Narvel Roth è il
meticoloso orticoltore di Gracewood Gardens, una bellissima tenuta di proprietà
della ricca vedova, la signora Haverhill. Quando ordina a Roth di assumere la
tormentata pronipote Maya come sua apprendista, la sua vita viene gettata nel caos
ed emergono oscuri segreti dal suo passato.
Uno dei piaceri più comuni nella fruizione del cinema, e
dell’audiovisivo in generale (pensiamo alla serialità), è la riconoscibilità di
un canovaccio noto, di uno schema narrativo, che lo spettatore ama ritrovare,
sempre rinnovato, in ogni sua nuova visione. Questo tipo di appagamento si può
facilmente rinvenire nel cinema di Paul Schrader, appassionato cinefilo, abile
sceneggiatore, arguto autore di un cinema che non dimentica mai di omaggiare i
propri maestri (Bergman, Bresson, Ford, Dreyer) e di offrire una sempre nuova
declinazione dei temi che più gli stanno a cuore: colpa, espiazione,
redenzione. In questa triade essenziale, Schrader identifica il motore di ogni
sua sceneggiatura e della narrazione tout court: non principia nessuna storia
senza una colpa del passato, non si sviluppa alcun racconto senza il desiderio
di espiare e non c’è scopo altro che la redenzione.
Presentato fuori concorso a Venezia 79 (Settembre 2022), dove l’autore
ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, Master Gardner rappresenta il
terzo capitolo di un’ideale trilogia incentrata su personaggi virili solitari,
tormentati e “in cerca” – searchers fordiani – che comprende i precedenti First
Reformed e Il collezionista di carte. Ma se il protagonista del primo film
bramava un suo calvario personale, il giocatore andava incontro a una
redenzione nel sangue, il protagonista di Master Gardner desidera invece una
vera e propria, terrena, rigenerazione.
Narvel Roth (Joel Edgerton) è il “maestro giardiniere” dei
Gracewood Gardens, di proprietà della ricca possidente Signora Haverhill
(Sigourney Weaver), che come ogni anno intende far partecipare il suo giardino
a un prestigioso concorso. Sentendosi vicina al trapasso, la donna vuole
riappacificarsi con la pronipote Maya (Quintessa Swindell), ragazza ventenne
per metà afroamericana, rimasta sola dopo la morte della madre. La giovane
viene dunque assunta come apprendista e affidata alle cure e agli insegnamenti
di Narvel che, oltre ad occuparsi del giardino, offre saltuariamente le sue
prestazioni sessuali a Lady Haverhill. Tra maestro e discepola sboccia però
l’amore, e si genera così una pericolosa triangolazione di giochi di potere,
che vede nel vertice decisionale l’algida proprietaria terriera. Ma a far
tribolare davvero i due amanti sono le loro colpe pregresse. Lei deve liberarsi
di un ex fidanzato spacciatore, e il suo corpo deve rigenerarsi dalla
tossicodipendenza. Lui, invece, ha un passato di militanza in un gruppo di
neonazisti, passato che porta ben inciso sulla pelle, sotto forma di indelebili
tatuaggi, cicatrici perenni che non si rimarginano.
Accompagnato, come il precedente Il collezionista di carte,
dalla voice over del protagonista, che ci riporta le parole vergate nel suo
diario personale, Master Gardener innesta il suo racconto di sagaci e brillanti
metafore legate al tema dell’orticultura. A partire dall’iniziale illustrazione
delle tre tipologie di giardino: c’è quello che chiamiamo all’italiana, che
impone alla natura le regole umane della geometria, poi quello che vuole
apparire spontaneo, ma dove in realtà tutto è regolamentato, e infine c’è il
“giardino selvaggio” dove in ogni caso è un’utopia pensare che non vi sia
intervento umano. Inoltre, Narvel, come anche il protagonista di Il
collezionista di carte è ossessionato dal controllo e pensa che organizzare e
coltivare il giardino significhi credere nel futuro, e che le cose accadranno
secondo le regole. Ma se ci si può illudere di dettare un indirizzo alla natura
(certo, Werner Herzog non sarebbe d’accordo, ma siamo qui in tutt’altra poetica
autoriale), ben altra questione è governare le intenzioni e le azioni degli
esseri umani, le cui ragioni profonde possono essere talvolta imperscrutabili.
Non ci sono rastrelli, pale o setacci che tengano, quando si tratta di
estirpare “la malerba” da una persona. O forse sì, basta prendere in mano la
situazione e innescare un cambiamento. E il cambiamento si innesca qui, come
nei migliori noir e western del cinema classico, con un colpo di pistola. È da
lì che prendono inizialmente vita i flash sul passato di Nervel, ed è sempre da
lì che ha inizio poi il suo salvataggio di Maya, nuova reincarnazione di quei
personaggi femminili tanto amati da Schrader in quanto discendenti dalla Debbie
di Sentieri selvaggi (John Ford, 1956), pensiamo alla giovane prostituta
interpretata da Jodie Foster in Taxi Driver di Martin Scorsese (di cui Schrader
ha firmato lo script) o alla figlia perduta nel sottomondo degli snuff movies
da George C. Scott in Hardcore (1979).
Proprio come avviene per i protagonisti dei tre film su
citati – e come rivela esplicitamente la seconda parte di Master Gardener,
quasi tutta on the road – quello di Nervel è un viaggio, salvifico, certo, ma
anche prevalentemente orizzontale, come ben sottolineano le scelte stilistiche
di Schrader, maestro di regia e non solo di scrittura. Prediligendo movimenti
di macchina di avvicinamento e allontanamento ai luoghi e ai personaggi,
l’autore rinuncia infatti alla verticalità (non a caso non vediamo mai il
“disegno” complessivo del giardino) che trovavamo, coerentemente, in First
Reformed, perché qui l’obiettivo non è la trascendenza, questa è una storia
terrena, come ben dimostra la scena in cui il protagonista annusa il terriccio
da coltura, provando per esso una sorta di venerazione olfattiva.
No, non è Dio che cerca Nervel, ma una redenzione molto
terragna, attraverso l’amore reciproco, una rigenerazione fisica dunque: di
Maya, prevalentemente, che deve disintossicarsi, ma anche del giardino violato
e, in senso lato, dell’America stessa e delle sue origini, tutte da riscrivere.
Rude e sentimentale, proprio come il suo protagonista, ma
anche denso di speranza, Master Gardener è dunque una fulgida, commuovente
parabola di rifondazione, un western dunque, dove i due amanti protagonisti
incarnano i pionieri di un nuovo mondo/giardino da far rifiorire, i semi di un
rinnovato Eden americano: interraziale, popolare e non wasp, rigenerato e
selvaggio.
Pubblicato su
quinlan.it 05/09/2022 di Daria Pomponio
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Ci sono giardini “formali”, “informali” e “selvaggi”. I
primi sottomettono la natura a uno schema fisso inseguendo una perfetta
simmetria; i secondi ridiscutono tale prospettiva integrandola romanticamente
con i processi naturali; i terzi tendono invece ad azzerare ogni alterazione
artificiale liberando definitivamente lo sguardo. In quest’articolata
riflessione teorica che il giardiniere Narvel Roth (Joel Edgerton) ci presenta
a inizio film, però, una sola certezza appare incontrovertibile: “è impossibile
schematizzare la natura”.
Ci risiamo allora. Il cinema di Paul Schrader, da quasi
cinquant’anni, ragiona su questi stessi scarti di senso. Muovendosi con rara
etica dello sguardo tra forme codificate e rotture improvvise, carceri
immanenti ed evasioni trascendenti. Il grandissimo sceneggiatore/regista
americano, infatti, ha codificato nel corso dei decenni un archivio di regole
ossessivamente ripetute concependo il cinema come una sorta di rituale (del
resto, “i soggetti sono solo dei pretesti“, dice il maestro Bresson) aperto a
ogni piccola variazione su tema. Ed è proprio intorno a queste deviazioni dallo
spartito che puntualmente noi spettatori ci interroghiamo trasformando lo stile
cinematografico in una forma di vita. Le immagini in sentimenti.
E arriviamo a Master Gardener. Dopo i terribili traumi della
guerra in Iraq che direttamente o indirettamente influenzavano i protagonisti
di First Reformed e Il collezionista di carte, questa volta è il suprematismo
bianco di estrema destra il fantasma latente con cui fare i conti. Anni prima,
infatti, Narvel ha fatto parte di una violentissima organizzazione paramilitare
neonazista. Sino a quando una crisi familiare e spirituale lo ha convinto a
denunciare molti dei suoi compagni aderendo a un programma di protezione
testimoni e divenendo infine un bravissimo orticoltore. E quale giardino è
stato destinato a coltivare? Quello di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), una
ricca possidente reclusa nella sua enorme villa che da giovane si dilettava
addirittura a fare l’attrice. Molti segni, sin dal nome proprio, ci
porterebbero lontano… addirittura a pensare alla Norma Desmond di Viale del
tramonto. Con il “giardino di Norma” che diventerebbe idealmente il giardino
del cinema: uno spazio tutto potenziale dove i fiori (sin dai magnifici titoli
di testa) appaiono come immagini eteree e senza sfondo capaci da sole di far
balenare il desiderio di una catarsi.
Veniamo al punto. La floricoltura per Narvel, proprio come
il cinema per Schrader, è un lento percorso di cura da abbracciare con
lancinante sincerità e senza nessun compromesso. L’unico modo per sedare i
propri demoni interiori e tentare di dare una forma al caos del nostro mondo.
Quindi le regole autoimposte e la disciplina (“lo studio dello storia“) sono
custodite nuovamente in un diario come interfaccia spirituale per il
protagonista e come segno transtestuale per noi spettatori. Ma questo ancora
non basta! I traumi del passato non possono essere cancellati solo dai rituali
o dall’ascesi, proprio come gli osceni tatuaggi che Narvel decide
volontariamente di lasciare sulla sua pelle perché ancora pressanti nel fuori
campo della sua vita. Ci vuole pertanto il coraggio di accedere a una nuova
dimensione carnale e spirituale attraverso l’incontro con l’altro da sé. Quindi
attraverso un sublime momento rivelatore che apra crepe di vita nella superfice
delle cose. Ed eccoci all’irruzione di Maya (Quintessa Swindell), la
venticinquenne nipote di Norma: una ragazza che ha un rapporto difficile con la
famiglia, un padre afroamericano assente e vari problemi di tossicodipendenza.
L’incontro rivoluzionario e inatteso con con l’amore metterà definitivamente
alla prova il nuovo sistema di valori di Narvel e la sua commovente fede nella
rinascita.
Fermiamoci qui. Perché pur muovendosi con ostinata fiducia
nelle riconoscibilissime costanti narrative ed estetiche del cinema di
Schrader, Master Gardener riesce ancora a farci percepire istanze, sentimenti e
desideri dei personaggi come fosse la prima volta. Lasciandoci sulle soglie di
un finale ossessivamente ripetuto, eppure sempre bellissimo e travolgente per
tensione etica e potenza emotiva. Un film posto oltre ogni attualità e per
questo intimamente contemporaneo. Oltre ogni presa di posizione ideologica e
per questo immensamente politico. Oltre oltre cinefilia compiaciuta e per
questo cinefilo nel senso più puro e alto del termine. Insomma, il cinema
continua a essere per Schrader quel fertile giardino capace di far germogliare
semi ciclicamente uguali in frutti dotati di un’irriducibile singolarità.
Quella della nostra di vita.
Pubblicato su
sentieriselvaggi.it 4 Settembre 2022 di Pietro Masciullo