venerdì 28 febbraio 2020

LA GOMERA - Corneliu Porumboiu (2019)



Cristi è un ispettore di polizia corrotto da trafficanti di droga, è sospettato dai suoi superiori e messo sotto sorveglianza. Imbarcato controvoglia dalla conturbante Gilda per l’isole de La Gomera, deve imparare nel minor tempo possibile il Silbo, una ancestrale lingua fischiata. Grazie a questo linguaggio segreto potrà liberare in Romania un mafioso che si trova in prigione e recuperare i milioni di euro nascosti. Ma non tutto è così semplice.

La Gomera (il titolo internazionale è The Whistlers) arriva in concorso alla settanduesima edizione del Festival di Cannes e spariglia tutte le carte dimostrando di possedere una dote sempre più rara nel cinema d’autore, europeo e mondiale: saper narrare con estrema naturalezza un racconto popolare senza per questo lasciare in secondo piano la riflessione teorica. Non è certo un caso che a mettere in scena questo prezioso gioiello sia Corneliu Porumboiu, che Cannes – per l’esattezza la Quinzaine des réalisateurs – scoprì nel 2006 all’epoca dell’esordio A est di Bucarest e che sempre sulla Croisette portò nel 2009 Police, Adjective e nel 2015 The Treasure, questi ultimi due entrambi inseriti nel programma di Un certain regard. La Gomera segna dunque la prima volta di Porumboiu all’interno della corsa per la conquista della Palma d’Oro, un riconoscimento che in questo momento parrebbe tutt’altro che peregrino.

Porumboiu riprende le fila del discorso da dove si era interrotto con The Treasure, a sua volta opera che ruotava attorno alla riconquista di un tesoro – lì era denaro risalente all’epoca di Ceausescu, qui il frutto del narcotraffico della mafia – e se sui titoli di coda di quel film irrompevano le musiche di Life is Life dei Laibach a dominare la scena nell’incipit di La Gomera è l’arcinota melodia di The Passenger di Iggy Pop. Quello che può sembrare solo un dettaglio, o il vezzo di un amante del rock, nasconde invece al proprio interno il senso della ricerca teorica che il regista rumeno svilupperà nel corso del film.
Come già accaduto in passato, si prendano ad esempio Police, Adjective e The Second Game, Porumboiu riflette sulle dinamiche relazionali tra i personaggi ragionando sui codici del linguaggio, sia esso verbale, visuale o puramente sonoro. È un suono ma anche una lingua il Silbo, il fischio con cui i pastori dell’isololotto de La Gomera nelle Canarie riuscivano a comunicare a distanza di chilometri, come fossero uccelli o scimmie urlatrici. Ed è un linguaggio anche la scelta dei diversi brani che compongono la ricca colonna sonora, dal rock rampante di Iggy Pop ad arie celebri come Casta Diva fino ad arrivare all’Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach. Brani che compongono un percorso, una contro-narrazione, che servono a “educare”, come sottolinea il nuovo concierge del sordido alberghetto in cui i soldi sono nascosti. Ed è un’opera a suo modo educativa, La Gomera, perché insegna a spettatori spesso troppo disattenti o abituati a un cinema preconfezionato che la materia narrativa è qualcosa su cui si può lavorare, approfondendo discorsi che potrebbero apparire anche ostici senza per questo dimenticare l’urgenza dell’intrattenimento.

Porumboiu dirige infatti un noir in piena regola, con tutti i crismi necessari: c’è il poliziotto corrotto, la sua capa che lo utilizza come talpa, la femme fatale, l’arzigogolato piano criminale, e via discorrendo. Eppure ogni passaggio del film serve a sottolineare l’importanza dell’utilizzo dei codici di linguaggio. Il fischio è uno strumento linguistico utilizzato da tempo immemore nello sperduto isolotto atlantico, ma è poi così dissimile da quello di cui si servivano le tribù native nel nord dell’America, come testimonia non un documento reale, ma una sequenza di Sentieri selvaggi che Cristi, il poliziotto corrotto, e la sua superiora Magda guardano alla cineteca di Bucarest.

Ed è inevitabilmente il cinema il punto di caduta che più interessa Porumboiu. L’immagine, la cui verità non può essere messa in dubbio neanche quando la finzione è dichiarata, come certifica la sequenza in cui la bella Gilda si finge una prostituta d’alto bordo per giustificare agli occhi degli “spioni” della polizia la sua presenza in casa di Cristi. Quel rapporto sessuale, costruito ad arte, diventerà il grimaldello sentimentale che in un modo o nell’altro sconvolgerà la prassi del piano, con tutte le conseguenze del caso. È di nuovo il cinema a ricostruire il vero quando Gilda e Magda si trovano a tu per tu, pistola contro pistola, davanti all’ospedale in cui è internato Cristi. Quest’ultimo sente lo sparo mentre sta vedendo la televisione, e se ne accorgerebbe anche l’infermiere che è con lui in camera se in televisione non fosse trasmessa la sequenza d’azione di un poliziesco, con tanto di sparatoria incorporata.

Facendo ricorso a tutti gli stratagemmi possibili – specchi, finestre che incorniciano i personaggi, camere di sorveglianza – Porumboiu ricompone la narrazione attraverso frammenti tra loro solo all’apparenza inconciliabili, e così fa anche con un racconto che va avanti e indietro nel tempo “fingendo” di interessarsi di volta in volta di un personaggio diverso. Divertentissimo e appassionante noir che non smentisce mai la propria forma per pretese autoriali La Gomera è un piccolo capolavoro, testimonianza della vitalità della scena rumena e del ruolo di primaria importanza svolto da Porumboiu. Arrivasse in dono un premio rilevante sulla Croisette forse inizierebbe ad accorgersene anche la distribuzione italiana, con solo un decennio di ritardo.

Pubblicato su quinlan.it il 05/19/2019, di Raffaele Meale

lunedì 3 febbraio 2020

DIAMANTI GREZZI di Ben Safdie, Joshua Safdie (2019)


Ultimo baluardo del cinema indie americano, Benny e Josh Safdie, giunti al terzo lungometraggio di finzione, proseguono ardimentosi nel loro percorso autoriale dissertando per immagini, in Diamanti grezzi (Uncut Gems), su uomo e capitalismo, cosmo e denaro, mentre esplorano, ancora una volta, il produttivo binomio tra supporto fisico (la pellicola) e performance attoriale. L’incanto visivo della loro regia fluida e precisa, l’inventiva narrativa di questa nuova odissea urbana e umana trafiggono gli occhi e stimolano le sinapsi, con un continuo rimestare tra cellule e minerali, uomini e cose, sentimenti e metafore, mentre il paradosso regna sovrano, dentro e fuori dal film: Diamanti grezzi è girato in 35mm, visibile solo su Netflix.

Colori saturi e grana bene in vista, la pellicola fotografata mirabilmente da Darius Khondji (Okja, Civiltà perduta, Amour, Midnight in Paris, per citare qualche titolo) riserva momenti di puro piacere visivo, tra improvvise tinte bluastre pronte a sprigionarsi dai neon delle gioiellerie del Diamond District newyorkese, immersioni lisergiche nella materia e una sorprendente sequenza sotto luci ultraviolette ambientata in un locale notturno. Nuovo tassello di una già brillante carriera, Diamanti grezzi prosegue l’indagine umana dei due registi ampliandone la portata metaforica, senza offrire, come d’abitudine, alcuna morale o messaggio pre-confezionato sul protagonista e le relative vicende. Se il precedente Good Time lambiva i toni del dramma sociale statunitense e concedeva a Robert Pattinson di esprimersi in una prova fisica ai limiti dello slapstick, in Diamanti grezzi la scena è stabilmente governata da Adam Sandler, la cui parlantina tonitruante in slang ebraico-newyorkese, accompagnata dall’appropriata gestualità nervosa, costituisce la vera forza centrifuga di ogni singola inquadratura. Recitando costantemente tra i denti, questo stand up comedian raffinato e brutale offre allo spettatore prova costante del suo talento attoriale, opportunamente esaltato dalla devozione che i due registi gli dedicano senza sosta, proponendosi così quali degni eredi del cinema empatico e straziante, performativo e libero, di John Cassavetes. Come il Cosmo Vittelli incarnato da Ben Gazzara in L’assassinio di un allibratore cinese anche l’Howard Ratner di Adam Sandler è uno scommettitore compulsivo, poco interessato in fondo al denaro di per sé, guidato solo dall’istinto e dal desiderio di rischiare, e vincere.

Tutto ha inizio per lui in un altro tempo e un altro luogo, nel 2010, tra gli ebrei etiopi che scavano, anche al costo della vita, in una miniera. Lì, dalle viscere delle terra, viene estratto un opale nero, ancora incastonato nella roccia, pietra millenaria ma sondabile, le cui componenti minerarie non sono affatto diverse da quelle che troviamo, pochi istanti dopo, nel corpo di Howard. Disteso su un lettino ospedaliero, mentre gli viene effettuata una colonscopia, il nostro antieroe è vulnerabile, ma pronto a rialzarsi, marionetta impazzita nelle mani dei suoi autori, galvanizzata continuamente, all’interno del racconto, dal denaro e dal suo scorrere impetuoso. Howard è così, può essere solo o inerte o scatenato, nessuna via di mezzo. È il mattatore folle e logorroico di una realtà che vuole ricacciarlo in un buco nero. È un gioielliere traffichino, un gambler made in USA senza desiderio di redenzione.
Il cognato, Arno (Eric Bogosian), rivuole indietro un prestito di 100mila dollari e gli ha scatenato contro i suoi scagnozzi, la moglie brama il divorzio, l’amante e sua dipendente lo ama follemente, lui è uno nessuno e centomila, il family man che porta via la spazzatura e presenzia alla recita della figlia, l’intrallazzatore immerso in baratti, compravendite, transazioni, interessi e strozzini, vecchie tradizioni, Storia e Geologia, Religione e Minerali, cellule e atomi, vitalità e morte.

Attraverso di lui si manifesta l’ultima frontiera del capitalismo, ipertrofico, insensato, dove il lavoro dell’uomo non produce più nulla da tempo e l’oggetto (l’opale nero), proprio come il denaro, ha il valore che l’uomo gli attribuisce. Entrambi poi non sono che “materia”, proveniente dalle viscere della terra e pronta a dissolversi in essa. Tetra eppure vitalistica metafora offerta alla nostra libera interpretazione, Diamanti grezzi è ad oggi il frutto più maturo della filmografia di Benny e Josh Safdie, la cui fascinosa estetica retrò, frutto di un manierismo mai ruffiano, mira a comporre un’elegia tonante, carnale e triviale, al corpo dell’attore, alla materia, alla grana della pellicola, al cinema.

Pubblicato su quinlan.it il 02/02/2020, di Daria Pomponio