lunedì 30 luglio 2012

Stefano Bollani & Hamilton De Holanda - S. Margherita Ligure, 29 Luglio 2012


Arrivare a S. Margherita Ligure e ritrovarsi in una piazzetta sul mare, pur se stretta tra uno dei numerosi hotel 4 stelle della località ligure, e posta comunque al di sotto della strada trafficata e rumorosa del periodo estivo, dovrebbe già mettere di buon umore, specialmente se quello spazio viene dedicato ad un concerto jazz.
Il concerto era quello di un nuovo duo, composto da Stefano Bollani, assurto, sicuramente per meriti propri, nell’olimpo delle jazz-star internazionali, insieme al musicista Hamilton De Holanda, considerato uno dei nuovi talenti della musica brasiliana, e “rivoluzionario” della choro (una piccola chitarra o mandolino, cui De Holanda ha aggiunto una quinta doppia corda. Se volete notizie sul musicista brasiliano, la rete è pronta per deliziarvi).
Ero emotivamente ed acusticamente ben preparato a ciò che mi si sarebbe prospettato dal punto di vista musicale, ma quasi due ore di repertorio di Gilberto Gil, dell'immenso Morricone, brani dei due autori, tutti filtrati attraverso una rilettura del suono brasiliano spesso più facile, sono stati, concedetemelo, entusiasmanti sopratutto per le due anziane ed arzille signore che dietro di me applaudevano come tarantolate.
Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di vedere il talento live di Bollani , espresso insieme ad artisti del calibro di C. Corea o di Enrico Rava, ma solo di assistere a spettacoli molto ruffiani, pur non avendo nulla da ridire sul tecnicismo di questo, credo, nuovo duo.
Ritornando sullo snobismo e delle malefatte che può combinare, esprimo quello che ritengo anche, ma non solo, dovrebbe essere la “missione” che un musicista di tale bravura e talento dovrebbe avere il coraggio di fare: portare alla gente suoni meno noti ai più ( e lo si è sentito in una rilettura al limite del free, fuori dal contesto sonoro della serata, di un brano di B. Powell, che ha comunque strappato gli applausi del pubblico), e non perdersi soltanto in un repertorio da piano bar. 
Trovo, a volte, più snobistico andare sul sicuro di ciò che il pubblico si aspetta (anche se ciò dipende  da molti fattori, il luogo del concerto, ad esempio), piuttosto che azzardarsi verso percorsi inediti per la propria fedele platesa. È ovvio che spesso un musicista di tale rango sia portato, magari anche dalla propria indole, dalla propria voglia di esprimersi, a non voler andare a scavare nel repertorio del jazz d’avanguardia o di ricerca, cui peraltro nessuno lo obbliga. Rimanere fedele, giustamente, alla musica popolare non vuole dire essere solo ruffiani, ma a chi cerca qualcosa di “diverso” non può rimanere soddisfatto di una esibizione, nutrita comunque da tantissimi applausi, espressi per altro anche dal sottoscritto, soprattutto perchè il repertorio della musica pop-olare mondiale, sia jazz o meno, è  vasto e praticamente infinito.
Il jazz, che personalmente definisco da tappezzeria, stile Blue Note milanese, impera da anni a questa parte, e fortunatamente non mi ritrovo da solo a voler sempre fare l’ipercritico verso sonorità che di per se nascono già scontate.
Qualche anno fa, ad un concerto “solo” di Bollani, nella cornice del nostro bistrattato teatro genovese Carlo Felice, ricordo che scappammo in molti, inorriditi, da ciò che il jazzista milanese aveva incominciato a proporre, come un novello bravo pianista della sala di una nave da crociera: cover a comando del pubblico, da caroselli a sigle di cartoni animati.
Se un musicista jazz “’d’avanguardia” come William Parker, ha inciso nel 2010 uno strepitoso e piacevolissimo live “I Plan To Stay A Believer”, interamente dedicato al repertorio di Curtis Mayfield, pieno di funky, allegria danzereccia, supportata anche da una fantastica e nutrita band, non vedo il motivo perché altri non debbano esporsi a migrare il proprio sapere  verso un pubblico che li segue per altre gesta musicali.
Da parte di Bollani, ma il paragone è valido anche per altri nomi anche al di fuori della sfera jazzistica, non credo si debba avere il timore o la  classica diffidenza verso tutto ciò che è nuovo e lontano da consolidate abitudini, quanto attingere ad una riflessione verso il proprio pubblico, far conoscere loro qualcosa di distante dallo standard cui li si è abituati. Credo che questo sia proprio il reale significato di non essere snobistici, ma comunicare agli altri, che esiste un mondo nuovo di sonorità fino ad allora sconosciute, e che potrebbero rivelarsi ancora più entusiasmanti per i padiglioni auricolari ed il cuore di chi non ha mai avuto la fortuna o la voglia di avvicinarcisi. Se qualcuno avesse avuto la fortuna di ascoltare il jazzista milanese in contesti ben diversi da quelli cui ho avuto la sfortuna di inciampare, me lo faccia sapere, anche se questo non cambierà il mio giudizio sullo spettacolo di ieri.
Non ricordo quale musicista classico si era espresso in questo modo sul concetto della musica: non esiste bella o brutta musica, esiste solo buona o cattiva musica.

venerdì 27 luglio 2012

Suoni, immagini, umori e snobismo (del cazzo) pop.....…


Riflettevo su quanto sia difficile rimembrare quanto tempo è passato dalle prime accese discussioni che mi permettevo di fare, da adolescente e, per ovvi motivi anagrafici, incosciente ed “ignorante” fruitore di cinema, musica e letteratura, rispetto ad i miei interlocutori più adulti, visti ed ammirati all’epoca come possibili ciceroni in un mondo fatto di  immagini, suoni e pagine, fino ad allora sconosciuti.
Il ricordo che ho più impresso rimane comunque questa sensazione che ritrovavo in chi, come il sottoscritto, si trovava da una parte con la sorella che gli proponeva i Bee Gees, Gloria Gaynor, Donna Summer, la colonna sonora di Grease da una parte, e le proposte dei coetanei, cui i fratelli maggiori li costringevano, quasi sotto tortura, ad ascoltare Genesis, Jethro Tull e chi più ne ha più ne metta. Non potevo, se non trovarmi escluso, ad ammettere che i King Crimson erano meglio della rilettura disco di “Don’t let me be misunderstood” dei Santa Esmeralda, disco che invece ora conservo con gioia in ricordo di quella mutazione “culturale”, che in fondo tutti noi adolescenti dell’epoca, chi con qualche brufolo in più, preferiva di nascosto ascoltare rispetto all’esordio di Robert Fripp e soci.
Fortunatamente o meno, non sta a me giudicare, il tempo muta le cose, le rende più chiare, ci fa capire cosa davvero ci piace a distanza di tempo, ci fa tornare su “gusti” di cui fino a qualche anno fa ci vergognavamo o che realmente ci disgustavano. Ad ogni modo, queste mutazioni, hanno lasciato delle tracce, alcune volate come sabbia al vento, altre che hanno lasciato solchi indelebili.
Personalmente potrei citare (e non lo faccio per privacy!) un numero davvero ampio di amici e conoscenti che si vantavano dell’ultima scoperta discografica in campo prog, come dell’ultimo Bunuel o di “Viaggio al termine della notte”, opere verso le quali, invece, nutrivano/vamo un odio profondo, proprio perché non ci piacevano o all’epoca non si era ancora pronti, per noi, nati e cresciuti sotto l’egida della RAI (che comunque, specialmente negli anni ’70, ha nutrito culturalmente intere generazioni di italiani). Le notti, come me, le passavano quindi ad ascoltare, in sordina, le radio locali dove la disco e la musica italiana, anche della peggior specie, imperava sovrana. Pertanto guai a parlarci di Tozzi o della Rettore, che sicuramente piacevano a tanti, ma nel mentre crescevamo, i nostri fratelli e sorelle o abbandonavano la musica e il cinema, e a molti di noi non rimaneva che affidarci a nuovi ciceroni, o alla radio e alla televisione, o alle prime riviste di musica e cinema “alternativi”, che in quel tempo ormai lontano perso tra i ’70 e gli ’80, ci orientava verso novità di cui sentivamo, sulla nostra pelle, la necessità.
Quella stessa necessità che ci portava, come chi ci aveva preceduto di una generazione, a snobbare le novità per la massa, specialmente in campo musicale, proprio perché il settore più fruibile da tutti tramite la radio, le mitiche compilation in cassetta, la tv. Abbiamo visto nascere, e ne siamo stati in parte gli artefici, di quel snobismo culturale che ci faceva guardare con disgusto chi non  sentiva la nostra musica (che fossero i Joy Division piuttosto che Lee Perry), di chi non frequentava gli stessi posti, di chi non vedeva gli stessi film.
 Come scriveva Max, Sandblow è nato “perché può essere il luogo più adatto, per narrare di queste mutazioni”, “perché è una folata di vento caldo nella sabbia, perché la traccia o la lascia o non la lascia e non è certo quello il problema ma in ogni caso è una fantastica e operosa officina dei sogni” e “vent’anni fa come oggi la domanda è sempre la stessa, perché le persone fanno le cose, quali sono i motori trainanti della creatività, della voglia di esprimere, della fame senza fondo di ricerca e di progetto. Rispetto a vent’anni fa il mondo è cambiato radicalmente, nello stesso tempo si è ampliato e si è ristretto, ha aumentato la profondità di prospettiva ed ha allargato il campo visivo costringendoci tutti, ma proprio tutti, ancora una volta di più a fare conto con la nostra incapacità di contenere il tutto e favorendo cosi continui straboccamenti emotivi, psichici e non di meno creativi”
E’ vero, che oggi tutto è cambiato, paragonare gli anni ’80 o i ’90 all’attualità suona quasi come una bestemmia; all’epoca, anche se si era giudicati troppo fighetti per il punk, o troppo punk per i fighetti, vi era in fondo la stessa comunità d’intenti, quella della ricerca, quella di sentirsi parte di una (contro)cultura che si dipanava su l’arte tutta, in un mondo più lento e fruibile (per carità, non vuole essere assolutamente la frase classica “dell’era meglio prima”) e più comprensibile.
Proprio con Max ne parlavamo spesso, su quale potesse essere (al di la di situazioni culturali, logistiche,) la via che permettesse di ampliare quella che allora era definita, snobisticamente, cultura sotterranea e “coloro che coltivano le passioni, le arti e la ricerca sanno che questi percorsi sono fatti di tempo e di parossistica velocità, di capacità di guardare al mondo senza le riposanti lenti del già detto o del già pensato, e di profonda riflessione su se stessi e su quello che li circonda.”
Non voglio addentrarmi sui radicali cambiamenti oggi sotto l’egida di tutti, che ha cambiato la fruibilità e il piacere della cultura, ma “oggi come allora, ancora emergerebbe quello che avevamo definito lo stile del cuore di persone che continuano a credere nella realtà del desiderio e dei sogni, di quel strano gruppo sociale trasversale per classe e generazione che continuano ad averne voglia.”
Quello su cui non mi trovavo d’accordo, era il cambiamento epocale offerto alla generazione degli anni 0 (la generazione X di Coupland c’entra poco o niente), che rischia oggi solo di percepire la cultura e di non cercarla, viverla, assorbirla; è assai probabile “che rispetto a vent’anni fa la scena sarebbe ancora più ricca e stimolante, ma ciò che sono certo che rimane intatta rimasta la voglia di alcuni di mettersi in gioco, di non avere paura e di uscire fuori”, di questo sono sicuro, ma vedo ormai anche giovani e adulti persi all’interno di questo calderone che la rete e la tecnologia oggi offrono. Il rischio, rispetto alle generazioni nate nei ’60 e ‘70 è quello del percepire e non dell’addentrarsi alla scoperta dell’oggetto scelto, che sia un libro, un film, un’installazione, una canzone. E il tutto perché molti di noi, e credetemi non voglio offendere nessuno, si sono messi su un piedistallo fatto di snobismo e di gelosia, che ha sostituito la voglia di condivisione, di cui siamo rimasti vittime.
A Berlino, qualche estate fa, io Max e Capasoul, sulla chiatta di un bellissimo locale sulla Sprea, ci addentrammo in una feroce discussione su quale genere musicale fosse stato più importante e stimolante dagli anni ’90 in poi, sotto lo sguardo attonito di due nostre amiche che, stupite e preoccupate anche per le molte birre che scorrevano nelle nostre mani , in quella giornata assolata che ricordo ora con un brivido,  ci osservavano come se stessimo parlando di meccanica quantistica. Si parlava di hip-hop e di techno, e loro due ascoltavano senza capire poco o nulla delle idee che ognuno di noi sosteneva; e questo perché in fondo, il nostro snobismo, non ci permetteva di condividere con loro le nostre idee, raccontare loro quello di cui stavamo parlando.
Lo snobismo “pop”, lo definimmo poco tempo dopo io e Max, quello snobismo che spesso non permette la divulgazione di chi ha conoscenze delle quali anche noi vorremmo essere fruitori, per riuscire ad essere tutti “in quel luogo dove si possono chiamare le persone per nome, investendo energie per amarle e per amare il proprio lavoro, le proprie passioni e le proprie ossessioni, lasciando fuori tutti quelli che non vedono, non sentono e non ricercano”.
E allora affanculo chi è geloso della propria conoscenza, e chi non la vuole divulgare anche e soprattutto a chi ha l’espressione di colui che ha fame di quella conoscenza, a fare in culo chi alla Biennale di Venezia non ci esprime cosa gli trasmette quel video, a fare in culo chi non vuole ascoltare “Se telefonando” perché non è una canzone di Omara Portuondo, a fare in culo chi vuole trarre spiegazioni da un film di Bunuel senza capirci peraltro un cazzo e poi se la ride con “Vieni avanti cretino” e gli Squallor, di nascosto al riparo da occhi indiscreti.
“1) cosa rimane? Cosa rimane della voglia,della passione e del desiderio in un mondo che sembra negarti diritto di parola, di azione di crescita e di realizzazione dei propri sogni?
2) Che fare? Cosa fare per realizzare i propri sogni e i propri desideri?
Oggi come allora One Love.”
Forse rimane scendere dal piedistallo e trasmettere le proprie passioni e desideri, almeno tra coloro che si hanno vicino, discuterne, ascoltare.  Esistono chissà quante altre risposte, al di là dello snobismo di facciata.


P.S.: frasi e diciture tra parentesi sono tratte dal post "Vent'anni dopo l'officina dei sogni.." .

giovedì 26 luglio 2012

Una seconda possibilità…. “Another Earth” (2011) di Mike Cahill


Sorretto da una sceneggiatura impeccabile, scritta a quattro mani dall’esordiente regista Cahill con l’intensa e giovane interprete femminile Brit Marling, “Another Earth” inizia con un terribile incidente d'auto, in cui la  liceale Rhoda, distrugge il veicolo di un musicista, John (William Mapother), uccidendone la moglie e il figlio.  
Quando  Rhoda viene rilasciata dal carcere, diventata ormai un doloroso corpo vuoto, volutamente celato dietro un anonimo lavoro notturno, decide di cercare il compositore cui chiedere perdono. Celando la sua identità, accetta invece un lavoro come donna delle pulizie cercata da John, ormai emotivamente distrutto e ritiratosi solitario nella casa di famiglia. A questo dramma intimo, inizialmente costruito sulle rare parole che nascondono all'uomo la vera figura di Rhoda , si contrappone l’impatto mediatico della scoperta di un’altra Terra, esattamente speculare alla nostra, in cui vivono e si muovono i nostri doppi. Mentre Rhoda riesce a scuotere poco per volta l’apatia di John, che torna a suonare e a comporre, ed i rapporti tra le due Terre iniziano a farsi frequenti, aprendo domande di carattere filosofico, politico, religioso, un gruppo di scienziati decide di inviare sul pianeta gemello, scegliendolo mediante una semplice lotteria, un visitatore. Questo permetterà di appurare la diversità con i propri doppi, le proprie scelte, la propria vita, dove, ad esempio, l’incidente che vede coinvolti i protagonisti potrebbe non essere mai accaduto. E mentre tra John e Rhoda inizierà un delicato e inteso rapporto, la lotteria indicherà lei come prescelta per visitare l’altra Terra, confessando in quel momento a John la sua vera identità. La scelta finale della protagonista sarà una sorta di quieta e dolorosa espiazione, che la porrà di fronte alla speranza ed alla parte più intima del suo essere.
Girato con uno  script non ancora terminato, dalle parole rilasciate dallo stesso Cahill, il riferimento principale di “Another Earth” è La doppia vita di Veronica di Krzysztof Kieslowksi, definito come un’opera di metafisica.
E', in realtà, l’espressione per immagini del desiderio di fuga dalla solitudine, attraverso l’utopistica idea di un'altra terra-luogo, di un altro io, di un’altra opportunità, senza dimenticare quel bagaglio di esperienze che ci hanno reso ciò che siamo oggi. 
Come i personaggi che vediamo sullo schermo e in cui spesso ci immedesimiamo, l’altra Terra è anche una metafora del cinema stesso.
Ad oggi, per le informazioni a disposizione, non è prevista alcuna distribuzione italiana, ma è facilmente recuperabile sulla rete.

martedì 10 luglio 2012

La tempesta imperfetta, il riparo inesistente per anime irrequiete: “Take Shelter” (2011) di Jeff Nichols.


Presentato al Festival di Cannes del 2011 in una delle tante sezioni che sono sempre servite a smarrire preziose perle a favore dell'ennesimo reboot di uomini ragno, e vincendone il Gran Premio, “Take Shelter” non è altro che una immaginifica ricerca del posto perfetto per proteggersi da un maelstrom insondabile.


C'è una tempesta in arrivo, Curtis lo sa, lo ha visto negli incubi notturni che accompagnano la sua vita in una sperduta provincia dell’Ohio, notte dopo notte, incubi durante i quali perde tutti coloro che ama, la sua bella moglie Samantha e la figlia Hannah.
Curtis farà qualsiasi cosa in suo potere per proteggere la sua famiglia dalla tempesta, ma che tempesta è esattamente? Quella che ogni tanto sovrasta le nostre lucide menti, quelle che ci rendono figure opache e confuse  agli occhi degli altri ? Quando Curtis comincia a costruire un rifugio per la fantomatica tempesta nel cortile di casa - rischiando il lavoro, la casa e l'assicurazione sanitaria che serve a pagare il costoso intervento chirurgico per la figlia Hannah, sorda dalla nascita - la gente inizia a parlare, credendo di ritrovare in lui la figura della madre, ricoverata per oltre 30 anni per schizofrenia. Ma si possono davvero ignorare i “sogni” ? Teso, avvincente, e intelligente, Take Shelter è tanto una meditazione sulla malattia mentale quanto un excursus sulla sopravvivenza, personale, della famiglia, dei propri affetti. Della VITA stessa. Come un uomo al passo con la sua sanità mentale, la cui mente e corpo hanno iniziato a ribellarsi, Michael Shannon è intenso, disinvolto nel dipingere la lenta discesa di Curtis verso la follia (reale?), così come  Jessica Chastain da al personaggio della moglie il meglio nel mostrare le sue ansie e i suoi tentativi di comprendere.
Insieme ad “Another Earth” (2010) di Mike Cahill, una delle più belle ed emotive riflessioni sull’incertezza, sul doppio che alberga dentro ogni “anima” ( non saprei che altro termine usare ), sui sogni. Sul Cinema stesso.