lunedì 17 dicembre 2018

2018 - scores, standings and no details

Closeness (Kantemir Balagov)
Last Flag Flying (Richard Linklater)
Chiamami con il tuo nome (Luca Guadagnino)
The Disaster Artist (James Franco)
Shame - Songs of Praise
Il Filo Nascosto (Paul Thomas Anderson)
Mark Fisher - Realismo Capitalista (Nero Editions)
Sons Of Kemet - Your Queen is A Reptile
V.A.- Le Visionarie. Fantascienza, Fantasy e Femminismo a cura di Ann e Jeff VanderMeer  
(Nero Editions)
Visages Villages (Agnès Varda, JR)
Alberto Casadei - Biologia della Letteratura (Il Saggiatore)
Un sogno chiamato Florida (Sean Baker)
V.A. - Freeman's Scrittori dal Futuro (Black Coffee)
Wild Wild Country (Netflix)
I Segreti di Wind River (Taylor Sheridan)
La Casa sul Mare (Robert Guédiguian)
Ex Libris - The New York Public Library (Frederick Wiseman)
Emil Ferris - La Mia Cosa Preferita Sono i Mostri (Bao Publishing)
Dogman (Matteo Garrone)
Mektoub, My Love: Canto Uno (Abdellatif  Kechiche)
John Coltrane - Both Direction at Once: The Lost Album
Il Sacrificio del Cervo Sacro (Yorgos Lanthimos)
The Woman Who Left (Lav Diaz)
Jon Hassell - Listening to Pictures (Pentimento Volume One)
Robert Charles Wilson - Spin (Rorcard Edizioni)
Low - Double Negative
First Reformed (Paul Schrader)
Senza Lasciare Traccia (Debra Granik)
The First (Hulu - st.1)
Piazza Vittorio (Abel Ferrara)
GoGo Penguin - A Hundrum Star
Nick Drnaso - Sabrina (Coconino Press)
Idles - Joy as an Act of Resistance
Stefano Scodanibbio - Alisei
The Deuce (st. 2 - HBO)
Still Recording (Ghiath Ayoub, S. Al Batal)
Mark O'Connell - Essere una macchina (Adelphi)
A Gentle Creature (Sergei Loznitsa)
Roma (Alfonso Cuaron)

...not least
Corpo e Anima (Ildikò Enyedi)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh)
La Forma dell'Acqua (Guillermo Del Toro)
Janelle Monàe - Dirty Computer
James Purdy - Non chiamarmi col mio nome (Racconti Edizioni)
La Truffa dei Logan (Steven Soderbergh)
A Quiet Place (John Krasinski)
Daniel Blumberg - Minus
Atlanta (FX - st. 1 e 2)
I Fantasmi d'Ismael (Arnaud Desplechin)
Holger Czukay - Cinema
Un Affare di Famiglia (Hirokazu Kore-Da)
BlacKkKlansman (Spike Lee)
Michele Vaccari - Un Marito (Rizzoli)
Santiago, Italia (Nanni Moretti)
 

venerdì 14 dicembre 2018

Profondamente commovente. “Roma” di Alfonso Cuarón (scritto da Alessio Galbiati, Rapporto Confidenziale)

Scritto da Alessio Galbiati, Rapporto Confidenziale
14/12/18


Fuori dalle dispute commerciali – vedi alla voce Netflix, Cannes, Anica, eccetera – e dai palmarès – passati e futuri –, entrambi gli aspetti pur riguardandoci ci interessano in fondo assai poco, quel che suscita la visione di Roma è una duplice e profondissima commozione: struggimento per la vicenda narrata e per i sentimenti in essa contenuti e pure, verrebbe da dire soprattutto per noi cinefili, una profonda gioia nel rivedere il cinema fare il cinema. 

Questo Amarcord messicano riconcilia lo spettatore con l’essenza del linguaggio cinematografico: legare ogni movimento della macchina da presa ai sentimenti messi in scena secondo un principio di semplice essenzialità pur nella continua sofisticatezza. Roma ci offre un’esperienza della visione straordinaria perché in un quadro sempre denso e in movimento riesce a condurci per mano proprio dove la penna dello sceneggiatore ha puntato il proprio sguardo. Lo sguardo che ci viene offerto è sterminato, campi profondi ed estesi dentro ai quali l’occhio potrebbe perdersi senza la guida sicura di una regia davvero magistrale. E pure la componente sonora collabora alla definizione dello spazio narrativo, avvolgendo lo spettatore all’interno di una spazializzazione immersiva ma continuamente diegetica ed emozionale. 

Ogni elemento del capolavoro di Alfonso Cuarón non è mai fine a se stesso, ma compartecipa a una visione di insieme che poggia la propria grazia nell’interiorizzazione autobiografica del soggetto. Pur se costruito a partire da dati realistici, storici e urbanistici Roma è in grado di collocarsi in un limbo trasognante dal sapore felliniano, ad essere un a m’arcord tanto personale quanto universale, profondamente commovente.

venerdì 7 settembre 2018

First Reformed di Paul Schrader (2017)

Ex cappellano militare, Toller è devastato dalla perdita del figlio, che lui stesso aveva incoraggiato ad arruolarsi nelle forze armate. Travagliato da un forte dissidio spirituale, la sua fede viene ulteriormente messa alla prova quando la giovane Mary e il marito Michael, ambientalista radicale, si rivolgono a lui per aiuto. Consumato dal pensiero che il mondo stia per essere distrutto da grandi e spietate corporation, complici della Chiesa in loschi traffici, Toller decide di intraprendere un’azione molto rischiosa, nella speranza di riuscire a ritrovare la fede.

Dall’oscurità alla luce, dall’umana, terrestre orizzontalità alla vertiginosa verticalità del divino. È una vera e propria dichiarazione d’intenti la prima inquadratura di First Reformed di Paul Schrader, dentro ci sono tutte le sue ossessioni, tutto il suo cinema. Un cinema mai conciliato con se stesso, né con l’umano né col divino, un cinema violento, specie in “parole, opere e omissioni”. No, non c’è niente di conciliatorio in quella lunga, splendida carrellata iniziale dal basso, c’è solo la furia dell’uomo nel lanciarsi verso Dio, anche a costo (anzi, nella malcelata speranza) di distruggersi.

Presentato in concorso a Venezia 2017, First Reformed segna il ritorno di Schrader, dopo la spassosa ma esile boutade Dog Eat Dog, ai temi che hanno attraversato tutta la sua filmografia (la fede, la superbia, la grazia) e che qui si snocciolano in un crescendo implacabile, arricchendosi con innesti inediti, fino a costituire l’amalgama di una valanga montante fatta di intuizioni teologiche, filosofiche e sensoriali, pronta a riversarsi sullo spettatore.

Protagonista del film è un ottimo Ethan Hawke, nelle vesti talari di un pastore che, abbandonato dalla moglie dopo la morte del figlio (che lui stesso aveva esortato ad arruolarsi), si ritrova ad amministrare la piccola parrocchia di First Reformed e la relativa comunità. Toller, questo il nome del religioso, ha deciso di tenere un diario (torna l’ossessione di Schrader per Robert Bresson e il suo Diario di un curato di campagna) perché non riesce più a pregare. Ogni tanto presta i suoi servigi in un’altra, ben più popolosa diocesi, che segue la dottrina nota come “Abundant Life, inneggiante alla pienezza della vita. Ma i suoi pensieri sembrano andare in tutt’altra direzione.Non solo Toller non riesce più a parlare con Dio, ma ha un serio problema con le tubature del bagno, anche lì sussiste un blocco, che va spurgato. Dopotutto, Martin Lutero non ha composto uno dei suoi inni religiosi più famosi proprio dall’abitacolo del suo gabinetto? O almeno, così dice la leggenda.Una luce di speranza si fa viva poi quando una giovane parrocchiana (Amanda Seyfried) incinta gli chiede di parlare con suo marito: un attivista ecologista che preferirebbe non mettere al mondo un figlio in un mondo che l’uomo ha da tempo condannato alla distruzione. Ma nonostante il suo intervento, il giovane uomo si suicida, e Padre Toller inizia a prendere una serie di decisioni. Il calvario è un destino, tanto vale lanciarcisi contro a tutta velocità, o comunque con un certo fragore.

Con uno script magistrale, che largo spazio offre alla parola, mentre ne mette in discussione il potere salvifico, Schrader realizza con First Reformed un film che non solo contiene tutta la sua carriera, ma ne supera la portata, amplificandone tutte le ossessioni. Da grande ammiratore di Sentieri selvaggi (in originale: The Searcher), Schrader è un “cercatore”, di conoscenza, più che di risposte. E poi, come nel più classico del western, anche in First Reformed si fa largo la possibilità di andare contro la legge – umana o divina in questo caso fa poca differenza – per una causa giusta. Tutti i grandi pensatori e teologi, in qualche misura l’hanno fatto. Compreso Lutero.

Emerge poi con particolare forza, data l’ambientazione e il ruolo rivestito dal protagonista, la questione, cara al regista, dell’etica protestante di stampo capitalista, con il relativo rifiuto di “porgere l’altra guancia” perché, come dice un ragazzo durante un gruppo d’ascolto, “i cristiani non devono per forza essere degli sfigati”.Molto meno direttamente incentrato sul cinema rispetto a The CanyonsFirst Reformed, si interroga però con forza su un problema tutto connesso al ruolo dell’autore (cinematografico o meno) quale è quello della superbia. 

È da essa in fondo che proviene ogni forma di espressione umana, dalla scrittura ai film, e ancor più protervo è proprio l’atto della preghiera poi, che si pone l’obiettivo di comunicare nientemeno che con Dio.Vero e proprio atto di fede verso il suo cinema e di devozione verso il suo attore (mai Ethan Hawke è stato trattato con tali amorevoli cure, in grado di farne emergere tutto il talento), First Reformed si pone (e ci pone) inoltre un problema fondamentale: ci avviciniamo di più al divino quando proteggiamo ciò che ci è stato affidato – la Terra, come il nostro corpo – o quando, con la superbia di accostarci al Dio del Vecchio Testamento, puntiamo a distruggerlo?La risposta è semplice e Schrader la affida alle parole della preghiera di un profeta tutto americano come Neil Young.

Pubblicato su Quinlan.it il 09/01/17 da Daria Pomponio


lunedì 19 marzo 2018

Visages villages, di Agnès Varda & JR

Tutta una vita. Che si condensa in un incontro magico, quello tra Agnès Varda e JR, l’artista francese che utilizza la tecnica del collage fotografico. 89 anni lei (90 il 30 maggio), 35 lui.Un abisso anagrafico, ma una spinta comune: la passione per le immagini in generale e soprattutto sui dispositivi per mostrarle, condividerle, esporle. L’incontro tra loro è avvenuto nel 2015. E, insieme, hanno deciso di girare un film lontano dalle città.
Visages villages. Quasi un gioco di parole. Ma anche due elementi che si fondono, che diventano indistinguibili. Un documentario on the road sulle diverse forme del guardare. Un’opera teorica potentissima ma dalla naturalezza disarmante. Gli occhi sulle cisterne sono già il segno di un movimento per cui possono essere gli oggetti stessi che guardano. Nelle fotografie ingrandite che vengono esposte come murales. Di persone vere. Dove ogni loro volto nasconde una storia. Ci sono molti modi per riprendersi e raccontarsi, oltre allo scatto frontale. Tra passato e futuro: le vecchie foto dei minatori e i selfie.
Un’autentica lezione. Fatta con una semplicità impressionante. Con un istinto per il cinema che non ha perso nulla in una carriera di oltre 60 anni della cineasta. Dove i volti hanno segnato anche il suo cinema di finzione. Come quello di Cléo dalle 5 alle 7. E il recupero anche di quegli scarti fisici della materia di Les glaneurs et la glaneuse e dei luoghi, con il ritorno sulle spiagge e il mare di Les plages d’Agnès. Con la marea che ha spazzato via le immagini. E la tempesta di vento e sabbia che sembra eliminare dall’inquadratura anche i loro corpi.
Visages/Villages. Ogni inquadratura, pur nell’appiattimento digitale, conserva lo strepitoso senso della prospettiva e l’uso del colore in chiave pittorica. Richiamato in quella folle corsa al Louvre dove JR spinge la regista in carrozzella. Con quella gioia di Bande à part di Godard. Già, Godard. L’amico, il traditore. Quello che, secondo la Varda, “ha cambiato il cinema”, il suo protagonista quasi ‘keatoniano’ con Anna Karina nel corto burlesque Les fiancés du Pont Mac Donald di cui si vede un frammento nel film. Ma anche l’uomo che oggi le tiene la porta chiusa, che le lascia un biglietto che richiama Jacques Demy dove la cineasta si commuove rabbiosamente, in un frammento di un’intensità sconvolgente. Con una complicità di JR che con lei sembra progressivamente sciogliersi, aprirle le porte della sua famiglia nell’incontro con la nonna. La videocamera sparisce. C’è leggerezza e mobilità prima. Poi, magica assenza. Lo scarto generazionale, l’amicizia (quella brutalmente negata oggi da Godard) in un’inquadratura. Lui che sale le scale di corsa, lei in modo affannato, le loro ombre sui muri.
Visages/Villages. Innanzitutto, gli occhi. Quello tagliato di Un chien andaloudi Buñuel. JR che porta sempre gli occhiali da sole. I problemi alla vista di Agnès. La sua malattia. Che si incontrano come se il cinema esistesse senza nessun dispositivo. Come tante videocamere che si moltiplicano e stanno dappertutto. Con la soggettiva sfocata di lei. E lo sguardo di JR su di lei. Dove la regista diventa sempre protagonista di collage, dipinti. Come quello della ruota rossa nel trattore. Passa tutta una vita. E ogni personaggio che incontrano mostra parte della propria esistenza. Anche guardando solo nell’obiettivo. Ghirlandaio, Raffaello, Botticelli. Con la regista che li attraversa in velocità. Ma forse vorrebbe fermarsi ed entrare dentro ogni quadro. E poi Agnès Varda. E poi (o insieme) JR. Cambiano i dispositivi. Ma ogni immagine non ha età. Soprattutto quelle di Visages villages. Così piene che ogni volta lo stacco di montaggio è una rivelazione e anche un dispiacere. Perché non si vorrebbe mai abbandonare l’immagine precedente. In un film strepitoso che non è un testamento. “Dopo ogni incontro per me è come l’ultima volta”. Ma questo cinema sembra quello della prima volta. Del 1954. Di La pointe courte. In mezzo ci sono 63 anni. Ma sembra già domani.

di Simone Emiliani, pubblicato su sentieriselvaggi.it, 14 marzo 2018

giovedì 25 gennaio 2018

2017 and Catch Fire

Paterson (Jim Jarmusch)
Arrival (Denis Villeneuve)
Frank Miller/Dave Gibbons - Una vita americana (Magic Press)
Gimme Danger (Jim Jarmusch)
Austerlitz (Sergei Loznitsa)
Clarice Lispector - Acqua viva (Adelphi)
Jackie (Pablo Larrain)
Colin Stetson - All this I do for glory
American Honey (Andrea Arnold)
Thundercat - Drunk 
Cosey Fanny Tutti - Art Sex Music (Faber&Faber)
Song To Song (Terrence Malick)
Personal Shopper (Olivier Assayas) 
Geoff Dyer - Sabbie bianche (Il Saggiatore)
The Necks - Unfold
The Leftovers (HBO - series finale)
Civiltà perduta (James Gray)
Prince and The Revolution - Purple Rain | Deluxe Expanded Edition 2017
Alice Coltrane -World Spirituality Classics 1: The Ecstatic Music of Alice Coltrane
Lcd Soundsystem - American Dream
Sonny Liew - L'Arte di Charlie Chan Hock Chye (Bao Publishing)
Twin Peaks - The Return (Showtime)
The Deuce (HBO - s.1)
madre! (Darren Aronofsky)
Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve)
The Dream Syndicate - How did I find myself here ?
Halt and Catch Fire (AMC - series finale)
Steve Coleman's Natal Eclipse - Morphogenesis
Nico, 1988 (Susanna Nicchiarelli)
Ryuichi Sakamoto - async
Lady Macbeth (William Oldroyd)
The Meyerowitz Stories (Noah Baumbach)
Dawson City - Il Tempo tra i ghiacci (Bill Morrison)
Vijay Iyer Sextet - Far from over
Good Time (Ben Safdie, Joshua Safdie)
Kevin Kelly - L'Inevitabile (Il Saggiatore)
Giorgio Falco - Ipotesi di una sconfitta (Einaudi)
Detroit (Kathryn Bigelow)
Nocturama (Bertrand Bonello)
A Ghost Story (David Lowery)
Paul Auster - 4 3 2 1 (Einaudi)
runners-up:
Silence (Martin Scorsese)
Il Ragno Rosso (Marcin Koszalka) 
Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan)   
Les Sauteurs (M. Siebert, E. Wagner, Abou Bakar Sidibè)
Visible Cloacks - Reassemblage
Kendrick Lamar - DAMN
Logan (James Mangold)
Big Little Lies (HBO)
Cesare Basile - U Fujutu se neschi chi fa ?
Guardiani della Galassia Vol. 2 (James Gunn) 
L'infanzia di un Capo (Brady Corbet)
Moshin Hamid - Exit West (Einaudi)
The Handmaid's Tale (Hulu - s.1)
Sieranevada (Cristi Puiu)
Geoff Dyer - Un'altra formidabile giornata per mare (Einaudi)
Mauro Ermanno Giovanardi - La mia generazione
Enrico Gabrielli - Le piscine termali (Ekt Edikit)
Loveless (Andrey Zvyagintsev)
Babylon Berlin (Sky - St. 1 e 2)

Last Flag Flying di Richard Linklater (2017)

Trent’anni dopo aver servito insieme in Vietnam, l’ex medico della marina Larry “Doc” Shepherd incontra di nuovo i suoi compagni, l’ex Marine Sal Nealon e il Reverendo Richard Mueller, per dare degna sepoltura al figlio di Doc, un giovane marine rimasto ucciso nella guerra in Iraq. Con l’aiuto dei suoi vecchi amici, Doc intraprende un viaggio verso la East Coast per riportare il figlio a casa. Nel tragitto, i tre ricordano il loro passato componendo un mosaico di memorie comuni e riflessioni sul passare del tempo.


Non è ancora prevista una data di uscita in Italia

Per quanto possa sembrare paradossale, Last Flag Flying sembra una revisione del tracciato narrativo edificato trenta anni fa da John Hughes con Un biglietto in due. Nel 1987 la strana coppia Steve Martin/John Candy attraversava gli Stati Uniti passando da un mezzo di locomozione all’altro e imparava a conoscersi, a ri-conoscersi e a provare sentimenti sperduti nell’etica yuppie quali empatia, affetto, consapevolezza di classe; oggi Richard Linklater torna alla regia per raccontare l’incontro nel 2003 di tre ex commilitoni, fermi alla memoria del tempo passato insieme sotto le armi, in Vietnam: uno di loro, il più giovane, ha ricevuto la notizia della morte dell’unico figlio in Iraq, e vuole il conforto di quelli che un tempo erano i suoi fratelli più cari per vivere il lutto fino alla sepoltura, nel mausoleo per e forze armate di Arlington, in Virginia. Hughes raccontava il disperato viaggio per raggiungere in tempo la cena del Ringraziamento, passando da New York al Kansas, dal Missouri a Chicago: l’America profonda, quella dei redneck che consegnarono la nazione a Reagan e più recentemente a Donald Trump. Il viaggio di Larry Shepherd – chiamato Doc dagli amici – con Salvatore e Mueller, diventato negli anni predicatore battista, si muove invece tutto sulla costa est, dalla Norfolk in cui Sal gestisce uno scalcinato pub senza troppi avventori fino alla già citata Arlington, per poi passare dal Delaware, New York e Boston fino al New Hampshire. Il tentativo è dunque quello di tracciare una topografia dell’America ancora ferita dall’attentato alle Twin Towers e immerso fino al collo nel conflitto armato in Iraq: nel clima pre-natalizio arriva la notizia dell’arresto di Saddam Hussein, capo indiscusso di una nazione che si rifugia in un buco di ragno per salvarsi, come commenta con disprezzo ma non poca mestizia Sal.

Richard Linklater, e dopo diciannove lungometraggi diretti sarebbe giunto il momento di riconoscerlo al di là di ogni dubbio, è uno dei principali cantori contemporanei degli States: come tutti i veri cantori non è mai agiografico, non si lascia condurre per mano dalla retorica e non si limita mai a credere alla “versione ufficiale”. Ed è proprio sul tema della verità negata, della necessità o meno di ricorrere alla bugia, che Last Flag Flying gioca le sue carte: da un lato un governo che mente spudoratamente ai propri cittadini, inventando prove per poter giustificare una guerra, guerra in cui verranno mandati a morire i figli delle classi meno abbienti, ovviamente. Dall’altra parte della barricata c’è però una verità che non può essere detta a cuor leggero, perché è una verità che riguarda la morte di un figlio, del migliore amico, di qualcuno che era parte integrante della vita. E una bugia può essere l’unica verità raccontabile, come testimonia la straziante sequenza che vede i tre ex commilitoni rintracciare la madre oramai anziana (e bisnonna) di un ragazzo che avevano visto morire in Vietnam tra mille dolori perché la morfina era stata finita proprio da loro, per sballarsi al punto da non capire più dove erano, in quale inferno si erano cacciati, un inferno in cui l’area posticcia dei bordelli era chiamata amichevolmente Disneyland per cercare di evadere da una realtà che nessuno avrebbe potuto reggere a lungo.

La memoria di quell’incubo è in qualche modo anche l’unica àncora di salvezza di tre uomini che non sono mai stati davvero in grado di integrarsi nel paese nel quale hanno fatto ritorno: conservano l’orgoglio per la Marina, anche se Larry è stato congedato con disonore per essersi caricato la colpa condivisa con Mueller e Sal, e conservano l’idea di un corpo che dovrebbe difendere l’America dalla minaccia nemica, prima il comunismo e poi l’islam. Ma il condizionale è d’obbligo, perché a San Diego i rossi non sono mai sbarcati, e lo stesso sta avvenendo con i popoli del medio-oriente. L’America di Last Flag Flying è un’America spaventata, traumatizzata da una guerra dopo l’altra, costretta a vivere in una paura che non ha alcuna ragion d’essere, se non per la preservazione di un organismo statale che per il resto sembra sfaldarsi sempre di più. Come già in Fast Food Nation e a ben vedere in Boyhood, Linklater si interroga anche sul concetto stesso di patria, sul valore che un termine simile può acquistare a seconda delle diverse storie personali e delle diverse sensibilità. Tutti in Last Flag Flying amano in maniera viscerale gli States, ma di volta in volta il corpo di questi States si fa diverso, mutevole, come un profilo che si cerca di disegnare a mente, e si ha davvero chiaro solo quando si chiudono gli occhi: l’America di Sal – lo stesso nome del Sal Paradise/Kerouac di On the Road – è ancorata a ideali che sono stati smentiti da troppi corpi, da troppi cadaveri con il volto sfigurato come il ragazzo di Larry; quella di Mueller è rinchiusa nel piccolo e forse anche pacifico mondo della sua chiesa, e della sua famiglia devota e religiosa; è Doc a essere il più sfiduciato e indifferente, scioccato dalla perdita della moglie per cancro e solo pochi mesi dopo del figlio sul campo di battaglia. Anzi, del figlio inevitabilmente eroe (come altro si potrebbe giustificare una guerra, altrimenti?) ma in realtà morto per una fucilata alla nuca mentre andava a comprare un po’ di coca per i suoi amici.

In un film costruito come un piccolo miracoloso puzzle di dialogo in dialogo, Linklater ha la fortuna di potersi affidare a un trio d’attori in forma smagliante, con un trattenuto e dolorosissimo Steve Carell a spadroneggiare la scena: attraverso loro, e lo script scritto dal regista insieme a Darryl Ponicsan (di quest’ultimo dopotutto il materiale di partenza, un romanzo pubblicato nel 2005: non è la prima volta che il novellista si “ricicla” nelle vesti di sceneggiatore, visto che nel 1973 scrisse per Mark Rydell Un grande amore da 50 dollari), prendono vita tre psicologie tutt’altro che semplificate o banali, complesse, costruite a strati come le diverse esistenze che hanno affrontano nei loro decenni sulla Terra. Uomini in fuga da loro stessi, prima di tutto, fuori dal tempo: gli sketch che riguardano la scoperta della telefonia mobile non solo non sono fini a loro stessi, ma tranciano la realtà in due metà, ponendo i tre nella zona più oscura, liminare, sconfinata – nel senso di fuori dai confini. Per quanto siano i primi a non esserne consapevoli, Sal Doc e Mueller sono tre figure borderline, tre reietti che non hanno più nulla tra le mani: gli affetti, anche quelli, gli vengono strappati via.

Il loro ostinato viaggio contro la volontà dell’esercito – che vorrebbe il cadavere del figlio di Larry sepolto con tutti gli onori del caso ad Arlington, in quel cimitero bianco come la colomba della pace e privo di ombreggiature di qualsiasi tipo – è una forma di resistenza che ha il sapore del tempo andato, e che possiede un furore classico che lo pone in ogni modo fuori dal moderno, dall’odierno, da contemporaneo. Dopo aver narrato generazioni che ambivano ancora a un sogno da poter rendere materiale (ma non è certo un caso che Dazed and Confused e Everybody Wants Some!! siano entrambi ambientati nel passato), Linklater racconta coloro che possono solo volgere indietro lo sguardo e cercare di capire dove si è interrotto quel viaggio che li avrebbe dovuti condurre a quel maledetto sogno, diventato sempre più un incubo. Lo fa con un tono crepuscolare e ironico, in grado di penetrare in profondità nello spettatore e condurlo per mano, con la nettezza e la pulizia di un tracciato lineare, privo di sbavature, brillante e dominato da un’intelligenza non comune. Sui titoli di coda un altro mesto edificatore di sogni, Bob Dylan, canta: «Well my sense of humanity has gone down the drain, behind every beautiful thing there’s been some kind of pain; She wrote me a letter and she wrote it so kind, She put down in writing what was in her mind. I just don’t see why I should even care… It’s not dark yet, but it’s getting there». Anche l’umanità dei tre protagonisti di Last Flag Flying è anno dopo anno scivolata nella fogna, e se da quella fogna possono di nuovo uscire è solo contando su quella che un tempo, mentre i proiettili volavano sulla loro testa, poteva essere chiamata “una vera amicizia”. Quella che ti fa prendere la macchina per viaggiare insieme a un uomo che non vedi da oltre trenta anni, che ti fa pentire dei tuoi sbagli, che ti fa indossare un’uniforme che avevi dimenticato nell’armadio. E che te la fa indossare sgualcita, come fa Sal, perché l’ordine geometrico e impeccabile è dei rituali. Rituali vuoti, privi dell’uomo. Bare viventi, simili a quelle che a migliaia riportano indietro cadaveri di ragazzi morti – chissà perché, chissà per cosa – dall’altra parte del mondo.

Pubblicato su quinlan.it il 29/10/2017 da Raffaele Meale