venerdì 1 dicembre 2023

Corinne Bailey Rae - Black Rainbows

 

"Black Rainbows is a truly astonishing record, a revelation": Corinne Bailey Rae comes of age on one of 2023's most remarkable, must-hear albums.

While visiting Chicago’s Stony Island Arts Bank during her 2016 US tour, Corinne Bailey Rae experienced a Damascene-like awakening. “I knew when I walked through those doors that my life had changed forever,” she says.

Curated by artist and activist Theaster Gates, the Stony Island Arts Bank preserves African American heritage through black art; books and periodicals, vinyl records, sculptures, ceramics, glass slides, masks and music scores are all on display. As is a collection of what is termed ‘negrobilia’ - 19th and 20th century objects depicting stereotypical/racist images of black and indigenous people.

The archive’s impact on Bailey Rae was immediate, prompting her to readdress her own relationship with her creative output and explore “what the possibilities of my work can be…”

The result: Black Rainbows, her fourth album and a truly astonishing record, with each of its 10 tracks inspired by the artefacts she’d seen there.

Co-produced by Bailey Rae with her longtime collaborator Steve Brown, it’s a real sonic surprise. Flitting from searing punk noise to astral gliding electronica to afro futurist R&B, it’s hard to believe that this is the same artist who created 2016’s The Heart Speaks In Whispers, its sweet soulful nature and mellow vibe recalling Erykah Badu.

Take New York Transit Queen, a tribute to the first of the African American Miss New York Transits, Audrey Smaltz, which sees Bailey Rae go all ebullient girl group/ scuzzy grunge pop, as cheerleader clapping and drumstick clicks count in abrasive guitars and the black glamour pin up is reclaimed and celebrated as sex positive feminist.

Aesthetically it’s how you imagine Bailey Rae’s first band Helen, the mostly female rock group she formed when she was just 15 and inthrall to L7, might have sounded if they’d graduated from the Leeds indie circuit.

Then Erasure, a gut reaction to the negrobilia she saw and its literal erasure of black childhood: over the song’s punk metal thud Bailey Rae seethes and screams: “They put out lit cigarettes/Down your sweet throat/They fed you to the alligators”?” Her anger, rage and horror palpable. It’s like Bailey Rae has been reborn a Dahomey Amazon.

Earthlings brings about yet another left turn: a voluptuary of sonic tributaries, it’s defined by hauntological bleeps and electronic textures, while A Spell, A Prayer, with its mix of ghostly synths and symphonic soul links past, present and future through notions of ancestral pain and epigenetic trans-generational inheritance. Were there moments in slaves’ lives when they experienced a sense of freedom? Bailey Rae wonders. “Finger tip to finger tip, eye to eye, lay your hip against my hip” she sings demurely, suggesting perhaps in desire communion with the divine is found. On Black Rainbows, Bailey Rae comes of age. It really is a revelation.

Pubblicato su loudersound.com, By Alice Clark published September 04, 2023

Forse non dovremmo stupirci, dacché tanti anni fa, prima di debuttare sulle scene, un'ancora adolescente Corinne Bailey Rae militava in gruppi rock e amava far casino con la chitarra elettrica e il mascara sbavato sullle guance. Anche se poi il mondo ha imparato a conoscerla come raffinata interprete soul-jazz, con hit del calibro di "Like A Star" e "Put Your Record On", quell'attitudine da punkette evidentemente non è mai scemata del tutto.

A questo si può aggiungere il lusso dell'indipendenza artistica, visto che Corinne oggi si trova in una posizione invidiabile, non troppo dissimile da quella della collega Tanita Tikaram: un milionario album di debutto alle spalle e un pubblico non troppo numeroso ma fedele, ottime basi per poter campare al riparo dalle pressioni discografiche mentre si escogita, con calma, la prossima mossa.

Lungo una carriera centellinata di uscite, Corinne si è ritagliata il ruolo di cantautrice libera di sperimentare, grazie anche allo studio di registrazione che si è costruita in casa con l'aiuto del marito, il produttore e collaboratore Steve Brown. I suoi lavori sono sempre eseguiti egregiamente, ma anche con questi pacati presupposti casalinghi alle spalle, "Black Rainbows" spiazza l'ascoltatore più ferrato, dimostrando la penna di un'autrice viva e vegeta, a momenti fremente come un cavo elettrico, ondivaga e nevrotica come non si era mai vista prima d'ora.

La figura di Audrey Smaltz, celebre commentatrice di moda afroamericana attiva sin dai tempi della segregazione razziale, dona ispirazione per il roboante singolo di lancio "New York Transit Queen", un power-pop da bordo campo col quale l'autrice fa il tifo alla titubante immagine di se stessa da giovane - da madre di due figlie, oggi, Corinne è ben conscia delle insidie che le sue piccole incontreranno lungo il cammino. Sin dal titolo, infatti, "Black Rainbows" non fa segreto di quesiti identitari, sogni infranti e paure da esorcizzare - un brano su tutti è il sinistro andazzo di "He Will Follow You With His Eyes", elegante lounge falsamente rassicurante che poi dirotta in una sorda filastrocca dadaista ideata per scrollarsi di dosso ogni sguardo non voluto.

Ma Corinne non pecca di retorica; dalla sciancata apertura elettronica di "A Spell, A Prayer" all'intermezzo stile Thundercat della title track, passando per l'urlo di "Erasure", che pare un incrocio tra PJ Harvey e Patti Smith, o anche il curioso esperimento sintetico "Earthlings", a metà strada tra Laurie Anderson e Roy Ayers, "Black Rainbows" ondeggia e calpesta senza mèta ma abbonda di fantasia. L'ascolto ha comunque un centro tavola; è "Put It Down", quasi nove minuti di lucenti riverberi progressivi, accenti digitali e ritmiche in espansione - il suo andamento ipnotico e spiritato ricorda "Sister" di Tracey Thorn, brano altrettanto lungo e coinvolgente sul quale la stessa Corinne appariva come ospite ormai un lustro addietro. 

Lungo l'ascolto figurano almeno due momenti che, pur in antitesi, illuminano il percorso come lucciole. "Red Horse" è un cielo stellato sulla malinconica brughiera dell'ultima Beth Orton, una dedica d'amore al proprio marito arrivato in salvo all'ultimo minuto. "Peach Velvet Sky", invece, viene tessuta col solo pianoforte acustico senza alcun abbellimento, vagando nell'etere con fare inquisitorio, tra scarti armonici jazz e pronti rientri in tema come la prima Tori Amos. Sono i momenti più calmi e melodici, quelli che tematicamente si legano al passato e contribuiscono a rendere "Black Rainbows" meglio digeribile all'ascolto.

Invece Corinne chiude la propria storia con le stesse premesse con le quali l'aveva iniziata: "Before The Throne Of The Invisible God" è una serpeggiante fantasia free jazz, lungo la quale striature di sax e gorghi elettronici disegnano paesaggi cinematografici da exotica cannibale. 

Ex-stella del soul-jazz all'inglese, poi curiosa esploratrice psichedelica con "The Heart Speaks In Whispers", Corinne Bailey Rae è sempre stata un'autrice da seguire, degna antesignana dei percorsi a zig-zag di Lianne La Havas, Laura Mvula e Anaiis. Ma con "Black Rainbows" si ha l'impressione di essere piombati su tutt'altro pianeta; un lavoro catartico ma accartocciato, emozionante ma spigoloso, capace di respingere l'avventore casuale e allo stesso tempo svelare qualcosa di nuovo con ogni ascolto.

Pubblicato su ondarock.it, di Damiano Pandolfini


Un anno difficile di Olivier Nakache, Eric Toledano (2023)

 

È una cosa di cui ho bisogno? È una cosa di cui ho bisogno adesso? Due domande bastano a Toledano e Nakache per strutturare un film alle loro abituali regole di base, l’impegno politico ed un tono da commedia, si tratti di fare luce sui problemi legati all’handicap come avviene in Quasi amici, di questioni inerenti i permessi di soggiorno in Samba, o dell’affresco corale di C’est la vie, che da una festa di matrimonio riesce a mettere in tavola un’allegra lotta di classe. Il tema stavolta è il sovraconsumo ed il Black Friday, con la sua spinta all’acquisto sfrenato e compulsivo, l’obiettivo numero uno di un gruppo di manifestanti del quale fa parte Valentine, una sempre più eclettica Noémie Merlant, che dopo le collaborazioni con Audiard, Garrell, Sciamma e Field, interpreta stavolta il ruolo di un’attivista ecologica. Il sistema capitalistico, che fa della mercificazione l’unica rappresentazione del mondo e trova la complicità delle banche, non fa che accelerare la rincorsa verso il disastro ambientale.

Alle loro battaglie fatte di azioni dimostrative, proteste di piazza, blitz nei convegni o nelle sfilate di moda, fino ai picchetti all’ingresso dei centri commerciali, si intrecciano le storie di Albert e Bruno, entrambi rovinati dai debiti, e che cercano di risollevarsi dalla catastrofe finanziaria con l’aiuto di Henri, volte e voce di Mathieu Amalric. Albert è un addetto all’aeroporto, ma ormai non ha più neanche una casa dove vivere. Bruno è depresso dopo la separazione dalla moglie ed anche lui è finito sul lastrico. L’inerzia iniziale si muove da un incontro fortuito, poi una trama sentimentale, con Valentine trasformata in un pudico oggetto del desiderio, si sviluppa di pari passo con la storia principale. Usando epiteti come Cactus, Pulcino, Lexotan, praticando sessione di abbracci, rinunciando ai regali di Natale o parlando di una patologia contemporanea, l’eco-ansia, vengono affrontati discorsi importanti, che non rischiano mai di diventare noiosi in virtù di un montaggio pieno di ritmo. I due registi francesi anche stavolta non rinunciano al sorriso, a quel fondo di ironia che si rifiuta di finire nella tragedia per non alzare bandiera bianca. Il risultato è ottimo, fa suonare un campanello d’allarme ma resta aggrappato ad una speranza d’amore, alla voglia di guardarsi negli occhi e ballare un valzer prima di scambiarsi un tenero bacio.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 25 Novembre 2023 di Antonio D'Onofrio 

Di questi tempi, la miglior commedia all’italiana la girano i francesi. Presentato Fuori Concorso alla 41ma edizione del Torino Film Festival, Un anno difficile, regia di Olivier Nakache e Éric Toledano, quelli di Quasi Amici – Intouchables, arriva nelle sale italiane il 30 novembre 2023 per I Wonder Pictures. Commedia degli equivoci e degli estremi – con un occhio strizzato alla contemporaneità, i suoi (apocalittici) problemi e una buona dose di satira sociale – giocata su un’ironica consonanza cromatica, quella che serve al film per legare il destino dei protagonisti. Il colore è il verde e la cosa merita una spiegazione.

Verde, perché al verde sono, finanziariamente prosciugati, Pio Marmaï e Jonathan Cohen, iperconsumisti e spendaccioni. Verde, ma sarebbe meglio dire green, come sottolineato dall’azzeccato lancio promozionale, è Noemie Merlant, paladina dell’ambientalismo intransigente. Il film mette a confronto due opposte filosofie, polarizzate ulteriormente dai dibattiti pandemici: consumismo e minimalismo ambientalista. L’idea è di farli scontrare per vedere cosa succede dopo. Cosa succede dopo, è un problema che Un anno difficile affronta mescolando risate e un retrogusto amarognolo che ricorda il modo con cui, dalle nostre parti, si usavano girare le commedie migliori. Noi abbiamo scordato la ricetta, i francesi hanno riempito il vuoto.

Comincia, Un anno difficile, con uno scoppiettante accenno di satira politica, un sottofondo malizioso per una scabrosa verità esistenziale. Una carrellata di messaggi istituzionali a ritroso nel tempo, da Hollande a Pompidou: i Presidenti della Repubblica Francese a reti unificate ricordano ai compatrioti quanto difficile è stato l’anno appena trascorso, o quello che verrà. A quanto pare, suggeriscono Olivier Nakache e Éric Toledano, ci sono sempre e solo anni difficili, perchè una vita costruita sull’accumulazione, sul consumo sfrenato, sul principio del più è meglio, porta solo insoddisfazione. Raccontatelo ad Albert (Pio Marmaï) e Bruno (Jonathan Cohen).

Il primo prende d’assalto i grandi magazzini per il Black Friday con ferocia animalesca, l’altro è sull’orlo del suicidio, sommerso dai debiti e con l’ufficiale giudiziario che gli ha svuotato casa, alla faccia del minimalismo. Quello di Valentine (Noemie Merlant) per esempio. Guida un gruppo ambientalista, soffre di ecoansia – è una cosa seria, la fa sentire contemporaneamente vittima e colpevole per l’emergenza climatica – e a casa non ha molto perché sente di poter vivere così, con il minimo indispensabile. Non si possono immaginare due filosofie più agli antipodi. D’altronde, spiegano i registi, è una delle contraddizioni del nostro tempo.

Si incontrano perché Albert e Bruno – frequentano un gruppo di sostegno per persone oppresse dal sovraindebitamento guidato dal signor Tomasi (Mathieu Amalric) – capitano un giorno, non troppo casualmente, a un meeting dell’associazione di Valentine. Ci finiscono sedotti dalla promessa di cibo e birra gratis. Vogliono solo scroccare, niente di ideologico, ma una cosa tira l’altra. E poi sono entrambi invaghiti della bella Valentine. Il gioco è fatto: i due ambientalisti più improbabili e meno credibili al mondo scelgono finalmente da che parte stare. Alla loro maniera, tra un sotterfugio e l’altro, senza scordare il consumismo e l’impellente bisogno di risolvere la situazione debitoria.

A parlare di commedia all’italiana, con riferimento all’impasto tematico e alle psicologie di Un anno difficile, sono proprio Olivier Nakache e Éric Toledano. Un film francese, dall’anima e il cuore molto italiano. Resta da vedere come e perché. La commedia all’italiana nasce come evoluzione pragmatica del neorealismo. Mantiene una spiccata propensione per l’analisi sociale e un fondo realista ma cambia tono, puntando tutto sull’umorismo. Per due ragioni: è il modo migliore per sfuggire alla censura e poi una scomoda verità, detta ridendo, piace al pubblico più di una scomoda verità, punto. La satira sociale, l’attenzione per la contemporaneità, sono elementi centrali, ma non è su questo versante che si misura “l’italianità” del film.

È altrove, nell’equilibrio instabile di vizi e virtù dei protagonisti maschili. Pio Marmaï e Jonathan Cohen danno vita a due antieroi che non avrebbero sfigurato in un cinico affresco di Dino Risi, il padre nobile tirato in ballo dai registi in conferenza stampa. Albert e Bruno sono personaggi di una simpatica antipatia. Forti, paradossalmente, del calore umano nascosto nelle debolezze, nelle fragilità, nelle piccole meschinità e nel cinismo. Noemie Merlant bilancia l’esterofilia dei partner con una recitazione nervosa e una dolcezza intelligente. Lei, francese negli accenti e nel modo di porsi, è sopra le righe ma con misura. Non minimalista, come la sua Valentine, comunque molto controllata.

Di francese, Un anno difficile ha lo slancio vitale e ottimista del finale, oltre al rifiuto ad approfondire la simpatica cialtroneria di Bruno e Albert; un regista italiano li avrebbe degradati senza ritegno. Commedia ambientalista, la seconda in pochi anni dopo Don’t Look Up, chissà se basterà per aprire un filone. Consumismo e apocalisse ambientale sono qui per restare. Un anno difficile è una commedia degli estremi perché estreme e polarizzate sono le tendenze e i bisogni dei protagonisti. Il mantra del film è la domanda che tutti devono porsi prima di scegliere: ho bisogno della cosa che mi sta di fronte? I consumisti rispondono affermativamente, gli ambientalisti negano. Il limite del film è la difficoltà a liberarsi dell’estremismo delle premesse. Leggermente sopra le righe, con il rischio di apparire caricaturali, i personaggi cedono a volte sul piano del realismo. Eppure, oltre l’imperfezione, Un anno difficile è davvero la più solida e intelligente commedia (francese) all’italiana dell’anno.

Pubblicato su cinematographe.it, da Francesco Costantini, 28 Novembre 2023 

Parte benissimo Un anno difficile, mettendo subito le carte in tavola (e, a conti fatti, giocandosi le migliori): un serrato montaggio di brani dei discorsi di fine anno dei vari presidenti della Repubblica francesi degli ultimi decenni evidenzia che in tutti è contenuto il passaggio che quello passato è stato un anno difficile, o lo sarà quello a venire; immediatamente dopo, l’assalto degli avventori ad un negozio durante il Black Friday è presentato in slow-motion e, soprattutto, accompagnato dalle note de La valse à mille temps di George Brassens, che conferiscono al tutto un passo armonioso e coreograficamente elaborato. Che la coppia di cineasti transalpini formata da Olivier Nakache e Eric Toledano, di grande successo in patria e con un paio di buone performance al botteghino anche da noi, soprattutto con Quasi amici, voglia finalmente affondare il colpo senza trincerarsi dietro un ecumenismo di fondo volto a offendere il meno possibile e ad accontentare tutto e tutti? A nostro avviso no, o non fino in fondo, e se questa scelta continua e inscriverli all’interno di un circuito di cineasti popolari per temi e linguaggio (circuito al quale si è appena iscritta anche Paola Cortellesi con C’è ancora domani, attendendo di vedere se e come varcherà le Alpi), li esclude però dai favori di tanta critica e del pubblico più cinefilo, che stigmatizzano spesso senz’appello i tentativi di smussare le asperità e comporre i contrasti che spesso caratterizzano i finali scritti dalla coppia. A chi scrive piaceva molto C’est la vie – Prendila come viene, un loro film del 2017 che ha già avuto in Italia sia un remake ufficiale (Il giorno più bello, diretto da Andrea Zalone, autore e sodale di Maurizio Crozza) che uno ufficioso (Il grande giorno di Massimo Venier, con Aldo, Giovanni e Giacomo), e che si ispirava a grandi maestri come Blake Edwards nella composizione della costruzione a cascata di gag. Schema ripreso anche in quest’ultimo film, non a caso, nei segmenti più riusciti.

I due protagonisti, Albert (Pio Marmaï) e Bruno (Jonathan Coen), si arrabattano per sbarcare il lunario e sono entrambi entrati in una spirale debitoria fatta di prestiti e crediti al consumo da cui è difficilissimo uscire, tanto che il primo salva il secondo dal suicidio involontariamente, mentre sta cercando di approfittarsi di lui rifilandogli l’ennesimo oggetto inutile, una Tv ad alta definizione conquistata a botte durante il Black Friday e poi reimmessa sul mercato a trecento euro. Tramite Bruno, Albert fa la conoscenza di Henri Tomasi (Mathieu Amalric), un consulente che dispensa consigli per mantenere il bilancio personale e familiare sostenibile, e di Valentine (Noémie Merlant), una ragazza altoborghese completamente consegnatasi alla causa ambientalista e alla lotta al sovraconsumo. Bastano questi cenni per avere un’idea delle dinamiche pronte a scatenarsi tra questi quattro poli principali, ma l’aggiunta di un paio di esempi può rendere il quadro ancora più chiaro: Albert e Bruno si offrono volontari per il ritiro di oggetti e mobilia dalle case dei ricchi “conquistati” da questo nuovo richiamo all’essenzialità e al francescanesimo, e ne approfittano però per rivenderli e uscire dai debiti personali; il consulente Tomasi, prodigo di richiami alla sobrietà, si rivela ben presto essere un giocatore d’azzardo compulsivo. Tutto narrativamente organizzato, dunque, secondo un rodato schema a svelamento in cui ogni personaggio rivela di avere caratteristiche comuni con il suo opposto, e che si trova a fare quel che fa solo perché il Caso lo ha portato in una direzione piuttosto che nell’altra. Questo approccio deterministico è anche condivisibile, e si comprende bene come arrivi ad essere un contenitore perfetto per l’alternarsi di momenti divertenti e intimisti, ma i Nostri somministrano meriti e colpe con un bilancino che ottiene sì l’effetto di scacciare il manicheismo, ma che appare più come una sorta di manuale Cencelli della responsabilità che colpisce e blandisce allo stesso modo ogni categoria. Il grande successo di pubblico si ottiene anche in questo modo e non c’è nulla di male, ma quando il meccanismo appare così scoperto segnalarlo in sede d’analisi diventa obbligatorio.

Purtroppo alla scoppiettante prima parte non segue un andamento altrettanto brillante nella seconda (c’è un evento specifico che segna la frattura tra le due): a temi abilmente lanciati non corrispondono approdi altrettanto validi e le potenzialità di qualche personaggio vengono completamente sprecate. Ci riferiamo principalmente al Tomasi di Amalric, ridotto presto a macchietta stancamente slapstick mentre sembrava incarnare una delle contraddizioni più interessanti, ma anche a Valentine/Cactus, che non acquista mai una soggettività propria che vada oltre il monologhetto che riassume il suo passato, e rimane una funzione narrativa da attivare nei percorsi degli altri. A cosa servono, poi, due brani straordinari come Little Wing di Jimi Hendrix e The End dei Doors in quel contesto, appiccicati su scene che non sembrano richiederne la presenza? A collegare idealmente i movimenti di protesta attuali con quelli sessantottini? Se era questa l’intenzione, l’obiettivo non è stato centrato. Nakache e Toledano continuano, dunque, il loro percorso in modo tutto sommato coerente, e rimangono capaci di orchestrare e scrivere commedie collettive formalmente “esatte”, con più di un momento brillante; parimenti non sembrano avere, però, lo spessore culturale per infondere ai loro copioni approdi tematici dello stesso livello delle premesse. Per lasciare il paragone con gli anni Sessanta da loro stessi evocato, avrebbero bisogno di uno come Terry Southern a rileggere e innervare il copione. Certo, alla stregua del trovare epigoni contemporanei a Hendrix e Morrison, è tutto tranne che facile.

Pubblicato su quinlan.it, 27/11/2023 di Donato D'Elia