venerdì 9 giugno 2023

Master Gardener, di Paul Schrader (2022)

Narvel Roth è il meticoloso orticoltore di Gracewood Gardens, una bellissima tenuta di proprietà della ricca vedova, la signora Haverhill. Quando ordina a Roth di assumere la tormentata pronipote Maya come sua apprendista, la sua vita viene gettata nel caos ed emergono oscuri segreti dal suo passato.

Uno dei piaceri più comuni nella fruizione del cinema, e dell’audiovisivo in generale (pensiamo alla serialità), è la riconoscibilità di un canovaccio noto, di uno schema narrativo, che lo spettatore ama ritrovare, sempre rinnovato, in ogni sua nuova visione. Questo tipo di appagamento si può facilmente rinvenire nel cinema di Paul Schrader, appassionato cinefilo, abile sceneggiatore, arguto autore di un cinema che non dimentica mai di omaggiare i propri maestri (Bergman, Bresson, Ford, Dreyer) e di offrire una sempre nuova declinazione dei temi che più gli stanno a cuore: colpa, espiazione, redenzione. In questa triade essenziale, Schrader identifica il motore di ogni sua sceneggiatura e della narrazione tout court: non principia nessuna storia senza una colpa del passato, non si sviluppa alcun racconto senza il desiderio di espiare e non c’è scopo altro che la redenzione.

Presentato fuori concorso a Venezia 79 (Settembre 2022), dove l’autore ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, Master Gardner rappresenta il terzo capitolo di un’ideale trilogia incentrata su personaggi virili solitari, tormentati e “in cerca” – searchers fordiani – che comprende i precedenti First Reformed e Il collezionista di carte. Ma se il protagonista del primo film bramava un suo calvario personale, il giocatore andava incontro a una redenzione nel sangue, il protagonista di Master Gardner desidera invece una vera e propria, terrena, rigenerazione.

Narvel Roth (Joel Edgerton) è il “maestro giardiniere” dei Gracewood Gardens, di proprietà della ricca possidente Signora Haverhill (Sigourney Weaver), che come ogni anno intende far partecipare il suo giardino a un prestigioso concorso. Sentendosi vicina al trapasso, la donna vuole riappacificarsi con la pronipote Maya (Quintessa Swindell), ragazza ventenne per metà afroamericana, rimasta sola dopo la morte della madre. La giovane viene dunque assunta come apprendista e affidata alle cure e agli insegnamenti di Narvel che, oltre ad occuparsi del giardino, offre saltuariamente le sue prestazioni sessuali a Lady Haverhill. Tra maestro e discepola sboccia però l’amore, e si genera così una pericolosa triangolazione di giochi di potere, che vede nel vertice decisionale l’algida proprietaria terriera. Ma a far tribolare davvero i due amanti sono le loro colpe pregresse. Lei deve liberarsi di un ex fidanzato spacciatore, e il suo corpo deve rigenerarsi dalla tossicodipendenza. Lui, invece, ha un passato di militanza in un gruppo di neonazisti, passato che porta ben inciso sulla pelle, sotto forma di indelebili tatuaggi, cicatrici perenni che non si rimarginano.

Accompagnato, come il precedente Il collezionista di carte, dalla voice over del protagonista, che ci riporta le parole vergate nel suo diario personale, Master Gardener innesta il suo racconto di sagaci e brillanti metafore legate al tema dell’orticultura. A partire dall’iniziale illustrazione delle tre tipologie di giardino: c’è quello che chiamiamo all’italiana, che impone alla natura le regole umane della geometria, poi quello che vuole apparire spontaneo, ma dove in realtà tutto è regolamentato, e infine c’è il “giardino selvaggio” dove in ogni caso è un’utopia pensare che non vi sia intervento umano. Inoltre, Narvel, come anche il protagonista di Il collezionista di carte è ossessionato dal controllo e pensa che organizzare e coltivare il giardino significhi credere nel futuro, e che le cose accadranno secondo le regole. Ma se ci si può illudere di dettare un indirizzo alla natura (certo, Werner Herzog non sarebbe d’accordo, ma siamo qui in tutt’altra poetica autoriale), ben altra questione è governare le intenzioni e le azioni degli esseri umani, le cui ragioni profonde possono essere talvolta imperscrutabili. Non ci sono rastrelli, pale o setacci che tengano, quando si tratta di estirpare “la malerba” da una persona. O forse sì, basta prendere in mano la situazione e innescare un cambiamento. E il cambiamento si innesca qui, come nei migliori noir e western del cinema classico, con un colpo di pistola. È da lì che prendono inizialmente vita i flash sul passato di Nervel, ed è sempre da lì che ha inizio poi il suo salvataggio di Maya, nuova reincarnazione di quei personaggi femminili tanto amati da Schrader in quanto discendenti dalla Debbie di Sentieri selvaggi (John Ford, 1956), pensiamo alla giovane prostituta interpretata da Jodie Foster in Taxi Driver di Martin Scorsese (di cui Schrader ha firmato lo script) o alla figlia perduta nel sottomondo degli snuff movies da George C. Scott in Hardcore (1979).

Proprio come avviene per i protagonisti dei tre film su citati – e come rivela esplicitamente la seconda parte di Master Gardener, quasi tutta on the road – quello di Nervel è un viaggio, salvifico, certo, ma anche prevalentemente orizzontale, come ben sottolineano le scelte stilistiche di Schrader, maestro di regia e non solo di scrittura. Prediligendo movimenti di macchina di avvicinamento e allontanamento ai luoghi e ai personaggi, l’autore rinuncia infatti alla verticalità (non a caso non vediamo mai il “disegno” complessivo del giardino) che trovavamo, coerentemente, in First Reformed, perché qui l’obiettivo non è la trascendenza, questa è una storia terrena, come ben dimostra la scena in cui il protagonista annusa il terriccio da coltura, provando per esso una sorta di venerazione olfattiva.

No, non è Dio che cerca Nervel, ma una redenzione molto terragna, attraverso l’amore reciproco, una rigenerazione fisica dunque: di Maya, prevalentemente, che deve disintossicarsi, ma anche del giardino violato e, in senso lato, dell’America stessa e delle sue origini, tutte da riscrivere.

Rude e sentimentale, proprio come il suo protagonista, ma anche denso di speranza, Master Gardener è dunque una fulgida, commuovente parabola di rifondazione, un western dunque, dove i due amanti protagonisti incarnano i pionieri di un nuovo mondo/giardino da far rifiorire, i semi di un rinnovato Eden americano: interraziale, popolare e non wasp, rigenerato e selvaggio.

Pubblicato su quinlan.it 05/09/2022 di Daria Pomponio

------------------------------------------------------------------------

Ci sono giardini “formali”, “informali” e “selvaggi”. I primi sottomettono la natura a uno schema fisso inseguendo una perfetta simmetria; i secondi ridiscutono tale prospettiva integrandola romanticamente con i processi naturali; i terzi tendono invece ad azzerare ogni alterazione artificiale liberando definitivamente lo sguardo. In quest’articolata riflessione teorica che il giardiniere Narvel Roth (Joel Edgerton) ci presenta a inizio film, però, una sola certezza appare incontrovertibile: “è impossibile schematizzare la natura”.

Ci risiamo allora. Il cinema di Paul Schrader, da quasi cinquant’anni, ragiona su questi stessi scarti di senso. Muovendosi con rara etica dello sguardo tra forme codificate e rotture improvvise, carceri immanenti ed evasioni trascendenti. Il grandissimo sceneggiatore/regista americano, infatti, ha codificato nel corso dei decenni un archivio di regole ossessivamente ripetute concependo il cinema come una sorta di rituale (del resto, “i soggetti sono solo dei pretesti“, dice il maestro Bresson) aperto a ogni piccola variazione su tema. Ed è proprio intorno a queste deviazioni dallo spartito che puntualmente noi spettatori ci interroghiamo trasformando lo stile cinematografico in una forma di vita. Le immagini in sentimenti.

E arriviamo a Master Gardener. Dopo i terribili traumi della guerra in Iraq che direttamente o indirettamente influenzavano i protagonisti di First Reformed e Il collezionista di carte, questa volta è il suprematismo bianco di estrema destra il fantasma latente con cui fare i conti. Anni prima, infatti, Narvel ha fatto parte di una violentissima organizzazione paramilitare neonazista. Sino a quando una crisi familiare e spirituale lo ha convinto a denunciare molti dei suoi compagni aderendo a un programma di protezione testimoni e divenendo infine un bravissimo orticoltore. E quale giardino è stato destinato a coltivare? Quello di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), una ricca possidente reclusa nella sua enorme villa che da giovane si dilettava addirittura a fare l’attrice. Molti segni, sin dal nome proprio, ci porterebbero lontano… addirittura a pensare alla Norma Desmond di Viale del tramonto. Con il “giardino di Norma” che diventerebbe idealmente il giardino del cinema: uno spazio tutto potenziale dove i fiori (sin dai magnifici titoli di testa) appaiono come immagini eteree e senza sfondo capaci da sole di far balenare il desiderio di una catarsi.

Veniamo al punto. La floricoltura per Narvel, proprio come il cinema per Schrader, è un lento percorso di cura da abbracciare con lancinante sincerità e senza nessun compromesso. L’unico modo per sedare i propri demoni interiori e tentare di dare una forma al caos del nostro mondo. Quindi le regole autoimposte e la disciplina (“lo studio dello storia“) sono custodite nuovamente in un diario come interfaccia spirituale per il protagonista e come segno transtestuale per noi spettatori. Ma questo ancora non basta! I traumi del passato non possono essere cancellati solo dai rituali o dall’ascesi, proprio come gli osceni tatuaggi che Narvel decide volontariamente di lasciare sulla sua pelle perché ancora pressanti nel fuori campo della sua vita. Ci vuole pertanto il coraggio di accedere a una nuova dimensione carnale e spirituale attraverso l’incontro con l’altro da sé. Quindi attraverso un sublime momento rivelatore che apra crepe di vita nella superfice delle cose. Ed eccoci all’irruzione di Maya (Quintessa Swindell), la venticinquenne nipote di Norma: una ragazza che ha un rapporto difficile con la famiglia, un padre afroamericano assente e vari problemi di tossicodipendenza. L’incontro rivoluzionario e inatteso con con l’amore metterà definitivamente alla prova il nuovo sistema di valori di Narvel e la sua commovente fede nella rinascita.

Fermiamoci qui. Perché pur muovendosi con ostinata fiducia nelle riconoscibilissime costanti narrative ed estetiche del cinema di Schrader, Master Gardener riesce ancora a farci percepire istanze, sentimenti e desideri dei personaggi come fosse la prima volta. Lasciandoci sulle soglie di un finale ossessivamente ripetuto, eppure sempre bellissimo e travolgente per tensione etica e potenza emotiva. Un film posto oltre ogni attualità e per questo intimamente contemporaneo. Oltre ogni presa di posizione ideologica e per questo immensamente politico. Oltre oltre cinefilia compiaciuta e per questo cinefilo nel senso più puro e alto del termine. Insomma, il cinema continua a essere per Schrader quel fertile giardino capace di far germogliare semi ciclicamente uguali in frutti dotati di un’irriducibile singolarità. Quella della nostra di vita.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 4 Settembre 2022 di Pietro Masciullo


Nessun commento: