Alla fine, sono sempre affari di famiglia. Perché il cinema di Paul Thomas Anderson continua a mostrare dei legami tra i personaggi che sono sanguigni anche se non legati da nessuna parentela. I padri di Magnolia e Il petroliere sono diventati figure assenti nel caso di Gary o sfocate in quello di Alana, anche se la ragazza all’inizio deve quasi scappare da lui dopo che è rientrata tardi e rifugiarsi nella sua stanza. Però c’è una magnifica dipendenza. Prima di tutto negli occhi. Gary e Alana non possono vivere senza l’altro. E non possono neanche stare insieme. Possono essere in fuga e a volte trovano la possibile salvezza in quella fantastica sfida, con il camion a marcia indietro guidato dalla ragazza dopo che ha finito la benzina. Ma a volte si trovano intrappolati come in uno dei momenti travolgenti di tutto il cinema di PTA con la scena della telefonata. Gary chiama Alana, finge di essere un altro ragazzo, poi riaggancia. Il fratello più piccolo lo guarda, in una composizione dell’inquadratura con un riflesso rossastro che potrebbe arrivare da Vizio di forma. Poi lei gli ritelefona. Non si parlano. Si sentono solo sullo sfondo le voci di uno show televisivo. Sono soli e non possono più fuggire. Assieme ai volti di questi due incredibili protagonisti al loro esordio cinematografico, Alana Haim e Cooper Hooffman, scorrono in dissolvenza tutti i personaggi di Magnolia mentre cantano Wise Up, quelli di Mark Wahlberg e Burt Reynolds terminata l’euforia di Boogie Nights o quello di Vicky Krieps vittima/carnefice in Il filo nascosto.
1973. Gary e Alana si conoscono il giorno delle foto nel
liceo del ragazzo. Lui è un attore in rampa di lancio. Lei, più grande di
diversi anni, è un’assistente fotografa insoddisfatta. Tra loro nasce un forte
legame. Ma non è amore, o almeno non sembra. Sono amici, litigano, sono gelosi,
si riappacificano, stanno male. Alana lo insegue come se fosse la sua ragazza
quando Gary viene fermato dalla polizia con l’accusa di omicidio. Ma non c’è
niente da fare, si separano di nuovo. Tra il business dei materassi ad acqua e
poi della sala flipper e gli incontri della ragazza con il famoso attore Jack
Holden (Sean Penn), il parrucchiere e produttore Jon Peters (Bradley Cooper)
che ha una relazione con Barbra Streisand e il candidato sindaco Joel Wachs
(Benny Safdie), le loro vite si incrociano continuamente e cercheranno di
capire quello che provano l’uno per l’altra.
Alla fine, sono sempre affari di famiglia. C’è quella del
set di PTA dove i personaggi possono reincarnarsi da un film all’altro anche in
storie diversissime. C’è la familiarità di un luogo, San Fernando Valley, dove
sono ambientati anche Boogie Nights e Magnolia. C’è poi un legame che diventa
discendenza e testamento. Cooper Hoffman è il figlio di Philip Seymour con cui
il regista ha girato tutti i suoi film, dall’esordio di Sidney fino a The
Master prima della morte dell’attore nel 2014.
Licorice Pizza, titolo che fa riferimento a una catena di
negozi di dischi di San Fernando Valley, è l’American Graffiti di PTA. Quelle
luci, quei colori sono visti con i suoi occhi; la fotografia, dopo Il filo
nascosto, è infatti firmata dal cineasta (stavolta accreditato) assieme a
Michael Bauman. È insieme un inseguimento amoroso nel tempo, un diario di
formazione sentimentale attraversato da un vento di libertà che trascina via
con sé. Ha il cuore del film piccolo e la struttura di un grande affresco
d’epoca, racconta Hollywood dei Seventies con lo stesso slancio con cui il
cinema americano degli anni ’70 guardava al noir dei ’40. Bradley Cooper
reincarna Jon Peters e regala momenti di straripante comicità mentre fa
pronunciare più volte a Gary “Streisand” per correggerlo ogni volta e regala
una battuta che è la magnifica follia tra i Fratelli Marx che diventano
politicamente scorretti e i Farrelly: “Sai quanta fica mi prendo? Tutta quanta.
È tutta mia”. Invece il personaggio per cui Alana sta facendo l’audizione si ispira
a Breezy, girato proprio nel 1973 con il personaggio interpretato da Sean Penn
che si chiama Jack Holden, forse riferimento a William Holden, il protagonista
del film diretto da Clint Eastwood.
Licorice Pizza è di una vitalità e una bellezza mostruosi.
Così come è un mostro di bravura Alana Haim, che sembra che abbia già alle
spalle venti film e non essere al primo. La complicità incredibile tra le e PTA
risale però prima di questo film; il cineasta statunitense infatti ha diretto
una dozzina di videoclip del gruppo Haim, una band formata da Alana e delle sue
due sorelle più grandi. È un film che coglie tutti gli attimi possibili, fa
sentire tutta la frenesia nella corsa in moto di Sean Penn, nel vetro spaccato
della macchina, negli incanti cinefili alla Jarmusch da dove arriva Tom Waits.
Ma soprattutto è un cinema pieno di corse. Fin dall’inizio. Gary e Alana
camminano nella notte dopo essersi conosciuti da poco. Poi corrono, sbandano,
cadono a terra, si rialzano e corrono di nuovo. Come Forrest Gump, come in
Jules e Jim o al Louvre in Bande à part. Non è uno, non sono tre. Sono Gary e
Alana. E nel finale da terra potrebbero alzarsi in aria. Perché è cosi, con
Licorice Pizza si vola ancora più in alto che in Up!. E PTA oggi è un regista
di un cinema senza età. Magnificamente vecchio, incredibilmente giovane. Alla
fine sono la stessa cosa. L’altra faccia, speculare dello strepitoso West Side
Story.
Regia:
Paul Thomas Anderson
Interpreti:
Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Tom Waits, Bradley Cooper, Benny Safdie,
Maya Rudolph, Skyler Gisondo, Mary Elizabeth Ellis, Joseph Cross, John C.
Reilly, Emma Dumont
Durata: 133′
Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 18 Gennaio 2022, di
Simone Emiliani
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When people
say, you’re not my kind / And that your clothes are out of line / And that your
hair isn’t combed all the time / You’re not real pretty but you’re mine”,
cantano Sonny e Cher in But You’re Mine, mentre David Bowie con Life on Mars?
risponde idealmente “But the film is a saddening bore / For she’s lived it ten
times or more”. Anche Gary e Alana, probabilmente, troverebbero noioso
un film, loro che stanno vivendo, brutalmente sognando, e correndo. Corrono
sempre, in Licorice Pizza, Gary e Alana: corrono l’uno verso l’altro, l’uno
contro l’altro, si inseguono, corrono mentre il mondo sta cadendo a pezzi, con
la crisi del petrolio che lascia a secco le macchine della città. Corrono a
piedi mentre altri inseguono sogni di passata gloria in sella a una
motocicletta, come se questa illusione potesse permettere di sopravvivere nella
realtà. Ma dalla moto si cade, e cade anche Alana, con Gary che immediatamente,
senza pensarci, corre verso di lei. Dopo la stasi algida, raffinatissima e
quasi incorporea de Il filo nascosto, Paul Thomas Anderson torna alla carne, a
un brulicare di vita/morte che è persino ignaro della propria essenza.
All’interno di questo viaggio in sé stesso che diventa racconto di un mondo
cristallizzato nel tempo – e dunque inevitabilmente idealizzato – il regista
statunitense ritrova le schegge forsennate di Ubriaco d’amore, Sydney, e
Magnolia, i suoi film più nevrastenici, controllati e liberissimi allo stesso
tempo, nonché gli unici ambientati nel tempo presente. Per il resto il cinema di
Anderson è un lungo peregrinare nel tempo che fu, dal principio del Novecento
ne Il petroliere al secondo dopoguerra di The Master e Il filo nascosto, fino
al 1970 di Vizio di forma, al 1973 di Licorice Pizza, al 1977 in cui inizia
Boogie Nights. Gli anni Settanta, quelli in cui un Anderson bambino iniziava a
scoprire la vita, e che nelle sue mani non sono mai un oggetto inerte, ma
pulsano di una ricerca quasi topografica delle proprie origini: sia Boogie
Nights che Licorice Pizza sono ad esempio ambientati nella San Fernando Valley,
l’area losangelina in cui crebbe il regista (ed è quello l’epicentro della
narrazione anche in Magnolia e Ubriaco d’amore). Licorice Pizza in tal senso è
davvero una fotografia recitata a memoria di una città che non esiste più, a
partire ovviamente dal titolo che si rifà a un negozio di dischi molto in voga
tra i giovani dell’epoca. La già citata crisi energetica scatenata dall’OPEC,
la corsa per la poltrona di sindaco del giovanissimo Joel Wachs, Lucille Ball e
il suo Appuntamento sotto il letto, il ritorno delle sale gioco per flipper, il
“Mikado”, primo ristorante giapponese aperto nella San Fernando Valley: è come
se Anderson inseguisse il filo delle proprie suggestioni, quelle immagini
squarcianti che invadono il cervello con il passato senza che si possa dar loro
una collocazione esatta, precisa, inappuntabile.
Così il film procede dimenticandosi del tutto l’idea di
struttura, di nuovo come il vagare di Alana e Gary, che si frequentano e si
distaccano, per poi avvicinarsi ancora una volta, in un percorso di conoscenza
e innamoramento che supera una seconda barriera del tempo, quello anagrafico:
Alana ha dieci anni più di Gary, che ne ha solamente 15 all’inizio del film. Il
rapporto tra i due personaggi, resi magnificamente dalle prime interpretazioni
davanti alla macchina da presa della musicista Alana Haim e di Cooper Hoffman,
figlio di quel Philip Seymour che fu l’attore prediletto di Anderson, è il
centro nevralgico del film, quel tenersi negli occhi dei due è anche la
vertigine dello sguardo andersoniano, che in maniera voluta fa sì che tutto il
resto risulti episodico, aneddotico, privo di qualsiasi ipotesi di continuità.
La vita scorre, in Licorice Pizza, e tutto si dissolve e svanisce, dall’impresa
di Gary come venditore di materassi ad acqua al tentativo di Alana di diventare
attrice sul set di un film che rassomiglia da vicino a Breezy di Clint Eastwood
– con Sean Penn a vestire i panni di tal Jack Holden, che fin dal nome rimanda
a William Holden –, o di impegnarsi nella politica per il rinnovamento della
“città degli angeli”. Ma un tempo cristallizzato non è riformabile. Gli anni
Settanta sono un bene rifugio per Anderson e nel pieno della pandemia, con il
mondo rinchiuso nelle proprie case, gli consentono di evadere, di ricordare le
corse libere in mezzo alla strada, di perdersi ancora nello struggimento di un
amore che non ha modo di esprimersi ma semplicemente vibra nell’aria. Così
Licorice Pizza diventa a suo modo anche un film sul proprio tempo, e
sull’impossibilità di vivere oggi, quasi di respirare; nel confrontarsi con una
quotidianità asettica e priva di sentimento Anderson risponde con una sua
personalissima versione di Come eravamo, e anche un po’ di Ma papà ti manda
sola – l’incredibile guida in ripida discesa a retromarcia del camion rimasto
senza carburante –, e non è di certo casuale che Alana Haim abbia qualcosa di
Barbra Streisand (a partire dal “naso ebreo” che tanto loda Harriet Sansom
Harris nei panni di Mary Grady, celebre agente di attori-bambini in quel di
Hollywood), per di più citata con tanto di interrogazione sulla pronuncia del
cognome.
Anche per questo non ha bisogno di una trama Licorice Pizza,
perché una narrazione canonica lo ingabbierebbe, lo costringerebbe a
confrontarsi con lo spazio-tempo in modo meno sognato, meno lisergico, meno
libero. Tra American Graffiti di George Lucas (uscito in sala proprio nel
fatidico 1973), Fast Times at Ridgemont High di Cameron Crowe e Dazed and
Confused di Richard Linklater, evidenti punti di riferimento ideali per
Anderson, Licorice Pizza si muove con una grazia seducente, con la levità di una
passeggiata estiva serale, eppure non dimentica alcuni dei temi più cari al
regista, come ad esempio l’assenza dei genitori, il concetto fuggevole di
bambino prodigio, l’esteriorità virulenta del maschile (qui incarnata nei modi
spacconi e non poco dissociati di Bradley Cooper), l’alienazione, la
solitudine, l’incapacità di trovare la propria strada, la spinta
imprenditoriale. Tra un omaggio a Taxi Driver e uno a Nashville – si veda
l’uomo che spia il comportamento del candidato sindaco Wachs, metà Travis Bickle
metà Kenny Fraiser – Paul Thomas Anderson chiama a raccolta amici e vicini,
parenti e affetti vari, e utopisticamente tiene a distanza il mondo virale
abbandonandosi a una rêverie delicatissima, e dedicando alcune sequenze molto
ispirate come l’incontro tra Gary, Alana e l’agente del ragazzo, o la già
citata guida al contrario del camion. Ma su tutte svetta la telefonata “in
incognito”, con i due che ognuno alla sua cornetta e osservati dai genitori e
dai fratelli e sorelle restano muti, in attesa di una parola che arriverà solo
all’ultimo istante, ma che pervade ogni singola inquadratura del film.
Pubblicato su quinlan.it 19/01/2022 di Raffaele Meale