martedì 25 ottobre 2022

Oren Ambarchi - Shebang

 

The most difficult music sometimes makes it look easy, almost as if nothing’s happening at all. Glenn Branca’s electric guitar symphonies aren’t that hard to play. Chopin’s Nocturnes might seem deceptively simple, given their fragile beauty. Terry Riley’s In C is literally one note. Peeking beneath the hood of any of the above reveals each to require titanic powers of concentration, focus, and an almost psychic connection with the instrument.

If you’re not paying attention, you might be tempted to think there’s not much happening with Shebang, the newest from Australian avant guitarist/composer/experimenter par excellence Oren Ambarchi. It’s the third in a triptych of albums focusing on rhythm, following 2014’s Quixotism and 2016’s Hubris. Shebang picks up where Hubris‘ rhythmic pulse left off, with stuttering pointillist percussive guitar from Ambarchi creating a scaffolding over which an all-star cast of international improvisers weave an impressively random array of sounds and exquisite improvisation.

Like Hubris, Shebang is structured as four “movements,” or maybe sections would be more apt, as there’s not a whole lot moving here. Or, rather, everything’s moving, constantly, as crystalline guitar harmonics are joined by odd underpinnings of bass, triggered by Ambarchi’s guitar, and what sounds like a synth, giving the proceedings the air of an arthouse ’80s psychological drama, To Live and Die in L.A. by way of Steve Reich. Before long, the atonal stringed instruments are joined by the driving, propulsive groove of Joe Talia’s high hat, at which point the band seem to seamlessly shift into an excellent fusion band, as if Teo Macero were remixing Goblin for Miles Davis’ Bitches Brew. The scene shifts, yet again, with the introduction of a pedal steel slide guitar, courtesy of BJ Cole of “Tiny Dancer” fame, of all things. The atmospheric pedal steel, entirely out of the blue and seemingly out of thin air, perhaps inevitably brings to mind Brian Eno’s Apollo: Atmospheres and Soundtracks, at which point the whole affair takes on an “out of this world” quality for a moment.

What is most impressive of all of this is the fact that this all-star group of stellar improvisers were never in the same physical space while making Shebang. This level of detailed, concentrated, focused playing is always deserving of accolades, even if it’s not the flashiest thing in the world. The fact that this level of precision can be achieved across continents is vaguely mind-blowing.

Listening to Shebang, it’s clear there’s some sort of guiding principle at play but it’s not immediately obvious what it is. Slinky guitar arpeggios, sounding more like something from a gamelan orchestra or African marimba ensemble, seem to set off corresponding bass runs – exactly how is anybody’s guess. It gives the feeling of some larger pattern at work, of staring at a time-lapse video of spreading chemical reactions, unthinkably complex and impossible to comprehend. Yet there is a method to the madness; there is a pattern to the chaos. That idea brings a bit of peace.

Anyone looking for big, grand gestures in Shebang is likely to be slightly frustrated, though. This is music for prolonged concentration, demanding focus and attention to truly appreciate its craftsmanship. For those willing to brave the 40-minute runtime of experimental instrumental improv, though, it’s a hypnotic, meditative journey that’s well worth taking.

Pubblicato su spectrumculture.com 2022/10/11 By J Simpson


Il flusso è un concetto importante nello stile di Oren Ambarchi, un elemento che ha trovato un primo pieno compimento nell’ottimo Saggittarian Domain (2012) per riemergere di tanto in tanto in alcuni lavori lunghi. Tra questi, il nuovo Sheband, terzo capitolo di una trilogia dedicata allo studio ritmico che comprende anche gli album Quixotism (2014) e Hubris (2016). Se in quest’ultimo il Nostro cavalcava in solitaria linee techno dal sapore krauto, nel precedente chiamava a raccolta una schiera di amici e collaboratori (Thomas Brinkmann, Matt Chamberlain, Crys Cole, Eyvind Kang, Jim O’ Rourke, John Tilbury, U-zhaanper, Ilan Volkov & the Icelandic Symphony Orchestra) viaggiando con millimetrica precisione all’interno di teorie contemporanee.

Un folto gruppo di compagni d’avventura torna ad animare anche la nuova fatica, opera in quattro atti dall’incedere avant jazz distesa su un unico tempo che ne mantiene salda la pervicace consequenzialità: un movimento costante e intelligentemente sostenuto da cambiamenti di intensità e variazioni grandangolari a oliarne lo scorrimento. A dare l’avvio, la sei corde di Ambarchi, che stratifica una fitta ragnatela di note cristalline e armonici componendo un denso quadro di armonie nevrotiche. Una sommatoria che si sviluppa con tutto il tempo necessario fino all’ingresso del batterista australiano Joe Talia a disegnarne lo scheletro ritmico con sincopi jazzate.

La seconda parte regola morbide implosioni funk fusion esaltate dalla steel guitar di B.J. Cole e con Sam Dunscombe a incresparle di dissonanze di clarinetto basso, mentre leggeri impulsi elettronici dirigono il suono dentro teorie circolari à la Necks. Più di un’evocazione, visto che nella terza parte è proprio Chris Abrahams dell’avant trio australiano a incentivare l’ipnosi con i suoi austeri ed eleganti fraseggi di pianoforte; Johan Berthling (già con il Nostro nel recente Ghosted) sostiene con bassi dub, e i tagli di synth di O’Rourke si ergono sotto la linea dell’orizzonte. L’ultima parte accoglie la 12 corde di Julia Reidy a scarnificare il suono con puntellature squillanti, l’umore essiccato gradatamente riprende il passo spingendo la stasi al suo apice. La tensione declina rapidamente in dispersioni sintetiche, ciò che doveva esser detto è stato detto e con classe.

Pubblicato su sentireascoltare.com di Massimo Onza,  23/10/22


THE FABELMANS (2022) di Steven Spielberg

 


Samuel Fabelman è il primogenito di Burt e Mitzi, nonché fratello maggiore di Reggie, Natalie, e Lisa. Quando ha sei anni i genitori lo portano al cinema per la prima volta, e lo spettacolo di un incidente ferroviario gli si installa nella mente, terrorizzandolo. Come riprodurre quella paura, per far sì che cessi? In soccorso arriva la cinepresa amatoriale di famiglia… 

“Where’s the horizon?”, chiede con fare burbero e ben poco condiscendente John Ford a un ragazzo che gli si pianta davanti nel suo ufficio. Perché l’orizzonte non è solo un punto, ma è una prospettiva, il senso di un perché cinematografico, e dunque di un perché della e nella vita. Ma su questo punto occorrerà tornare più tardi. Tutti conoscono il termine imprinting, anche se in pochi probabilmente sanno che il suo utilizzo derivò solo dalla necessità di tradurre in inglese i testi originali dell’etologo Konrad Lorenz, che parlava di Prägung: praticamente tutti i vertebrati presentano all’inizio della loro esistenza delle forme di imprinting, vale a dire l’apprendimento per esposizione, la capacità di un neonato di emulare il comportamento di un adulto in modo da comprendere istintivamente l’incombere di un pericolo. Quando Lorenz dà alle stampe il suo volume fondamentale, vale a dire L’anello di re Salomone (Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen, letteralmente “Parlò al bestiame, agli uccelli, e ai pesci”) è il 1949 e il cinematografo ha da poco festeggiato il mezzo secolo di vita. L’intero Novecento, infatti, ha sviluppato il suo imprinting nei confronti del cinema, perché la settima arte è l’arte per eccellenza del Ventesimo secolo. E quell’imprinting passa per le rotaie di un treno: è un treno quello che arriva alla stazione di La Ciotat nel 1895, a quanto si dice terrorizzando gli spettatori alla prima proiezione pubblica – restando in tema fordiano si sa che tra realtà e leggenda è quest’ultima a prevalere –, ed è un treno anche quello attorno al quale ruota The Great Train Robbery di Edwin S. Porter, che nel 1903 diventa il primo western iconograficamente compiuto e quindi di fatto il progenitore dell’intera industria hollywoodiana. Anche lo stupore negli occhi del seienne Sam Fabelman di fronte alla sua prima sortita in una sala cinematografica passa per le rotaie di un treno: è lì che si raggiunge l’acme ne Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, con lo scontro terrificante tra due convogli. Eccolo l’imprinting di Samuel Fabelman, un incidente ferroviario che tutto distrugge, e che appare credibile, vero al di là di qualsiasi finzione.

È notorio come il film di DeMille abbia segnato in profondità il piccolo Steven Spielberg che in seguito a quella visione iniziò a girare filmini amatoriali in casa, utilizzando la cinepresa super-8 di famiglia, ed è quindi inevitabile per lo spettatore che si avvicina a The Fabelmans vedere nel piccolo Sammy un alter ego del regista. Dopotutto gli elementi della trama che collimano con la biografia di Spielberg non sono pochi: la famiglia ebraica di origine russo-ucraina (cantano davanti al fuoco, durante un campeggio, Kalinka di Ivan Petrovič Larionov) composta oltre che dai genitori e da Sam anche da tre sorelle minori; il lavoro del padre, ingegnere elettronico, e della madre, pianista che ha abbandonato la carriera musicale per la famiglia; lo spostamento di città in città per seguire la professione paterna, che dal New Jersey porterà i Fabelman in Arizona e quindi in California; il bullismo subito al liceo, in gran parte causato dall’antisemitismo, che il regista ha raccontato in varie interviste, perfino in Italia al Corriere della Sera in occasione della proiezione veneziana di The Terminal nel 2004 («Avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano “sporco ebreo”»). È evidente che The Fabelman racchiuda al proprio interno molti elementi autobiografici, e non è certo un caso che il regista torni a firmare una sceneggiatura – a cui ha lavorato con Tony Kushner: è la quarta collaborazione tra i due dopo Munich, Lincoln, e West Side Story – a oltre venti anni di distanza da A.I. – Intelligenza Artificiale e addirittura quarantacinque anni dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Dopotutto se si esclude il côté fantascientifico degli altri due film tutti e tre condividono una riflessione amara sulla famiglia, sull’inevitabile disgregarsi degli affetti, e sull’imprinting, l’ossessione che guida i protagonisti. L’imprinting di Richard Dreyfuss è l’immagine della Torre del Diavolo in Wyoming; quello di Haley Joel Osment è la madre, la prima cosa che ha visto aprendo gli occhi; quello, infine, di Sam Fabelman è il cinema. 

Ma sarebbe riduttivo, oltre che poco “preciso”, considerare The Fabelman un film cinefilo. Non lo è, nonostante inizi in una sala cinematografica e poi si sviluppi anche attraverso il cinema – si pensi alla sequenza di L’uomo che uccise Liberty Valance. E non è neanche un film sulla cinefilia, e sul perché un ragazzino della classe media del New Jersey dovrebbe decidere di diventare regista: il giovane Sam non ha nulla a che spartire con Dawson Leery, tra i protagonisti del serial Dawson’s Creek quello che voleva diventare a tutti i costi regista e da amante indefesso di Spielberg passava le ore nella sua cameretta a passare al setaccio i suoi film per scoprire le gemme preziose più nascoste. No, Sam ama il cinema, ma quello di Spielberg non è il romanzo di formazione di un giovane cinefilo. Non è neanche importante capire se da grande diventerà davvero un regista questo gracile ebreo che partecipa alla vita degli scout e vorrebbe le luminarie di Natale a dare calore alla casa invece della singola candela che ogni giorno viene accesa per festeggiare Hannukkah. Ancora sconvolto dalla visione de Il più grande spettacolo del mondo, che lo ha profondamente turbato, Sam chiede per regalo per le festività un trenino elettrico, che il padre ingegnere è ben felice di acquistare. Il trenino si muove sulla rotaia in modo perfetto, eppure non basta a Sam. In realtà non è ciò che voleva. Poi d’improvviso comprende: lui non voleva il trenino, ma la possibilità di replicare quell’incidente trionfale e catastrofico mille volte, e dunque crea un incidente e lo riprende in super-8. Solo attraverso l’immagine in movimento – motion picture, come gli spiega il padre prima di entrare per esordire alla visione sul grande schermo – si può esorcizzare la propria paura più profonda, solo ricorrendo al cinema si può davvero tentare un’analisi di sé, e del mondo circostante. Questa esperienza sarà il vero leit motiv di The Fabelmans, insieme alla crisi coniugale tra i genitori (eccellenti Paul Dano e Michelle Williams, come del resto tutto il cast a partire dal diciannovenne Gabriel LaBelle che interpreta Sam). Anzi, sarà proprio attraverso lo studio di una pellicola in moviola che il ragazzo si renderà conto che non tutto fila liscio tra i genitori.

È quella appena citata una delle tre sequenze chiave che Spielberg costruisce per far comprendere appieno il senso che lui stesso in primis dà al cinema, e al concetto di crescita. Dopo il succitato campeggio e l’improvvisa morte della nonna, la madre di sua madre, Sam viene spinto dal padre a montare le riprese fatte tra la tenda e il falò in modo da alleggerire lo stato d’animo della moglie: mentre si trova in moviola, però, rivedendo tutto il materiale girato, Sam comprende che c’è un non detto che si agita all’interno della sua famiglia, e del quale lui non si era mai reso conto. Tale disvelamento, che è negli occhi di Sam come in quelli dello spettatore, avviene mentre la madre sta suonando Bach al pianoforte, e il padre la ascolta assorto, quasi rapito. Non c’è nessun dialogo, non c’è bisogno di nessuna parola per articolare un concetto: basta l’immagine, e il suo peso (im)materiale. D’altro canto era stato pochi giorni prima il prozio Boris, fratello della nonna defunta (che aveva lavorato nell’industria cinematografica all’epoca del muto, in particolar modo sul set de La capanna dello zio Tom per la regia di Harry A. Pollard) a pregarlo di smetterla di parlare per raccontargli lo storyboard che aveva approntato, visto che bastano le immagini. Oltre a questa e a quella già descritta del trenino ripreso per riprodurre l’incidente visto nel film di DeMille, c’è una terza sequenza particolarmente significativa. È il ballo di fine anno nel liceo che frequenta nel nord della California, e Sam vi si reca con la sua fidanzatina Monica – una invasata cristiana, che ha disseminato la sua camera con poster raffiguranti Gesù –, anche perché verrà mostrato all’intera scuola il filmino in 16mm che ha diretto durante una gita collettiva al mare. Il breve film è un grande successo, ma scatena la crisi di Logan, uno dei bulli che nel corso dell’anno ha perseguitato Sam insultandolo per via delle sue origini: nonostante questi screzi, infatti, Sam nel suo film lo ha descritto per le sue doti migliori, quelle atletiche. Esiste dunque una distanza quando ci si pone dietro la macchina da presa, e Sam l’ha imparata suo malgrado, in modo quasi istintivo, quello stesso istinto che all’epoca del filmino The Last Gun – diretto a tredici anni: questo, come anche il corto di guerra Escape to Nowhere diretto a quindici anni sono altri due riferimenti diretti alla vera biografia di Spielberg – gli fece bucare con uno spillo la pellicola per fingere il colpo sparato dalla pistola. Dunque il cinema non è un sollazzo, un modo per giocare con i film degli altri, ma un vero e proprio addestramento alla vita, il modo per una persona timida di comprendere meglio se stesso, e gli altri.

“Were’s the Horizon?”, si torna al quesito di John Ford, che com’è noto da mesi Spielberg affida alle cure di un suo coetaneo collega, David Lynch. “When the horizon is at the top, it’s interesting,”, continua Ford, “when it’s on the bottom, it’s interesting. When it’s in the middle, it’s fucking boring!”; sta dunque a Sam comprendere dove si trovi la linea dell’orizzonte, e in che modo può essere giusto riprenderla, osservarla, mostrarla agli altri. In qualche misura The Fabelmans è il racconto di questo, del tentativo di guardare senza paura l’orizzonte e accettarlo, affrontarlo, superando la wilderness dell’esistenza. Spielberg, che non disdegna qualche piccolo omaggio affettuoso agli amici di sempre – il ballo di fine anno rimanda inevitabilmente sia ad American Graffiti di George Lucas che a Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, tanto per fare un esempio –, affronta la magnifica, dolorosa, e in realtà normalissima adolescenza del suo alter ego con uno sguardo sempre partecipe, mai retorico neanche nei momenti apparentemente più didascalici (lo dimostra la crisi personale che la madre pensa di risolvere portando in casa una scimmietta, un cebo cappuccino come quello messo in scena appena cinque anni fa da Lynch nel surreale cortometraggio What Did Jack Do?), e intriso di una melanconica dolcezza struggente. La dolcezza che si respirava anche nella rivisitazione del musical già portato in scena al cinema da Robert Wise e Jerome Robbins, e che altro non è se non la constatazione della fine dei tempi, della morte di quel cinema e di quel mondo (il mondo in cui è vissuto lui, che è anche quello di Lynch e conteneva ancora i tempi di Ford, e magari perfino del muto), e del dissolversi perfino delle memorie. Questa melanconia viene smussata da un’ironia feroce, contagiosa, che trova anche battute spiazzanti (quando una compagna di scuola gli chieda come faccia a vivere senza Gesù nel cuore Sam risponde “Ci riusciamo da oltre cinquemila anni, si vede che si può fare”) e che rende The Fabelmans la prima commedia spielbergiana dai tempi di The Terminal, diciotto anni fa. Ma forse più di ogni altra cosa The Fabelmans è lo studio, la rappresentazione, e la testimonianza più fertile di un dettaglio che ha sempre reso unico l’approccio alla regia di Spielberg, fin dai primissimi film, vale a dire la capacità di rendere il senso di meraviglia dei suoi protagonisti. Non c’è bisogno di alcun controcampo quando l’effetto di ciò che è fuori scena lo si può leggere senza errori o indugi già sul volto del personaggio che sta assistendo a quel che accade. L’apparizione di E.T. è già negli occhi di Elliot, così come i diplodochi si vedono già nello sguardo di Ellie Sattler. Non è importante quel che sta davvero proiettando il fascio di luce se si può scoprire quella verità già con il primo piano di Michelle Williams; The Fabelmans ne è letteralmente disseminato, quasi si trattasse di una rivendicazione poetica in piena regola. Gli uomini giganti sul grande schermo sono lì a fare quello che il montaggio ha deciso facciano, ma Spielberg si concentra sul primissimo piano di Sam a sei anni, sprofondato nella poltroncina tra mamma e papà, gli affetti che però non sono l’imprinting, non sono la crescita, non sono l’evoluzione. Un film sincero, tragico, struggente, spietato, che lascia a bocca aperta: potere del senso di meraviglia.

Pubblicato su quinlan.it il 10/20/2022 di Raffaele Meale

 

 

Prima delle biciclette di E.T. ci sono stati i carrelli della spesa che si muovevano in mezzo la strada sotto il tornado in The Fabelmans. Perché si, in qualunque momento ci si può alzare da terra e volare. Proprio come uno dei ragazzi che ha bullizzato Sammy nella scuola della California ma nel film che il protagonista ha fatto per il Ditch Day del 1964, lo ha reso una specie di angelo. Il cinema può cambiare sempre le cose. Può essere una cinepresa amatoriale o un Arriflex 16 mm. Non importa. The Fabelmans sottolinea che è sempre un fotogramma che fa la differenza. Proprio come uno rivelatore della sua famiglia che farà saltare tutti gli equilibri. Da una sola immagine possono partire tante storie che non sono state mai viste, oppure erano nascoste. “Dov’è l’orizzonte?”. Per Sammy ci sarà proprio un incontro fondamentale che diventerà decisivo nella costruzione dell’immagine cinematografica come regista. Bisogna sempre guardare dov’è l’orizzonte. “Quando l’orizzonte è in basso, è interessante. Quando è in alto, è interessante. Quando è al centro, è una palla mortale”.

Si potrebbe riavvolgere tutto The Fabelmans all’indietro. Anzi, ripercorrere la filmografia di Spielberg da oggi agli inizi per cercare dove sta l’orizzonte. Scritto da Spielberg con Tony Kushner, il film ha come protagonista Sammy e la sua famiglia di cui fanno parte il padre Burt (Paul Dano), la madre Mitzi (Michelle Williams), le sorelle. Con loro c’è poi sempre lo zio Bennie (Seth Rogen), migliore amico del padre che è ormai diventato uno di famiglia. I Fabelmans si trasferiscono dal New Jersey prima in Arizona e poi in California, dopo che Burt ha avuto una promozione sul lavoro. In un’atmosfera apparentemente serena c’è proprio quel dettaglio rubato dalla cinepresa di Sammy, che all’epoca aveva circa 16 anni, che fa saltare tutti gli equilibri.

In The Fabelmans c’è tutta la magia, la paura e la spietatezza del cinema. La cinepresa cattura dettagli che l’occhio umano non vede. Inoltre non è il solo, appassionante, viaggio nostalgico: i film della vita, i registi fondamentali per la formazione. O almeno non solo. Certo, ci sono due passaggi fondamentali: Il più grande spettacolo del mondo (1952) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Cecil B. De Mille e John Ford. Sono questi i modelli da imitare nella testa di Sammy. Del primo rimarrà impresso lo scontro tra l’auto dei delinquenti e il treno del circo che per il protagonista diventerà un’ossessione e cercherà di rifarlo più volte prima con i modellini del trenino e poi ripreso da una piccola cinepresa su consiglio della madre. Il secondo rappresenta l’ipnosi. Sammy è in sala con i suoi amici che fanno casino. Lui si sposta in avanti e, in seguito ricrea un set per rifare, anche lui, un western.

Il film della sua famiglia è il (suo) film della vita. È coming of age, commedia familiare, melodramma, viaggio nel mondo dei sogni. Il set si può accendere in ogni momento: i fari della macchina che illuminano Mitzi che balla con un vestito trasparente. Bisognerebbe rivedere questa immagine davanti, per esempio, ad Always. Per sempre. Perché fa capire come c’è qualcosa che va oltre la sceneggiatura di ferro, l’inquadratura perfetta, un cast da urlo. Non è qualcosa che si può spiegare razionalmente. Certo, è l’istinto ma non basta. È qualcosa di soprannaturale, di divino. Il cinema di Spielberg vola anche quando resta a terra. Succede anche nelle scene più comiche con i dialoghi su Gesù con la ragazza che è stata la prima cotta per Sammy. La scena nella camera da letto di lei e del ballo scolastico, in pochissimo tempo, già raccontano un solo, intero, film.

L’autobiografia non è fatto soltanto di episodi. Dentro The Fabelmans ci sono tanti Effetto notte: il film di guerra Escape to Nowhere girato da Sammy dove c’è il soldato che piange mentre tutti i suoi uomini sono a terra; l’intuizione della pellicola perforata con le puntine ispirato al foglio dello spartito musicale bucato dal tacco della madre. Ci sono tanti buchi, fessure, da dove si può guardare tutto. A 76 anni lo stupore e la meraviglia di Spielberg  sono ancora intatti. Sono sempre quelli del suo miglior cinema. Ma The Fabelmans va oltre. Diventa una confessione struggente vista non solo attraverso gli occhi di Sammy, ma con quelli di Sammy e la sua cinepresa. E Spielberg ritrova se stesso adolescente attraverso il volto e l’incredibile performance di Gabriel LaBelle. Cambia tutto. È anche una lezione di cinema assoluta. Finalmente non c’è più bisogno di tirare in ballo 8 1/2 quando si parla di un film sul cinema. Negli anni Dieci film ha fatto film fondamentali: Lincoln, The Post, West Side Story. The Fabelmans è quello che li raccoglie tutti, anche i precedenti. C’è l’immaginario backstage. C’è il senso del ritmo. C’è la ricerca della dimensione spettacolare e quella invece più privata e intima. Si può vedere anche soltanto in un’inquadratura. Gli occhi spaventati di Sammy mentre guarda al cinema lo scontro tra il treno e la macchina. Si, il cinema  è “il più grande spettacolo del mondo”. Sono pochissimi i film della storia del cinema che finiscono troppo presto anche se durano 151 minuti. The Fabelmans è uno di questi.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 20/10/22 di Simone Emiliani

 

 

The Fabelmans è l’ultima creatura cinematografica di Steven Spielberg, un nome gigantesco che, ancora una volta, con questo film, ha saputo brillare e stupire, aprendosi al pubblico nel modo più sincero ed intimo possibile. La pellicola è stata inizialmente proiettata al Toronto International Film Festival, dove ha conquistato il People’s Choice Award, ed è stata presentata in anteprima nazionale alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma in collaborazione con Alice nella Città. Il titolo sarà nelle sale italiane dal 22 dicembre 2022 grazie a 01Distribution.

The Fabelmans ha una dote davvero rara, che ultimamente non è per nulla semplice rintracciare nelle varie opere che affollano il grande e piccolo schermo: la profonda empatia. Dal primo momento in cui vediamo Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle da ragazzo), la sua storia diventa automaticamente la nostra, perché il cinema, per quanto possa essere una passione per moltissimi, un’ossessione per alcuni, un lavoro per visionari e sognatori, ha incrociato la strada di tutti, nel bene e nel male. Vedere la propria esperienza di vita riflessa in uno specchio può provocare turbamento, forti emozioni, ma parla con chiarezza alla nostra interiorità e ci fa innamorare ancora una volta del Cinema.

The Fabelmans ha un obiettivo ben preciso e puntuale, che viene perseguito per l’intera durata del lungometraggio: raccontare una passione, ovviamente nel caso di Spielberg è l’arte di fare film, ma il suo discorso è talmente tanto complesso e ricco di sfumature da potersi applicare più generalmente alle nostre ambizioni e desideri più ardenti. L’approccio del giovane protagonista al Cinema è una lezione di vita profonda, priva di ogni orpello motivazionale o di una retorica spicciola, il suo ardore e la sua insana ostinazione diventano quello degli spettatori. Da quella prima volta in sala, nel 1952, a vedere Il più grande spettacolo del mondo, all’inizio della sua carriera nella parte conclusiva della pellicola, il cineasta riesce a non mollare mai la presa sul pubblico.

Ci riesce non solo perché la storia che racconta è ovviamente sincera e vera, perché è effettivamente la sua anche se nascosta da degli pseudonimi, ma anche perché descrive la sua passione con tutte le sfumature possibili ed il miracolo si verifica quando arriva a condensare, in circa 2 ore 30 di girato, tutti i successi e le sconfitte, la gloria e il trionfo, i fallimenti e gli ostacoli del suo viaggio emotivo e artistico che poi convoglia nel suo lavoro da regista. “Il cinema è solo un hobby”, è “un’arte che ti spezza in due”, è un mondo salvifico, ma anche pericoloso: tutte parole che non ci risultano nuove, specialmente se almeno una volta nella vita abbiamo trovato qualcosa che ci smuove l’animo da dentro.

Per raggiungere questa particolare connessione con gli spettatori, in The Fabelmans la regia di Spielberg è in continua trasformazione ed evoluzione: rappresentativo in tal senso è il cammino registico che fa proprio Sammy, che viene mostrato dall’inizio alla fine dal suo punto di vista, cominciando con una semplice scena dove un treno si schianta contro una macchina, arrivando poi a sequenze più complesse e ricche di comparse, soluzioni ardite, inquadrature inaspettate. Il nostro sguardo, di conseguenza, guarda avanti e dietro la cinepresa, osserva il risultato finale, ma anche la preparazione che c’è dietro. Non c’è probabilmente modo migliore per incarnare il vero significato del Cinema, perché si unisce emozione, tecnica, artigianalità e rigore.

Ed è lì che avviene lo stupore e la magia, proprio nel momento in cui, parallelamente, il film-maker ci parla da un lato della sua inesauribile forza d’animo che ripone nella sua arte preferita nonostante i continui conflitti interni ed esterni che coinvolgono in particolare la sua famiglia; dall’altro, con la macchina da presa, ci pone davanti alla sua visione e ci fa crescere con lui, ci ispira, seduce, ma anche allontana. Ma incredibilmente, il film riesce a non essere solo questo, perché la regia non solo riproduce una passione in maniera millimetrica ed emotiva, ma sceglie anche di rappresentare il Cinema dall’altra parte della barricata, dalla prospettiva degli spettatori.

In The Fabelmans, infatti, l’occhio di Spielberg si concentra profondamente sulle risposte emotive dei vari personaggi alle opere di Sammy ed è curioso notare come ognuna di loro è diversa, proprio come sono differenti le opinioni di ognuno di noi di fronte ad un particolare film, nessuna è replicabile ed è questo uno degli elementi più affascinanti della settima arte. Se uniamo quindi la sua esperienza sul campo alle reazioni effettive degli altri, arriviamo diretti ad un’universalità che riesce a ricoprire a tutto tondo l’esperienza cinematografica.

Questa avventura totalizzante è resa ancora più evidente da un copione, redatto dallo stesso regista in compagnia di Tony Kushner, che racchiude, probabilmente, tutte le variabili emotive dell’essere umano senza però rinunciare ad una divisione a tappe chirurgica e perfetta, quasi rappresentando l’esigenza di un controllo nel processo artistico. In essa confluiscono il dramma familiare che tra l’altro ha un ruolo fondante all’interno della trama ad una comicità genuina e spontanea. Il tutto tenuto legato da un esistenzialismo brillante, che emerge in alcuni passaggi narrativi chiave del film, tra i quali spicca, in particolare, l’incontro con John Ford, un momento catartico che riesce a racchiudere in pochi minuti l’intero significato della realizzazione.

Parlando degli interpreti del film, si avverte una familiarità impressionante (dimostrando una ricerca notevole da parte del casting), seguita poi da una certezza: il talento smisurato per ogni singolo attore coinvolto all’interno del progetto. Inevitabilmente, però, c’è sempre chi ruba la scena e in questo caso non abbiamo dubbi nel definire Michelle Williams il vero astro splendente, una figura cardine per la vita del protagonista che è stata riportata alla luce con sentimento e delicatezza. Non possiamo inoltre dimenticarci di quel David Lynch che torna sul grande schermo con una parte profetica e metacinematografica, un attestato di stima artistica che non passa inosservata. E silenzioso, in un angolo, in modo composto, elegante e servile, c’è anche John Williams e la sua musica, un impronta fondamentale e indispensabile per la riuscita del lungometraggio.

The Fabelmans è un lungometraggio che ti rimane dentro, che brucia con un’intensità strabiliante ed esplosiva, che ci tiene in piedi, incollati allo schermo ad osservare l’epopea umana, ma eccezionale di un regista che ha votato l’intera vita alla sua passione. Grazie al potere narrativo e immaginifico del cinema, quella sua ossessione così ostinata diventa la nostra, una storia che non può passare in sordina perché la regia ci tiene per mano, mostrandoci la sua arte in profondità su più livelli interpretativi. Anche la sceneggiatura è immersiva e profonda nella sua costruzione e contenuto, rappresentando diverse sfumature emotive, ma mantenendo una linea ordinata e puntuale. Il sogno diventa vero e tangibile, infine, grazie anche alle essenziali note di Williams e lo smisurato talento degli attori: degli elementi fin troppo importanti che ci legano ancora più alla fiaba cinematografica di Steven Spielberg.

Pubblicato su cinematographe.it il 20/10/22 di Massimiliano Meucci