, un cavallo e un fantino, sui nomi che si sono tramandati (il regista,
il cavallo), e sulle sabbie del tempo che hanno sepolto l’identità del
misconosciuto cavallerizzo. Afroamericano, ovviamente. Dal 1878 al 1998 il
passo non sembra breve, e nemmeno il contesto: con una serie di flashback che
via via ci svelano tutto l’accaduto, Peele ci mette di fronte a un altro
paradigma del mondo dello spettacolo, la singolare serie televisiva Gordy’s
Home e lo scimpanzé protagonista. Lo sfruttamento dello showbiz nelle sue varie
forme.
Con una mirabile serie di rovesciamenti di prospettiva, Peele
costruisce pezzo dopo pezzo un film-mostro: infatti, Nope si nutre esattamente
di quello che mette in scena, senza mascherare le proprie responsabilità. Gioca
col fuoco Peele e gioca con le stesse regole del vero mostro gargantuesco, la
società dello spettacolo. Armato inizialmente di un disco volante che avrebbe
inorgoglito Ed Wood, Peele sembra essere cresciuto a pane, Spielberg e Debord,
senza dimenticare altri maestri (tra i tanti, Carpenter) e altre bandiere –
l’anima western di Nope deve molto anche a Non predicare… spara! (Buck and the
Preacher, 1972) di Sidney Poitier, tra le pietre angolari dell’immaginario
cinefilo e politico di Peele.
Deciso a domare il mostro, o quantomeno a non farsi divorare
(sarebbe interessante, in questo senso, poter sondare la scelta di un
personaggio di origine asiatica come Jupe), Peele agisce dall’interno e modella
a proprio piacimento alcuni fatti reali. Se la storia di The Horse in Motion è
comprensibilmente potenziata per agganciarsi al film e a determinate considerazioni
socio-politiche, è il flashback di Gordy’s Home a tracciare i confini
(im)morali di Nope: non è infatti difficile risalire al reale e tragico
incidente dello scimpanzé Travis e alla sventurata sorte di Charla Nash,
massacrata e sfigurata come la giovane attrice della fittizia sitcom Mary Jo
Elliott. Conscio dei pericoli e delle contraddizioni dello sguardo, del
semplice atto di guardare e del più complesso atto di mettere in scena, Peele
pone l’accento sulla responsabilità individuale, sulla consapevolezza, sulla
capacità di rapportarsi alla realtà e alla realtà filtrata\alterata\tradita
dalle immagini. Non a caso, Nope è anche un manifesto tecnico-teorico, un
compendio delle possibilità passate e attuali, dagli strumenti rudimentali (non
solo Muybridge…) all’IMAX. Dal cinema ai video amatoriali, dalla pellicola al
digitale, nuovamente alla pellicola. Banalmente, oggi come ieri, è la
consapevolezza a guidarci tra la selva delle immagini.
Grazie anche al cristallino talento del direttore della
fotografia Hoyte van Hoytema (Lasciami entrare, Interstellar, Dunkirk, Ad
Astra), alle performance di Daniel Kaluuya (OJ) e Keke Palmer (Em), Nope è un
notevole oggetto d’intrattenimento, un raro esempio di narrazione libera,
distante dalla frenesia e approssimazione di tanti blockbuster contemporanei.
Apparentemente senza timori, Peele mette insieme i cocci taglienti del sogno
americano, gli abissi oscuri del mondo dello spettacolo, le diseguaglianze
sociali e la disperata volontà di riscatto, la fantascienza degli anni
Cinquanta (era dai tempi di Tremors che non si respiravano così pienamente
quelle atmosfere), l’epicità del western e le sue diramazioni televisive da
quattro soldi, l’horror autoriale e Il mago di Oz, le frenesie del consumismo e
l’illusione dei verdi pascoli, il dualismo analogico\digitale e tutto quel che
segue. Nope è The Twilight Zone all’ennesima potenza. È un film d’autore. È un
blockbuster. È Jean Jacket contro Kid Sheriff. È la rivincita di Sidney Poitier
e Harry Belafonte.
Pubblicato su quinlan.it , 08/11/2022 di Enrico Azzano
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C’è un momento nell’ultimo film di Jordan Peele che riassume straordinariamente i tanti discorsi sul riciclo dei generi classici che più o meno opportunamente si fanno intorno al suo cinema. Questa volta Daniel Kaluuya scappa da una cosa aliena che lo bracca cercando di sedurre il suo sguardo; il giovane ferma la sua auto, si sporge appena dallo sportello per guardare, poi abbassa gli occhi e dice letteralmente: “Nope!“. Pensiamoci. La torrida atmosfera notturna, il furgone in una strada di campagna e l’imponente presenza aliena dall’alto fanno venire in mente una speculare sequenza di Incontri ravvicinarti del terzo tipo nella quale, però, Richard Dreyfuss si sporge fiducioso da quello stesso finestrino guardando con estatica beatitudine la nave aliena che fluttua sulla sua testa. Insomma, cos’è successo nel frattempo a Hollywood per doverci ossessivamente ricordare quant’è pericoloso guardare in alto? Don’t Look Up, appunto….
Quello di Jordan Peele si conferma un cinema di pure
superfici lentamente messe in abisso che sfrutta l’accumulo ossessivo dei
cliché visivi per far balenare infine le originarie potenze dell’immagine
cinematografica: il raccordo di sguardo e il rapporto con il fuori campo. Ma
andiamo con ordine. Dopo l’horror politico sulle latenti tensioni etniche in
era Trump (in Scappa – Get Out la perturbante ipnosi associata all’immersione
in un piccolo schermo dove guardarsi-guardare è una trovata che supera di
slancio tutte le black mirror distopiche degli ultimi anni); e ancora, dopo
l’horror siegeliano che disloca lo stesso discorso su un piano
economico-sociale (il tema del doppio e i rapporti di classe in Noi); lo step
successivo non poteva che essere il Blockbuster di matrice spielberghiana
capace di riflettere le derive attuali della società dello spettacolo. Peele,
del resto, è il produttore/regista che più di ogni altro ha ereditato le
istanze immaginarie della complessa storia dell’African American Cinema
rimediandole definitivamente nell’industria hollywoodiana e instaurando in tal
modo nuove dinamiche di potere.
Ed eccoci al punto. Nope parte dal pre-cinema e da una
“politica” riappropriazione inserita persino nel trailer del film. Peele
immagina che il fantino al galoppo in uno dei celeberrimi esperimenti
cronofotografici di Eadweard Muybridge (la serie di figure Animal Locomotion
del 1872) fosse afroamericano. Quindi, ad essere tirato in ballo non è tanto il
cinema delle origini, bensì l’invenzione di un dispositivo tecnico (lo
zooprassinoscopio) che ha fatto scattare la scintilla del
movimento-nelle-immagini ma ha ancora bisogno di esperienza e figure umane per
diventare “cinema”. Ecco perché il fantino ingiustamente cancellato dalla
storia diventa l’antenato dei protagonisti del nostro film, i fratelli Haywood,
discendenti da una famiglia di ammaestratori di animali per le Major classiche
hollywoodiane. In Nope, pertanto, la dimensione dell’immaginario popolare
diventa il correlativo oggettivo della dimensione privata dei personaggi:
l’episodio chiave dell’infanzia dei fratelli O.J. ed Emerald è legato al set de
Il Re Scorpione nel 2002 (l’alba del nuovo millennio) con la scelta autoritaria
del padre Otis di affidare al figlio il cavallo preferito della sorellina.
E adesso? L’anziano genitore (interpretato non a caso dall’icona carpenteriana Keith David) è morto improvvisamente colpito da misteriosi detriti caduti dal cielo. Proprio nei pressi di una strana nuvola in fermo-immagine che sembra uno sfondo desktop e che probabilmente nasconde alieni aggressivi pronti ad attaccare. Un fatto che scatena la reazione dei due fratelli ossessionati dalla cattura dell’immagine mancante (ancora le superfici) nel vano tentativo di lenire il dolore della perdita. Ma Emerald e O.J. non vogliono registrare semplici video amatoriali, ma vogliono l’inquadratura definitiva degli alieni (“The Oprah Shot”) che faccia impallidire decenni di fantascienza divenendo virale e risollevando in un colpo solo le sorti economiche della loro azienda. Fermiamoci qui.
Nella rassicurante confezione di un canonico Blockbuster
estivo da consumare insieme a bibite e popcorn, Nope ragiona in maniera
lucidissima sulle derive dell’attuale Social Media Entertainment e sul ruolo
del cinema nel sempre più fitto involucro mediale fagocitante che calamita i
nostri sguardi anestetizzati. E il cinema, appunto, prende una posizione netta
con i suoi scarti memoriali: innanzitutto rivendicando una primogenitura
storica nelle immagini in movimento (dalla cronofotografia alla cinepresa
manuale analogica fuori dalla “rete”) e subito dopo perseguendo un’etica della
forma che si interroghi ancora sulle responsabilità insite nell’atto del
guardare. Cosa inquadrare e cosa lasciare in fuori campo? Cosa guardare e a
cosa dire nope? Un percorso non dissimile da quello narrativamente compiuto da
O.J.: dopo la morte del padre/padrone e dopo la profonda crisi dell’azienda
Haywood/Hollywood, infatti, il ragazzo depresso tenta faticosamente di
riattivare la sua memoria emotiva per superare il trauma (alieno) riconoscendo
infine la sorella come unica protagonista della storia.
Il genere western diventa lo spazio immaginario dove tentare
questo disgelo emotivo. Il cielo inglobante in campo lunghissimo riattiva
l’iconografia e l’epica del “cinema americano per eccellenza” dispiegando
un’ambiziosissima dialettica tra il thriller metafisico di Hitchcock e l’horror
moderno di Carpenter, la sci-fi filosofica di Kubrick e il disaster movie
fracassone di Roland Emmerich, il metacinema riflessivo di De Palma e il
blockbuster intimista di Lucas/Spielberg. Ci risiamo: Jordan Peele è sin troppo
ambizioso? I suoi film sono troppo costruiti e peccano di uno strategico
didascalismo (vi ricordate le critiche sollevate al pittore di Candyman)?
Forse… ma non è questo il punto. Perché il film cerca cocciutamente un
referente emotivo dietro ogni immagine riciclata aprendosi a nuove possibili
interpretazioni politiche (lo scioccante episodio della scimmia Gordy e del
bambino prodigio delle sitcom divenuto un ambiguo imprenditore del suo trauma),
teoriche (l’alieno torna a essere un significante puro, un occhio caldo del
cielo che ci sfida a ragionare), culturali (le invisibili maestranze
afroamericane che hanno fatto la storia di Hollywood elette a protagoniste di
un blockbuster mainstream) e sentimentali (la lenta elaborazione del lutto dei
due fratelli resta la “cosa” più forte e commovente), salvaguardando nel
contempo le regole auree del cinema di intrattenimento.
Insomma, piacciano o meno, le inquadrature di Jordan Peele
non sono mai pacificate. Perché pur partendo da presupposti differenti Scappa,
Noi e Nope attivano un simile percorso di spoliazione del visibile tendendo a
un campo-controcampo finale che condensi magnificamente la nostra esperienza
estetica. I see you: da Cameron a Spielberg, da Shyamalan a Gray, passando per
D. R. Mitchell e Jordan Peele, molto cinema americano del XXI secolo sta
tentando di opporre una riflessione critica sul nostro rapporto con le immagini
invitandoci a una sacrosanta ecologia dello sguardo. Il vecchio e malandato
grande schermo ha ancora molte cose da dirci sul nostro presente.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 10 Agosto 2022 di Pietro
Masciullo
mercoledì 3 agosto 2022
Irma Vep di Olivier Assayas (2022 - miniserie)
Per fortuna Olivier Assayas continua a essere uno dei più
grandi registi contemporanei. E, a differenza di molti “maestri” di oggi, non
ha paura ad esempio di filmare esseri umani che usano lo smartphone. O di
raccontare personaggi del mondo dello spettacolo che preparano una scena e
rivedono una sequenza del 1916 su un supporto digitale del 2022. Conta il
contenuto, non il contenitore sembra volerci raccontare lucidamente il cineasta
francese, qui alle prese con una complessa, ambiziosa, serie televisiva di otto
puntate prodotte da HBO e ispirate al film da lui diretto nel 1996.
Siamo a Parigi e l’astro nascente di Hollywood Mira (Alicia
Vikander, perfetta e coraggiosa sia da interprete sia da produttrice
esecutiva), nel pieno della promozione di un film di supereroi, accompagnata
dalla sua giovane assistente, inizia le riprese di una serie televisiva remake
di Les Vampires, il capolavoro muto di Louis Feuillade che di fatto diede
inizio nel 1915 alla narrazione cinematografica a episodi e a Irma Vep, la
prima grande eroina femminile del grande schermo. A dirigere c’è René Vidal (Vincent
Macaigne, qui vero e proprio alter ego di Assayas, molto più del Jean-Pierre
Léaud del “primo” Irma Vep), un regista di nicchia che lotta contro il suo
esaurimento nervoso e i fantasmi del film che molto tempo prima ha girato sullo
stesso argomento. Un film che lo fece innamorare dell’ex-moglie, un’attrice
hongkongese che non vede più da anni. Siamo quindi immersi nel dietro le quinte
della serie. Nel “film nel film”. Ma anche nella vita privata e nelle relazioni
umane di chi lavora nello show business. E sul set la vita non solo imita
l’arte, ne assorbe la magia e la maledizione. Così non appena indossa il
costume nero, bondage, di Irma Vep, Mira “diventa” Irma Vep. Entra ed esce
dallo schermo, dalle stanze d’albergo. Attraversa la notte.
Copie e fantasmi si inseguono continuamente. Irma Vep è
un’opera all’insegna del doppio e oltre. La serie tv del 2022 insegue il film
del ’96, lo amplifica e lo supera. Assayas rifà Feuillade e forse diventa
Feuillade. Macaigne diventa Assayas. Vikander sostituisce Maggie Cheung che a
sua volta reinventava Musidora, la prima Irma Vep. E quindi le tante versioni
femminili del personaggio si incrociano in una dissolvenza incrociata senza
fine che attraversa le epoche, i fotogrammi e gli immaginari. Poi c’è l’attore
tedesco drogato (Lars Eidenger) che vive come fosse lo spettro di Fassbinder o
di una star del rock ‘n roll. E l’assistente giovane di Mira, che rimanda alla
Kristen Stewart di Sils Maria e Personal Shopper. Connessioni, specchi che
riflettono forme, personaggi, presenze di altri film o di altri set.
Quante storie, tracce, percorsi, sovrapposizioni… Irma Vep
non è un film, né un serial. È un magnifico esorcismo. “La luce è più difficile
da raggiungere dell’oscurità” dice alla fine delle riprese Mira a René Vidal.
Tutta la serie è immersa nelle tenebre della notte e dell’inconscio. È la notte
di Parigi, mai così contemplata e “fotografata” dal cineasta francese. La notte
di Feuillade. Ma soprattutto la notte del cinema. Del cinema come lo abbiamo
sempre pensato e (forse) non può più essere. Poi, a un certo punto, quasi
inaspettatamente dopo la “tempesta”, arriva la fine delle riprese che il
regista e la musa hanno faticosamente e istericamente portato a termine. Irma
Vep finisce. La troupe sembra sciogliersi alla luce del giorno. Come i sogni.
Il set si svuota dalle presenze. I personaggi hanno volti distesi. Il cinema, o
la serialità, o quello che è, ha fatto il suo corso. La luce dopo il buio.
Bellissimo. Rispetto al referente cinematografico di venticinque anni prima,
l’opera viene conclusa. Certo Vidal vive la sua “crisi” e la delirante
ossessione per Feuillade e Musidora, ma riesce a liberarsi. Se nel
lungometraggio del ’96 il regista storyteller falliva e, da iconoclasta
underground cresciuto con il cinema sperimentale degli anni ’60 e ‘70, decideva
di graffiare il girato, stavolta l’autore scommette ancora nella narrazione.
Continua a graffiare e a elettrificare le proprie immagini, ma riesce a
“vedere” e a “raccontare”. E così anche noi spettatori “vediamo” e
intercettiamo le molecole del cinema e quelle della vita, speculari l’uno
all’altra. Come il buio e la luce. Attraversiamo e accogliamo la magia nera, la
linea onirica che unisce Feuillade, Kenneth Anger, Godard e Truffaut, e poi
torniamo a casa. Aspettando il futuro. Aspettando gli spiriti e le storie che
resistono allo scorrere del tempo.
Regia: Olivier Assayas
Interpreti: Alicia Vikander, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Antoine Reinartz, Devon Ross, Jeanne Balibar, Vincent Lacoste, Alex Descas, Lars Eidinger, Hippolyte Girardot, Pascal Greggory
Distribuzione: Sky, Now Origine: Francia, USA, 2022
Pubblicato su sentieriselvaggi.it 3 Agosto 2022 di Carlo
Valeri
martedì 24 maggio 2022
Crimes of the Future di David CRONENBERG (2022)
“Body’s Reality”. La scritta su una tv su sfondo nero sposta il cinema di Cronenberg dalla definizione – sempre parziale – di body horror a quella di ‘body beaty’. Perché Crimes of the Future è un cinema sulla bellezza che racchiude l’attrazione, la sessualità, la metamorfosi, la carne, gli organi. Anche la mostruosità diventa forma di seduzione: l’esibizione con il viso e gli occhi cuciti, il volto e il corpo in cui sono cosparse dappertutto le orecchie.
“Body’s Reality”. Si,
potrebbe ripartire tutto dalla tv, come quella via cavo di Videodrome da cui
non vengono però captati i segnali inquietanti che precipitano nell’incubo. Si
entra invece sotto la pelle di un cinema dove non ci sono solo più ‘demoni’ (?)
(la madre del bambino ucciso) ma soprattutto di divinità – unica sintesi
possibile biologica-tecnologica dove la vita la morte, l’organico e
l’inorganico sono solo tappe passeggere di un corpo che non si decompone ma
muta – possono davvero essere immortali nel cinema del regista canadese.
Crimes of the Future, un progetto pensato da più di 20 anni
subito dopo eXistenZ, è la sintesi più radicale (oggi) del cinema di
Cronenberg. La figura avvolta in un mantello di Viggo Mortensen rimanda a
fantasy/horror lontani, dalle origini del cinema a quelli del futuro. Il suo
personaggio Saul Tenser, celebre artista performer, è un incrocio tra Dracula e
la mosca cronenberghiana. L’estensione tecnologica del proprio corpo mostra
ancora come nella filmografia del cineasta la creazione e l’invenzione, Dr.
Frankenstein e il mostro, il soggetto e l’oggetto stesso della propria identità
sono la stessa cosa. Saul, nelle proprie performances, crea delle opere d’arte che
escono direttamente dal proprio corpo. Come Andy Warhol, oggi Cronenberg è
l’unico cineasta di cui si può dire che loro stessi sono la propria opera.
Warhol lo faceva fisicamente. Cronenberg si serve invece delle sue tante
identità, ancora della moltiplicazione dei suoi corpi che hanno attraversato
oltre 50 anni di cinema.
Nei suoi spettacoli Saul si fa assistere dalla sua partner,
Caprice (Lèa Seydoux), altro volto ma ideale doppio, gemella come i due Jeremy
Irons in Inseparabili. La loro attività attira Timlin (Kristen Stewart) e
Tippet (Don McKellar), investigatori del Registro Nazionali degli Organi e del
padre del bambino ucciso (Scott Speedman).
Come tutto Cronenberg anche Crimes of the Future va
assorbito, metabolizzato. Pezzo per pezzo, inquadratura per inquadratura. La
sua bellezza non è estetica ma prima di tutto fisica. Nelle cicatrici,
nell’elenco degli organi che Saul offre durante la sua performance, c’è il
limite ultimo di uno spettacolo (artistico, cinematografico, pittorico) che
prende forma sotto i nostri occhi. Il bello non esplode in tutta la sua forza
devastante mélo come in M Butterfly ma proprio nell’esibizione. Gli spettacoli
di Saul e Caprice hanno lo stesso impatto della simulazione delle corse
clandestine di Crash. Sono ancora le divinità che offrono i loro doni (del
cinema). Corpo/macchina, chirurgia/sesso. Potrebbe essere un film (quasi) muto
accompagnato soltanto dalla voce-off, proprio come il suo Crimes of the Future
del 1970, che ha lo stesso titolo di quel film ma non è un remake. Se il suo
cinema precedente è stato anticipatore, oggi Cronenberg parlaciò che siamo
diventati: la fluidità, l’abbattimento della separazione del genere, la
coesistenza con l’ambiente nella nave rovesciata dell’inizio e come sfondo
durante il film (ancora di una performance?) e soprattutto del bambino che
mangia la plastica.
È così denso Crimes of the Future, così indispensabile che dovrebbe essere visto come
l’Empire State Building di Andy Warhol. Ogni immagine fermata. Non analizzata
ma contemplata, goduta come puro piacere estetico e sensoriale, accesa nel suo
erotismo come pura estasi come in uno dei baci più belli degli ultimi anni tra
Kristen Stewart e Viggo Mortensen. La passione è solo uno stadio, la sessualità
è anche nel piacere singolo di mostrarsi. “Io sono sempre grande, è il cinema
che è diventato piccolo” diceva Norma Desmond in Viale del tramonto. Crimes of
the Future è film e corpo. Anzi più corpi, come quelli straordinari di Léa
Seydoux e Kristen Stewart che possono aveer abitato da sempre il cinema di
Cronenberg. Quindi può scendere quella scala come nel finale del film di Billy
Wilder. E restare immortale. Proprio come Crimes of the Future, che sarà uno
dei film fondamentali dei prossimi 100 anni.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it 24 Maggio 2022 di Simone
Emiliani
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Screen – Un film
intenzionale ma non sterile, inquietante ma troppo realistico per impaurire
realmente, sebbene si possa dire che tenta di fondere le paure del body horror
con i cambiamenti climatici.
Telegraph –
L’interpretazione migliore è quella di Sedoux. Ma al contrario di Crash di
Cronenberg, che sconvolse Cannes nel 1996, non c’è nulla che sconvolga in
Crimes of the Future – requisito necessario per qualsiasi vero film scandaloso
da festival.
TheWrap – Nei
momenti più memorabili, Cronenberg crea immagini visceralmente indipenditabili
che spaventano, sì, ma provocano anche con idee grandi e scioccanti su noi
stessi: la mostruosità della malattia, il forse inevitabile ibrido tra corporeo
e meccanico, la determinazione di sé.
THR – Il film
offre più misteri di quanti ne risolva. Tuttavia, le incredibili
interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux come artisti performativi le
cui tele sono gli organi interni trascineranno i curiosi al cinema.
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CRIMES OF THE FUTURE (1970)
1997. A seguito di una piaga catastrofica derivante da
prodotti cosmetici che ha ucciso l’intera popolazione di donne sessualmente
mature, il direttore della clinica dermatologica House of Skin, Adrian Tripod,
sta cercando il suo mentore, il dermatologo pazzo Antoine Rouge scomparso in
circostanze misteriose dopo aver contratto la malattia che porta il suo nome.
Nel suo vagare, Tripod incontra quel che è rimasto di un’umanità lacerata,
persone e gruppi di uomini che stanno cercando di adattarsi a un mondo
post-femminile. Si unisce a una serie di organizzazioni, fra le quali una
società di Import-Export metafisico e un misterioso Gruppo Oceanico Podologico,
fino a quando non si imbatterà in un gruppo di pedofili che tiene in braccio
una bambina di 5 anni… [sinossi]
Ogni virus ha i suoi tempi e i suoi stadi di incubazione.
Deve svilupparsi, attecchire, crescere, diffondersi, contagiare, diventare una
piaga. Ma prima ancora deve perfezionarsi, evolversi, trovare la sua forma
compiuta, procedendo per tentativi e per selezione naturale fino a vincere la
sua personale lotta per la vita. Perché un virus è un parassita che ha bisogno
delle cellule di un altro organismo per potersi riattivare, ma è al contempo
una forma vivente autonoma, con il proprio codice genetico, con la propria
capacità di riprodursi, con la propria materialità e con la propria
(nano)corporalità. Con la propria ferocia patogena, con le proprie implicazioni
fisiche, psicologiche e filosofiche, con i propri effetti sempre più
devastanti. E con, appunto, la necessità di un tempo di latenza e gestazione
prima di poter giungere alla sua definitiva maturazione e compiutezza. Un tempo
nel quale il virus sperimenta nuove forme e strategie d’attacco, un tempo nel
quale l’infezione supera difficoltà e si mette alla prova fra le difese
immunitarie da aggirare e gli antibiotici a cui imparare a sopravvivere. Un
tempo nel quale il morbo non è ancora del tutto maturo, ma già lascia
intravvedere tutto il suo potenziale ancora in fieri, tutta la veemenza che
saprà avere nelle sue successive manifestazioni, e nel frattempo si allena, si
perfeziona, mette sul piatto la propria essenza primigenia e cerca le direzioni
nelle quali spingerla.
Specialmente quando l’agente patogeno in questione è quel
virus mutaforma che scorre sotto le immagini e dentro le ossessioni di David
Cronenberg, quel virus sul quale si impernia e nel quale si identifica tutto il
suo cinema, quel virus che in un certo senso è il suo cinema, l’elemento
fondante, il linguaggio e il campo di ricerca, la forma e la sostanza, la
domanda e la risposta, l’origine e il punto di arrivo. E se il cinema di
Cronenberg è assimilabile a un virus, allora la sua opera seconda Crimes of the
future ne è l’ultimo stadio d’incubazione, è quell’ultimo gradino espressivo
che era necessario affrontare perché l’infezione potesse farsi trovare pronta a
diventare pandemia, trovando con i (pochi ma fondamentali) denari di una
produzione quella che sarà la sua prima forma compiuta ma mai definitiva ne Il
demone sotto la pelle (1975).
Perché no, al pari del precedente Stereo e a differenza dei
lavori successivi Crimes of the future, se preso da solo, non è ancora un film
pienamente compiuto e maturo. È un lavoro autoprodotto a costi risibili,
totalmente indipendente e già consapevole del talento e dell’immaginario del
suo autore, profondamente coraggioso nei suoi temi spinosi e lucidamente
intrigante ed enigmatico nell’affrontarli, orgogliosamente underground nelle
sue forme sperimentali e forte dei propri limiti, a partire dalla
trasformazione in puro linguaggio della necessità di girare ancora una volta
senza audio in presa diretta a causa del forte rumore prodotto dalla Bolex.
Eppure, fra i tanti spunti di interesse, le sequenze risultano ancora troppo
separate fra un incontro e l’altro del protagonista, mentre alla drammaturgia e
al ritmo narrativo, spesso dilatati, ancora mancava quella piena calibratura
che giungerà solo dal lavoro seguente.
È arduo provare a immaginare quale possa essere stata
l’accoglienza riservata a un UFO cinematografico come Crimes of the future nel
1970, al momento della prima presentazione. Certo, c’erano già state quelle
ossessioni cinematografiche di psico(pato)logia, solitudine, sconfitta e
apocalisse ereditate dalle letture compulsive di Ballard che Cronenberg covava
sin dai primi cortometraggi Transfer (1966) e From the Drain (1967), e c’era
già stata una loro prima evoluzione distopica e musiva nell’immaterialità
(erotica) della telepatia con il primo lungo Stereo (1969) – del quale sin da
subito e come vedremo più avanti, per la voce fuori campo che cuce le fila
narrative fra i silenzi delle riprese mute, per le location, per le atmosfere,
per i personaggi e per le soluzioni di messa in scena, questo lavoro si
configura(va) non solo come la seconda parte di un dittico sperimentale a
cavallo fra la fantascienza e l’horror, ma quasi come una sorta di secondo
tempo a colori dello stesso film.
Il reale valore di Crimes of the future però, emerso con
tutto il suo vigore nel corso degli anni, può essere capito appieno solo oggi, alla
luce di quelli che sono stati i lavori successivi dell’autore nativo di
Toronto. Per quanto il fiuto di un recensore del tempo potesse sfiorare la
chiaroveggenza, nessuno tranne, forse, lo stesso Cronenberg poteva ancora
sapere quanto Crimes of the future, con le sue innegabili intuizioni pronte a
emergere da un’altrettanto innegabile immaturità narrativa, sarebbe stato in
seguito leggibile come una sorta di manifesto di tutto il suo cinema, come un
chiaro e deciso intento programmatico, come una sorta di compendio di tutto ciò
che sarà nei successivi 40 anni, da Il demone sotto la pelle a Scanners, Rabid
a Brood, da La Mosca a Crash, da M. Butterfly a Spider, anticipati con
precisione e coerenza impressionanti. Molto più semplice è tentare un approccio
analitico fra le righe di Crimes of the future adesso, a posteriori, dopo che
la carriera dell’allora ventisettenne David Cronenberg ha portato a definitiva
maturazione tutti quei temi che, seppur in forma ancora acerba, già al tempo
costituivano tutto l’immaginario, lo sguardo e la poetica dell’autore canadese.
Ci sono la mutazione, la distopia, la carne, la morte, la
sparizione, il contagio. C’è l’aberrazione, c’è fobia, c’è l’attrazione
sessuale. C’è la malattia, c’è la depravazione, c’è l’ossessione perversa. Ci
sono le gerarchie sociali e le associazioni segrete, c’è la fascinazione nei
confronti dei maestri e delle guide carismatiche, ci sono i feticismi, le
cospirazioni e i riti esoterici, c’è il lato frustrato del desiderio e c’è una
pedofilia (in)utile e obbligata, destinata a non essere mai consumata. E
soprattutto, alla base, ci sono i brandelli di un mondo mondo post-femminile
sui quali si innesta una metafora distopica che è al contempo sociale,
esistenziale e metafisica, fatta di identità sessuale e di necessità di
adattarsi per sopravvivere, di incroci impossibili fra discipline ormai prive
di senso, di consapevolezza della fine interrotta solo da immorali illusioni.
È questo il (micro/macro)cosmo tormentato nel quale Adrian
Tripod (il sodale e iconico Ronald Mlodzik, che mantiene la stessa centralità
che aveva in Stereo guadagnando questa volta un nome e un ruolo definito), a
detta della sua stessa voce narrante direttore della clinica dermatologica
House of Skin, girovaga alla ricerca del «dermatologo pazzo» Antoine Rouge, suo
mentore scomparso nel nulla dopo avere contratto, primo uomo dopo che la
pandemia da lui stesso scoperta ha sterminato ogni donna sessualmente matura,
la malattia che porta il suo nome. Il segno definitivo della malattia,
provocata dai cosmetici e in seguito diventata una propagazione infettiva
inarrestabile, è la spuma di Rouge, una sostanza spumosa e biancastra destinata
a essere espulsa dalle orecchie dei malati e irresistibilmente invitante per
chi, sano, si ritrova a mangiarla avidamente. È l’attrazione nei confronti
della morte, del contagio, del dolore, ed esattamente all’opposto del
sostanziale mostro fecale che sarà il virus di Il demone sotto la pelle la
spuma si presenta languida, saporita, sensuale, morbida. Innocua quando il
paziente è ancora in vita, ma letale da subito dopo la sua morte con la
necessità di una cremazione il più possibile rapida.
Ma Tripod, che vede morire lentamente e agonizzando l’ultima
paziente mentre i medici, fra smalti sulle unghie e crescente intimità cercano
di ritrovare – un po’ come antesignani di M. Butterfly – una femminilità ormai
impossibile, non sa se Antoine Rouge sia effettivamente vivo o morto. Vaga alla
ricerca di un suo segno, di una sua presenza, della sensazione della sua
esistenza, o meglio ancora della sua essenza. Lo vuole “sentire”, così come
sente il freddo della montatura e delle lenti sulla lingua quando si ritrova a
leccare gli occhiali quasi come se fosse il primo germe di quella commistione
fra carne e lamiera che toccherà con Crash l’apice della sua sensualità malata,
e nel frattempo incontra altri uomini che tentano disperatamente di
sopravvivere, di non arrendersi, di adeguarsi a qualsiasi costo. O che
rinunciano apertamente a farlo. C’è chi crea e colleziona organi nuovi e
malformati all’Istituto per le Nuove Malattie Veneree, a metà strada fra una
parodia della nascita e il rapporto con la carne dall’edonismo alla metafisica
della malattia come atto creativo, c’è chi cerca di tornare al brodo
primordiale di pinne natatorie e tentacoli per curare le crisi psicologiche con
il Gruppo Oceanico Podologico impossibile rottura del confine fra due scienze difficilmente
collegabili, c’è chi si rotola nei prati fra vecchie fotografie e dita dei
piedi sindattili, c’è chi attende il proprio destino in silenzio, c’è chi
sviluppa feticismi di ogni tipo nei confronti degli oggetti per non arrendersi
alla realtà, c’è chi si limita a danzare senza proferire parola e soprattutto
c’è chi, in un impossibile Import-Export metafisico, cerca di far coincidere
idea e carne.
Ma a questo punto è necessario fare un piccolo passo
indietro. È necessario tornare a Stereo, il precedente grado di incubazione del
virus/cinema di David Cronenberg. A quel virus già latente nella società e
nella psiche, nella carne e nella mutazione, nella scienza e nella macchina,
nella realtà e nella distopia, nell’eros e nel feticcio. A quel virus da
smascherare e analizzare, da dissezionare e da temere, e al contempo dal quale
lasciarsi apertamente sedurre come unica possibile liberazione. Dove in Stereo,
a intervallare il coro di voci narranti, il silenzio era accompagnato dal solo
(amplificato) fruscio dello scorrere della pellicola, in Crimes of the Future
Cronenberg aggiunge all’unico commento del protagonista uno straordinario
lavoro sul rumore, sorta di sinfonia industrial fatta di effetti audio e di
vecchi cancelli, di vetri rotti e di cigolii ferrosi, di percussioni e di
nacchere irregolari, di motoseghe e di campionatori, di pop corn che esplodono
e di corde saltate, di robotici motori e di (non) brusche interruzioni. Ma
anche di inaspettati suoni naturali, fra i latrati dei cani e il bubolare dei
gufi. Quasi come fosse la parziale sonorizzazione noise di un film muto, il cui
effetto è straniante quanto stordente, fisico, meccanico, contagioso.
E nel frattempo il regista, insieme agli stock di pellicola
in bianco e nero, abbandona anche i vertiginosi ralenti e i repentini cambi di
punto di vista che costituivano i raccordi di montaggio più audaci di Stereo
per cercare una narrazione che iniziasse a essere più compiuta e definita,
mentre con il passaggio al colore le scelte cromatiche diventano
inevitabilmente una parte fondamentale dell’aspetto visivo. Quelle che erano la
telepatia e le percezioni extra-fisiche destinate a divenire corpo e malizia
mutano forma, si trasformano in quel bilico fra attrazione anche squisitamente
erotica e repulsione pronta a sconfinare nella paura che, giusto un anno prima
di quel 1997 messo futuristicamente e distopicamente in scena nel ’70,
troveranno nelle cicatrici, nei ferri e negli incidenti automobilistici di
Crash il loro definitivo punto di sintesi. Alla fin fine, il bollore carnale
provocato dalla spuma di Rouge e dalla malattia nient’altro è che il gradino
successivo del sublime filosofico e letterario. È una fascinazione
irresistibile nei confronti dell’orrore, dell’escrescenza, della mutazione,
della secrezione, del contagio, del dolore, della morte. È il virus, è il corpo
estraneo, o forse è la macchina, dall’automobile dei tamponamenti come
deflagrazione della sensualità e del desiderio a quel dispositivo che porterà
alla fusione fra l’uomo e La mosca, all’ibrido, al mostro. O forse, ancora, è
più semplicemente l’evoluzione, costante stimolo e modificazione genetica come
storia dalla quale non si può fare a meno di partire e a cui non si può che
tornare.
Fatto di stranianti inquadrature dal basso, vertiginosi
campi lunghi, architetture futuristiche, tempeste di colori a squarciare il
buio delle riunioni più segrete, granulosi controcampi e lunghi inseguimenti a
mano, Crimes of the future mette in scena gelosie e promiscuità, seduzioni e
secrezioni, mutazioni e feticismi, piedi mutanti che si fanno palmati e carte
stereoscopiche, oscure teorie filosofiche e contaminazioni epide(r)miche,
cospiratori pedofili e bambine ricreate dopo l’annientamento della donna ma
non/mai del femminile. Le tappe del vagare di Tripod sono uomini e vestiti,
ginnastica sacerdotale e perversione sessuale nelle immagini, espansione dei
gruppi depravati al di fuori delle leggi e rapporti maestri/allievi, nuove
guide spirituali e immersioni psicologiche nell’«acquario» delle sensazioni,
dapprima cutanee e poi sempre più profonde, intime, ancestrali. Perverse, come
le immagini alla costante ricerca di una nuova sessualità, e come gli uomini
alla costante ricerca di una nuova tecnica riproduttiva. Quegli uomini che non
si fidano più nemmeno delle proprie gambe, che temono la solitudine, che vivono
delle proprie frustrazioni, e che sfidano apertamente la natura per tentare di
tornare a uno status quo malato, perverso, fatto di desiderio ma ormai privo di
qualsiasi capacità d’amore. E ancora scosso da squilibri e lotte sociali, da
egoismi e complotti, da paure e ossessioni sempre più perverse, perché non si
può sfuggire alla propria natura.
Tanto che Tripod inizierà a parlare di se stesso in terza
persona, come per iniziare a prendere una distanza da ciò che non potrà fare a
meno di diventare. Verrà ammesso nel centro di ricerca ginecologica, in cui
idea e carne tornano a coincidere nelle forme di una nuova umanità o per lo
meno nell’illusione di una nuova umanità, e l’Import-Export metafisico della
bambina si fa fisicità pura, rapimento, altra sparizione mentre arriva la
polizia impotente, e poi ancora una volta idea, simbolo, disegno infantile.
Assenza e nuova presenza, lontano, proprio dove era sparito Rouge, proprio dove
diventa chiaro anche a Tripod che il suo mentore non tornerà mai più. Una
radice spunta come un’antenna cerebrale dal naso del portiere dell’albergo, ma
non è questa la mutazione che farà sopravvivere l’essere umano, l’unica atroce
speranza è la bambina. Che puntualmente, con la voluttuosa spuma che Tripod
perfettamente conosce, dimostra di aver contratto la malattia di Rouge. E
l’idea di una nuova umanità svanisce amara nella dolcezza nell’inevitabile
boccone di panna. O in una lacrima. Il virus di David Cronenberg aveva appena
iniziato a propagare il suo contagio, stava crescendo, si stava perfezionando.
Lo aspettava un viaggio lungo e straordinario, fatto di corpi, menti, pulsioni,
mutazioni. Un’epidemia di capolavori per sempre infetti.
Pubblicato su quinlan.it 08/05/2018 by Marco Romagna