martedì 11 giugno 2019

Il Traditore, di Marco Bellocchio



pubblicato su sentieriselvaggi.it, di Carlo Valeri – 24 maggio 2019

“Si muore sempre per qualcosa. La morte ci accompagna” dice Giovanni Falcone a Tommaso Buscetta durante un interrogatorio. Si muore e basta. Il traditore è quasi un film gemello di Fai bei sogni. È un altro affresco sulla morte e soprattutto sulla sua (impossibile) rimozione. Il Tommaso Buscetta di Marco Bellocchio e Pierfrancesco Favino ripete a tutti di non aver paura di morire, ma viene continuamente risucchiato da una scia luttuosa che lo insegue fino alla fine dei suoi giorni. I cadaveri delle persone che ha ucciso, quelli dei figli e dei fratelli, quelli di Falcone e dei poliziotti uccisi: Il traditore è costellato di morti e funerali. Del resto in una scena onirica tipicamente bellocchiana è lo stesso Buscetta a immaginare una cerimonia funebre circondato dai familiari che lo piangono e lo sigillano in una bara.

Ecco allora che la fotografia di Vladan Radovic sembra sempre velata dalla cenere, avvolge il film nel grigiore burocratico dei piani alti del Potere e nell’oscurità di un Paese e di un personaggio memorabile e ambiguo. Il pentito che con le sue confessioni mise in ginocchio Cosa Nostra contribuendo all’arresto di almeno trecento mafiosi è un donnaiolo che rifiuta di invecchiare, si veste come un uomo d’affari, abbandona la Famiglia per mettersi in proprio e costruire un impero in Brasile, è un gangster che attraversa due mondi. C’è qualcosa del Carlos di Olivier Assayas nel Buscetta libertino e “internazionale” de Il traditore – la sceneggiatura è scritta dallo stesso Bellocchio in collaborazione con Francesco Piccolo, Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco La Licata – in una aperta contrapposizione con lo psicopatico e moralista Totò Riina, che nelle scena del confronto in tribunale diventa un duello simbolico tra due tipologie di villain contrapposte e ostentatamente speculari: l’imprenditore moderno che crede nei vecchi ideali di onore e diventa eroe mediatico (Buscetta), il boss tradizionalista e ignorante che vive nell’ombra e cambia le regole uccidendo donne e bambini (Riina).

Dopo Buongiorno Notte, Vincere e Bella addormentata, Bellocchio aggiunge un altro tassello alla sua personale rivisitazione della storia d’Italia. Lo fa attingendo al repertorio linguistico e narrativo del cinema civile per poi comporre una materia tutta sua e firmare quello che per costi e dimensioni è il film più mainstream della sua carriera. Il montaggio serratissimo di Francesca Calvelli ci porta inizialmente alla festa di Santa Rosalia del 1980, dove vengono presentati con i nomi in sovrimpressione i boss di Cosa Nostra, Riina appunto, Salvatore Contorno, Pippo Calò, Gaetano Badalamenti. La narrazione attraversa gli anni ‘80 e ‘90, fino all’epilogo nel 2000 ed è scandita da una prima mezz’ora velocissima, violenta e inconsueta per la filmografia bellocchiana. La prima parte ambientata in Brasile con l’arresto di Buscetta, le minacce in elicottero e le torture da lui subite sembrano infatti venire direttamente da un gangster movie sudamericano. Poi arriva la collaborazione con lo Stato italiano, il rapporto con Falcone raccontato in poche scene, con stile essenziale, il processo anti-mafia, in cui la macchina da presa si fa più statica e si ferma a registrare l’ironia tragica e teatrale di una commedia umana sulla giustizia dove è la parola e il linguaggio a prendere il sopravvento – memorabile la scena in cui il Contorno interpretato da Luigi Lo Cascio parla in dialetto siciliano e non viene capito da nessuno. 

E poi Il traditore (il film come il personaggio!) cambia di nuovo registro e il racconto si concentra sul romanticismo e sui sensi di colpa: Buscetta piange sui figli che ha lasciato morire durante la sua latitanza e canta Historia de un amor connotando un’ultima parte che diventa straziante e crepuscolare.
Un film cupo insomma, decisamente bellocchiano. E allo stesso tempo nuovo e ricco di soluzioni e di tanti possibili film diversi. Cinema di genere, cinema civile, cinema d’autore. Un ritratto che già meriterebbe di entrare di diritto nella storia recente del cinema italiano.