Samuel Fabelman è il primogenito di Burt e Mitzi, nonché
fratello maggiore di Reggie, Natalie, e Lisa. Quando ha sei anni i genitori lo
portano al cinema per la prima volta, e lo spettacolo di un incidente
ferroviario gli si installa nella mente, terrorizzandolo. Come riprodurre
quella paura, per far sì che cessi? In soccorso arriva la cinepresa amatoriale
di famiglia…
“Where’s the horizon?”, chiede con fare burbero e ben poco
condiscendente John Ford a un ragazzo che gli si pianta davanti nel suo
ufficio. Perché l’orizzonte non è solo un punto, ma è una prospettiva, il senso
di un perché cinematografico, e dunque di un perché della e nella vita. Ma su
questo punto occorrerà tornare più tardi. Tutti conoscono il termine
imprinting, anche se in pochi probabilmente sanno che il suo utilizzo derivò
solo dalla necessità di tradurre in inglese i testi originali dell’etologo Konrad
Lorenz, che parlava di Prägung: praticamente tutti i vertebrati presentano
all’inizio della loro esistenza delle forme di imprinting, vale a dire
l’apprendimento per esposizione, la capacità di un neonato di emulare il
comportamento di un adulto in modo da comprendere istintivamente l’incombere di
un pericolo. Quando Lorenz dà alle stampe il suo volume fondamentale, vale a
dire L’anello di re Salomone (Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den
Fischen, letteralmente “Parlò al bestiame, agli uccelli, e ai pesci”) è il 1949
e il cinematografo ha da poco festeggiato il mezzo secolo di vita. L’intero
Novecento, infatti, ha sviluppato il suo imprinting nei confronti del cinema,
perché la settima arte è l’arte per eccellenza del Ventesimo secolo. E quell’imprinting
passa per le rotaie di un treno: è un treno quello che arriva alla stazione di
La Ciotat nel 1895, a quanto si dice terrorizzando gli spettatori alla prima
proiezione pubblica – restando in tema fordiano si sa che tra realtà e leggenda
è quest’ultima a prevalere –, ed è un treno anche quello attorno al quale ruota
The Great Train Robbery di Edwin S. Porter, che nel 1903 diventa il primo
western iconograficamente compiuto e quindi di fatto il progenitore dell’intera
industria hollywoodiana. Anche lo stupore negli occhi del seienne Sam Fabelman
di fronte alla sua prima sortita in una sala cinematografica passa per le
rotaie di un treno: è lì che si raggiunge l’acme ne Il più grande spettacolo
del mondo di Cecil B. DeMille, con lo scontro terrificante tra due convogli.
Eccolo l’imprinting di Samuel Fabelman, un incidente ferroviario che tutto
distrugge, e che appare credibile, vero al di là di qualsiasi finzione.
È notorio come il film di DeMille abbia segnato in
profondità il piccolo Steven Spielberg che in seguito a quella visione iniziò a
girare filmini amatoriali in casa, utilizzando la cinepresa super-8 di
famiglia, ed è quindi inevitabile per lo spettatore che si avvicina a The
Fabelmans vedere nel piccolo Sammy un alter ego del regista. Dopotutto gli
elementi della trama che collimano con la biografia di Spielberg non sono
pochi: la famiglia ebraica di origine russo-ucraina (cantano davanti al fuoco,
durante un campeggio, Kalinka di Ivan Petrovič Larionov) composta oltre che dai
genitori e da Sam anche da tre sorelle minori; il lavoro del padre, ingegnere
elettronico, e della madre, pianista che ha abbandonato la carriera musicale
per la famiglia; lo spostamento di città in città per seguire la professione
paterna, che dal New Jersey porterà i Fabelman in Arizona e quindi in
California; il bullismo subito al liceo, in gran parte causato
dall’antisemitismo, che il regista ha raccontato in varie interviste, perfino
in Italia al Corriere della Sera in occasione della proiezione veneziana di The
Terminal nel 2004 («Avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e
di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che
mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano “sporco ebreo”»). È evidente
che The Fabelman racchiuda al proprio interno molti elementi autobiografici, e
non è certo un caso che il regista torni a firmare una sceneggiatura – a cui ha
lavorato con Tony Kushner: è la quarta collaborazione tra i due dopo Munich,
Lincoln, e West Side Story – a oltre venti anni di distanza da A.I. –
Intelligenza Artificiale e addirittura quarantacinque anni dopo Incontri
ravvicinati del terzo tipo. Dopotutto se si esclude il côté fantascientifico
degli altri due film tutti e tre condividono una riflessione amara sulla
famiglia, sull’inevitabile disgregarsi degli affetti, e sull’imprinting,
l’ossessione che guida i protagonisti. L’imprinting di Richard Dreyfuss è
l’immagine della Torre del Diavolo in Wyoming; quello di Haley Joel Osment è la
madre, la prima cosa che ha visto aprendo gli occhi; quello, infine, di Sam
Fabelman è il cinema.
Ma sarebbe riduttivo, oltre che poco “preciso”, considerare
The Fabelman un film cinefilo. Non lo è, nonostante inizi in una sala
cinematografica e poi si sviluppi anche attraverso il cinema – si pensi alla
sequenza di L’uomo che uccise Liberty Valance. E non è neanche un film sulla
cinefilia, e sul perché un ragazzino della classe media del New Jersey dovrebbe
decidere di diventare regista: il giovane Sam non ha nulla a che spartire con
Dawson Leery, tra i protagonisti del serial Dawson’s Creek quello che voleva
diventare a tutti i costi regista e da amante indefesso di Spielberg passava le
ore nella sua cameretta a passare al setaccio i suoi film per scoprire le gemme
preziose più nascoste. No, Sam ama il cinema, ma quello di Spielberg non è il
romanzo di formazione di un giovane cinefilo. Non è neanche importante capire
se da grande diventerà davvero un regista questo gracile ebreo che partecipa
alla vita degli scout e vorrebbe le luminarie di Natale a dare calore alla casa
invece della singola candela che ogni giorno viene accesa per festeggiare
Hannukkah. Ancora sconvolto dalla visione de Il più grande spettacolo del
mondo, che lo ha profondamente turbato, Sam chiede per regalo per le festività
un trenino elettrico, che il padre ingegnere è ben felice di acquistare. Il
trenino si muove sulla rotaia in modo perfetto, eppure non basta a Sam. In
realtà non è ciò che voleva. Poi d’improvviso comprende: lui non voleva il
trenino, ma la possibilità di replicare quell’incidente trionfale e
catastrofico mille volte, e dunque crea un incidente e lo riprende in super-8.
Solo attraverso l’immagine in movimento – motion picture, come gli spiega il
padre prima di entrare per esordire alla visione sul grande schermo – si può
esorcizzare la propria paura più profonda, solo ricorrendo al cinema si può
davvero tentare un’analisi di sé, e del mondo circostante. Questa esperienza
sarà il vero leit motiv di The Fabelmans, insieme alla crisi coniugale tra i
genitori (eccellenti Paul Dano e Michelle Williams, come del resto tutto il
cast a partire dal diciannovenne Gabriel LaBelle che interpreta Sam). Anzi,
sarà proprio attraverso lo studio di una pellicola in moviola che il ragazzo si
renderà conto che non tutto fila liscio tra i genitori.
È quella appena citata una delle tre sequenze chiave che
Spielberg costruisce per far comprendere appieno il senso che lui stesso in
primis dà al cinema, e al concetto di crescita. Dopo il succitato campeggio e
l’improvvisa morte della nonna, la madre di sua madre, Sam viene spinto dal
padre a montare le riprese fatte tra la tenda e il falò in modo da alleggerire
lo stato d’animo della moglie: mentre si trova in moviola, però, rivedendo
tutto il materiale girato, Sam comprende che c’è un non detto che si agita
all’interno della sua famiglia, e del quale lui non si era mai reso conto. Tale
disvelamento, che è negli occhi di Sam come in quelli dello spettatore, avviene
mentre la madre sta suonando Bach al pianoforte, e il padre la ascolta assorto,
quasi rapito. Non c’è nessun dialogo, non c’è bisogno di nessuna parola per
articolare un concetto: basta l’immagine, e il suo peso (im)materiale. D’altro
canto era stato pochi giorni prima il prozio Boris, fratello della nonna
defunta (che aveva lavorato nell’industria cinematografica all’epoca del muto,
in particolar modo sul set de La capanna dello zio Tom per la regia di Harry A.
Pollard) a pregarlo di smetterla di parlare per raccontargli lo storyboard che
aveva approntato, visto che bastano le immagini. Oltre a questa e a quella già
descritta del trenino ripreso per riprodurre l’incidente visto nel film di
DeMille, c’è una terza sequenza particolarmente significativa. È il ballo di
fine anno nel liceo che frequenta nel nord della California, e Sam vi si reca
con la sua fidanzatina Monica – una invasata cristiana, che ha disseminato la
sua camera con poster raffiguranti Gesù –, anche perché verrà mostrato
all’intera scuola il filmino in 16mm che ha diretto durante una gita collettiva
al mare. Il breve film è un grande successo, ma scatena la crisi di Logan, uno
dei bulli che nel corso dell’anno ha perseguitato Sam insultandolo per via
delle sue origini: nonostante questi screzi, infatti, Sam nel suo film lo ha
descritto per le sue doti migliori, quelle atletiche. Esiste dunque una
distanza quando ci si pone dietro la macchina da presa, e Sam l’ha imparata suo
malgrado, in modo quasi istintivo, quello stesso istinto che all’epoca del
filmino The Last Gun – diretto a tredici anni: questo, come anche il corto di
guerra Escape to Nowhere diretto a quindici anni sono altri due riferimenti
diretti alla vera biografia di Spielberg – gli fece bucare con uno spillo la
pellicola per fingere il colpo sparato dalla pistola. Dunque il cinema non è un
sollazzo, un modo per giocare con i film degli altri, ma un vero e proprio
addestramento alla vita, il modo per una persona timida di comprendere meglio
se stesso, e gli altri.
“Were’s the Horizon?”, si torna al quesito di John Ford, che
com’è noto da mesi Spielberg affida alle cure di un suo coetaneo collega, David
Lynch. “When the horizon is at
the top, it’s interesting,”, continua Ford, “when it’s on the bottom, it’s
interesting. When it’s in the middle, it’s fucking boring!”; sta dunque
a Sam comprendere dove si trovi la linea dell’orizzonte, e in che modo può
essere giusto riprenderla, osservarla, mostrarla agli altri. In qualche misura
The Fabelmans è il racconto di questo, del tentativo di guardare senza paura
l’orizzonte e accettarlo, affrontarlo, superando la wilderness dell’esistenza.
Spielberg, che non disdegna qualche piccolo omaggio affettuoso agli amici di
sempre – il ballo di fine anno rimanda inevitabilmente sia ad American Graffiti
di George Lucas che a Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, tanto per fare un
esempio –, affronta la magnifica, dolorosa, e in realtà normalissima
adolescenza del suo alter ego con uno sguardo sempre partecipe, mai retorico
neanche nei momenti apparentemente più didascalici (lo dimostra la crisi
personale che la madre pensa di risolvere portando in casa una scimmietta, un
cebo cappuccino come quello messo in scena appena cinque anni fa da Lynch nel
surreale cortometraggio What Did Jack Do?), e intriso di una melanconica
dolcezza struggente. La dolcezza che si respirava anche nella rivisitazione del
musical già portato in scena al cinema da Robert Wise e Jerome Robbins, e che
altro non è se non la constatazione della fine dei tempi, della morte di quel
cinema e di quel mondo (il mondo in cui è vissuto lui, che è anche quello di Lynch
e conteneva ancora i tempi di Ford, e magari perfino del muto), e del
dissolversi perfino delle memorie. Questa melanconia viene smussata da
un’ironia feroce, contagiosa, che trova anche battute spiazzanti (quando una
compagna di scuola gli chieda come faccia a vivere senza Gesù nel cuore Sam
risponde “Ci riusciamo da oltre cinquemila anni, si vede che si può fare”) e
che rende The Fabelmans la prima commedia spielbergiana dai tempi di The
Terminal, diciotto anni fa. Ma forse più di ogni altra cosa The Fabelmans è lo
studio, la rappresentazione, e la testimonianza più fertile di un dettaglio che
ha sempre reso unico l’approccio alla regia di Spielberg, fin dai primissimi
film, vale a dire la capacità di rendere il senso di meraviglia dei suoi
protagonisti. Non c’è bisogno di alcun controcampo quando l’effetto di ciò che
è fuori scena lo si può leggere senza errori o indugi già sul volto del
personaggio che sta assistendo a quel che accade. L’apparizione di E.T. è già
negli occhi di Elliot, così come i diplodochi si vedono già nello sguardo di
Ellie Sattler. Non è importante quel che sta davvero proiettando il fascio di
luce se si può scoprire quella verità già con il primo piano di Michelle
Williams; The Fabelmans ne è letteralmente disseminato, quasi si trattasse di
una rivendicazione poetica in piena regola. Gli uomini giganti sul grande
schermo sono lì a fare quello che il montaggio ha deciso facciano, ma Spielberg
si concentra sul primissimo piano di Sam a sei anni, sprofondato nella
poltroncina tra mamma e papà, gli affetti che però non sono l’imprinting, non
sono la crescita, non sono l’evoluzione. Un film sincero, tragico, struggente,
spietato, che lascia a bocca aperta: potere del senso di meraviglia.
Pubblicato su quinlan.it il 10/20/2022
di Raffaele Meale
Prima delle biciclette di E.T. ci sono stati i carrelli
della spesa che si muovevano in mezzo la strada sotto il tornado in The
Fabelmans. Perché si, in qualunque momento ci si può alzare da terra e volare.
Proprio come uno dei ragazzi che ha bullizzato Sammy nella scuola della
California ma nel film che il protagonista ha fatto per il Ditch Day del 1964,
lo ha reso una specie di angelo. Il cinema può cambiare sempre le cose. Può
essere una cinepresa amatoriale o un Arriflex 16 mm. Non importa. The Fabelmans
sottolinea che è sempre un fotogramma che fa la differenza. Proprio come uno
rivelatore della sua famiglia che farà saltare tutti gli equilibri. Da una sola
immagine possono partire tante storie che non sono state mai viste, oppure
erano nascoste. “Dov’è l’orizzonte?”. Per Sammy ci sarà proprio un incontro
fondamentale che diventerà decisivo nella costruzione dell’immagine
cinematografica come regista. Bisogna sempre guardare dov’è l’orizzonte.
“Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è
interessante. Quando è al centro, è una palla mortale”.
Si potrebbe riavvolgere tutto The Fabelmans all’indietro. Anzi,
ripercorrere la filmografia di Spielberg da oggi agli inizi per cercare dove
sta l’orizzonte. Scritto da Spielberg con Tony Kushner, il film ha come
protagonista Sammy e la sua famiglia di cui fanno parte il padre Burt (Paul
Dano), la madre Mitzi (Michelle Williams), le sorelle. Con loro c’è poi sempre
lo zio Bennie (Seth Rogen), migliore amico del padre che è ormai diventato uno
di famiglia. I Fabelmans si trasferiscono dal New Jersey prima in Arizona e poi
in California, dopo che Burt ha avuto una promozione sul lavoro. In
un’atmosfera apparentemente serena c’è proprio quel dettaglio rubato dalla
cinepresa di Sammy, che all’epoca aveva circa 16 anni, che fa saltare tutti gli
equilibri.
In The Fabelmans c’è tutta la magia, la paura e la
spietatezza del cinema. La cinepresa cattura dettagli che l’occhio umano non
vede. Inoltre non è il solo, appassionante, viaggio nostalgico: i film della
vita, i registi fondamentali per la formazione. O almeno non solo. Certo, ci
sono due passaggi fondamentali: Il più grande spettacolo del mondo (1952) e
L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Cecil B. De Mille e John Ford. Sono
questi i modelli da imitare nella testa di Sammy. Del primo rimarrà impresso lo
scontro tra l’auto dei delinquenti e il treno del circo che per il protagonista
diventerà un’ossessione e cercherà di rifarlo più volte prima con i modellini
del trenino e poi ripreso da una piccola cinepresa su consiglio della madre. Il
secondo rappresenta l’ipnosi. Sammy è in sala con i suoi amici che fanno
casino. Lui si sposta in avanti e, in seguito ricrea un set per rifare, anche
lui, un western.
Il film della sua famiglia è il (suo) film della vita. È
coming of age, commedia familiare, melodramma, viaggio nel mondo dei sogni. Il
set si può accendere in ogni momento: i fari della macchina che illuminano
Mitzi che balla con un vestito trasparente. Bisognerebbe rivedere questa
immagine davanti, per esempio, ad Always. Per sempre. Perché fa capire come c’è
qualcosa che va oltre la sceneggiatura di ferro, l’inquadratura perfetta, un
cast da urlo. Non è qualcosa che si può spiegare razionalmente. Certo, è
l’istinto ma non basta. È qualcosa di soprannaturale, di divino. Il cinema di
Spielberg vola anche quando resta a terra. Succede anche nelle scene più
comiche con i dialoghi su Gesù con la ragazza che è stata la prima cotta per
Sammy. La scena nella camera da letto di lei e del ballo scolastico, in
pochissimo tempo, già raccontano un solo, intero, film.
L’autobiografia non è fatto soltanto di episodi. Dentro The
Fabelmans ci sono tanti Effetto notte: il film di guerra Escape to Nowhere
girato da Sammy dove c’è il soldato che piange mentre tutti i suoi uomini sono
a terra; l’intuizione della pellicola perforata con le puntine ispirato al
foglio dello spartito musicale bucato dal tacco della madre. Ci sono tanti
buchi, fessure, da dove si può guardare tutto. A 76 anni lo stupore e la
meraviglia di Spielberg sono ancora
intatti. Sono sempre quelli del suo miglior cinema. Ma The Fabelmans va oltre.
Diventa una confessione struggente vista non solo attraverso gli occhi di
Sammy, ma con quelli di Sammy e la sua cinepresa. E Spielberg ritrova se stesso
adolescente attraverso il volto e l’incredibile performance di Gabriel LaBelle.
Cambia tutto. È anche una lezione di cinema assoluta. Finalmente non c’è più
bisogno di tirare in ballo 8 1/2 quando si parla di un film sul cinema. Negli
anni Dieci film ha fatto film fondamentali: Lincoln, The Post, West Side Story.
The Fabelmans è quello che li raccoglie tutti, anche i precedenti. C’è
l’immaginario backstage. C’è il senso del ritmo. C’è la ricerca della
dimensione spettacolare e quella invece più privata e intima. Si può vedere
anche soltanto in un’inquadratura. Gli occhi spaventati di Sammy mentre guarda
al cinema lo scontro tra il treno e la macchina. Si, il cinema è “il più grande spettacolo del mondo”. Sono
pochissimi i film della storia del cinema che finiscono troppo presto anche se
durano 151 minuti. The Fabelmans è uno di questi.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 20/10/22 di Simone
Emiliani
The Fabelmans è l’ultima creatura cinematografica di Steven
Spielberg, un nome gigantesco che, ancora una volta, con questo film, ha saputo
brillare e stupire, aprendosi al pubblico nel modo più sincero ed intimo
possibile. La pellicola è stata inizialmente proiettata al Toronto International
Film Festival, dove ha conquistato il People’s Choice Award, ed è stata
presentata in anteprima nazionale alla 17esima edizione della Festa del Cinema
di Roma in collaborazione con Alice nella Città. Il titolo sarà nelle sale
italiane dal 22 dicembre 2022 grazie a 01Distribution.
The Fabelmans ha una dote davvero rara, che ultimamente non
è per nulla semplice rintracciare nelle varie opere che affollano il grande e
piccolo schermo: la profonda empatia. Dal primo momento in cui vediamo Sammy
Fabelman (Gabriel LaBelle da ragazzo), la sua storia diventa automaticamente la
nostra, perché il cinema, per quanto possa essere una passione per moltissimi,
un’ossessione per alcuni, un lavoro per visionari e sognatori, ha incrociato la
strada di tutti, nel bene e nel male. Vedere la propria esperienza di vita
riflessa in uno specchio può provocare turbamento, forti emozioni, ma parla con
chiarezza alla nostra interiorità e ci fa innamorare ancora una volta del
Cinema.
The Fabelmans ha un obiettivo ben preciso e puntuale, che
viene perseguito per l’intera durata del lungometraggio: raccontare una
passione, ovviamente nel caso di Spielberg è l’arte di fare film, ma il suo
discorso è talmente tanto complesso e ricco di sfumature da potersi applicare
più generalmente alle nostre ambizioni e desideri più ardenti. L’approccio del
giovane protagonista al Cinema è una lezione di vita profonda, priva di ogni
orpello motivazionale o di una retorica spicciola, il suo ardore e la sua
insana ostinazione diventano quello degli spettatori. Da quella prima volta in
sala, nel 1952, a vedere Il più grande spettacolo del mondo, all’inizio della
sua carriera nella parte conclusiva della pellicola, il cineasta riesce a non mollare
mai la presa sul pubblico.
Ci riesce non solo perché la storia che racconta è
ovviamente sincera e vera, perché è effettivamente la sua anche se nascosta da
degli pseudonimi, ma anche perché descrive la sua passione con tutte le
sfumature possibili ed il miracolo si verifica quando arriva a condensare, in
circa 2 ore 30 di girato, tutti i successi e le sconfitte, la gloria e il
trionfo, i fallimenti e gli ostacoli del suo viaggio emotivo e artistico che
poi convoglia nel suo lavoro da regista. “Il cinema è solo un hobby”, è
“un’arte che ti spezza in due”, è un mondo salvifico, ma anche pericoloso:
tutte parole che non ci risultano nuove, specialmente se almeno una volta nella
vita abbiamo trovato qualcosa che ci smuove l’animo da dentro.
Per raggiungere questa particolare connessione con gli
spettatori, in The Fabelmans la regia di Spielberg è in continua trasformazione
ed evoluzione: rappresentativo in tal senso è il cammino registico che fa
proprio Sammy, che viene mostrato dall’inizio alla fine dal suo punto di vista,
cominciando con una semplice scena dove un treno si schianta contro una
macchina, arrivando poi a sequenze più complesse e ricche di comparse,
soluzioni ardite, inquadrature inaspettate. Il nostro sguardo, di conseguenza,
guarda avanti e dietro la cinepresa, osserva il risultato finale, ma anche la
preparazione che c’è dietro. Non c’è probabilmente modo migliore per incarnare
il vero significato del Cinema, perché si unisce emozione, tecnica,
artigianalità e rigore.
Ed è lì che avviene lo stupore e la magia, proprio nel
momento in cui, parallelamente, il film-maker ci parla da un lato della sua
inesauribile forza d’animo che ripone nella sua arte preferita nonostante i
continui conflitti interni ed esterni che coinvolgono in particolare la sua
famiglia; dall’altro, con la macchina da presa, ci pone davanti alla sua
visione e ci fa crescere con lui, ci ispira, seduce, ma anche allontana. Ma
incredibilmente, il film riesce a non essere solo questo, perché la regia non
solo riproduce una passione in maniera millimetrica ed emotiva, ma sceglie
anche di rappresentare il Cinema dall’altra parte della barricata, dalla
prospettiva degli spettatori.
In The Fabelmans, infatti, l’occhio di Spielberg si
concentra profondamente sulle risposte emotive dei vari personaggi alle opere
di Sammy ed è curioso notare come ognuna di loro è diversa, proprio come sono
differenti le opinioni di ognuno di noi di fronte ad un particolare film,
nessuna è replicabile ed è questo uno degli elementi più affascinanti della
settima arte. Se uniamo quindi la sua esperienza sul campo alle reazioni
effettive degli altri, arriviamo diretti ad un’universalità che riesce a
ricoprire a tutto tondo l’esperienza cinematografica.
Questa avventura totalizzante è resa ancora più evidente da
un copione, redatto dallo stesso regista in compagnia di Tony Kushner, che
racchiude, probabilmente, tutte le variabili emotive dell’essere umano senza
però rinunciare ad una divisione a tappe chirurgica e perfetta, quasi
rappresentando l’esigenza di un controllo nel processo artistico. In essa
confluiscono il dramma familiare che tra l’altro ha un ruolo fondante
all’interno della trama ad una comicità genuina e spontanea. Il tutto tenuto
legato da un esistenzialismo brillante, che emerge in alcuni passaggi narrativi
chiave del film, tra i quali spicca, in particolare, l’incontro con John Ford,
un momento catartico che riesce a racchiudere in pochi minuti l’intero significato
della realizzazione.
Parlando degli interpreti del film, si avverte una
familiarità impressionante (dimostrando una ricerca notevole da parte del
casting), seguita poi da una certezza: il talento smisurato per ogni singolo
attore coinvolto all’interno del progetto. Inevitabilmente, però, c’è sempre
chi ruba la scena e in questo caso non abbiamo dubbi nel definire Michelle
Williams il vero astro splendente, una figura cardine per la vita del
protagonista che è stata riportata alla luce con sentimento e delicatezza. Non
possiamo inoltre dimenticarci di quel David Lynch che torna sul grande schermo
con una parte profetica e metacinematografica, un attestato di stima artistica
che non passa inosservata. E silenzioso, in un angolo, in modo composto,
elegante e servile, c’è anche John Williams e la sua musica, un impronta
fondamentale e indispensabile per la riuscita del lungometraggio.
The Fabelmans è un lungometraggio che ti rimane dentro, che
brucia con un’intensità strabiliante ed esplosiva, che ci tiene in piedi,
incollati allo schermo ad osservare l’epopea umana, ma eccezionale di un
regista che ha votato l’intera vita alla sua passione. Grazie al potere
narrativo e immaginifico del cinema, quella sua ossessione così ostinata
diventa la nostra, una storia che non può passare in sordina perché la regia ci
tiene per mano, mostrandoci la sua arte in profondità su più livelli
interpretativi. Anche la sceneggiatura è immersiva e profonda nella sua
costruzione e contenuto, rappresentando diverse sfumature emotive, ma
mantenendo una linea ordinata e puntuale. Il sogno diventa vero e tangibile,
infine, grazie anche alle essenziali note di Williams e lo smisurato talento
degli attori: degli elementi fin troppo importanti che ci legano ancora più
alla fiaba cinematografica di Steven Spielberg.
Pubblicato su cinematographe.it il 20/10/22 di Massimiliano Meucci