giovedì 21 settembre 2023

IL GRANDE CARRO di Philippe Garrel (2023)

Chissà perché, nel vedere l’ultimo film di Philippe Garrel viene in mente il Carro dei tarocchi, l’arcano maggiore numero 7. Sarà per l’assonanza del titolo o per una semplice suggestione dovuta a certi risvolti onirici e profetici della storia. Ma quella carta che simboleggia un’avanzata e una conquista, esprime anche un’idea di conflitto, per i due cavalli che procedono in direzioni divergenti. E sembra stabilire, per questo, una strana consonanza con le vicende raccontate da Garrel. Che parlano di declino e di fine, ma anche della necessità di andare avanti e intraprendere nuove strade. In un incessante tensione tra l’ostinazione a trattenere il passato e la voglia di cambiare, in cerca di un futuro.

Insomma, Garrel parla di eredità. Ideale e spirituale, ovviamente. E usa la parabola di una famiglia di maestri di marionette. Il padre, animato da una passione infaticabile, cede il passo. Rimangono i tre figli a mandar avanti l’attività: Louis, Martha, Lena. Con l’aiuto di Peter, un aspirante pittore che ha lasciato da parte per un momento le velleità, e il supporto della vecchia nonna, con le sue storie e i suoi ricordi. Ma a poco a poco, il vecchio mondo si sfalda. Immancabilmente. Cosa resta di una tradizione, allora? Dell’arte di una vita? È tutto nella discussione tra Martha e Lena sull’opportunità di trovare nuove storie, per svecchiare il solito repertorio dei Pulcinella. Martha vuole conservare i vecchi testi, la misura classica. Lena è convinta che bisogna cambiare, per stare al passo con i tempi e il pubblico. Ed è questo costante cambiamento è l’unico modo per preservare la tradizione. Probabilmente ha ragione lei. Ma è Martha ad avere le visioni premonitrici, è lei che vede il futuro. Ossessionata dalla volontà di custodire il cuore profondo di un’ispirazione.

È evidente che Garrel si sta chiedendo cosa rimarrà del suo modo di far cinema. Cinema come “affare di famiglia”, un modo per svelare la verità più intima, per provare a creare relazioni e comunioni. Non a caso, chiama in gioco i tre figli, Louis, Esther e Lena, quasi come un vecchio Re Lear che vuol decidere a chi affidare il suo regno. Ma non ha certo la paura della fine e l’ansia di stabilire chi sia più degno. No, Garrel non deve difendere nessuna posizione. Per questo non c’è nessuna cupezza nel suo sguardo. Semmai una malinconia tenera, dolorosa, ma non rassegnata. Che, in fondo, è la stessa con cui da sempre racconta la vita per immagini, nel ciclo continuo degli amori che finiscono e che iniziano, delle cose perdute, delle ambizioni che vanno a morire e dei nuovi entusiasmi, dei battiti non rinnovati.

Sì, certo, viene in mente la suggestione de La carrozza d’oro di Renoir: l’antico spettacolo al tramonto, ma anche quella capacità di fare di ogni immagine un sistema aperto di entrate e di uscite. E sebbene non si tratti certo di un commiato, è chiaro che ci troviamo di fronte a un cinema che si scopre ogni volta un po’ più vecchio. Si avvertiva già ne Il sale delle lacrime la sensazione di un passo indietro rispetto alla velocità del mondo. Di un’immagine che si dichiara sorpassata. Senile. Ma che proprio per questo, nel ciclo continuo delle cose, può riscoprirsi infantile, libera di giocare e di smontare le forme. Non c’è praticamente una scena di raccordo. Si procede per quadri, quasi assistessimo alla replica di uno schema narrativo da spettacolo di burattini. E chi sono i primi spettatori di questi teatrini, se non i bambini? Garrel sembra sempre più semplice. Addirittura ingenuo. Ma in questa semplicità c’è un’eleganza infinita, come appare dal pudore con cui vengono risolti tutti i momenti forti. Per cui, al di là di tutto, al di là anche delle sgangheratezze, domina un senso di delicata ironia. E una dolcezza infinita nel guardare i personaggi, i “figli”, seguire ognuno la propria strada. Liberi anche di tradire.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 14 Settembre 2023 di Aldo Spiniello

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L’arte dei burattinai, e dei marionettisti, rappresenta ancora oggi una forma diffusa di bottega artigianale appannaggio di famiglie di artisti, premiate ditte che si trasmettono il sapere da una generazione a un’altra. Ed è una famiglia di burattinai che sceglie Philippe Garrel per raccontare della propria dinastia di cineasti, che parte dal padre attore Maurice, passando per il fratello produttore Thierry, per arrivare ai figli attori Louis, Esther e Léna. Figli che sono riuniti appunto in Le grand chariot (Il grande carro), presentato in concorso alla Berlinale 2023. Trasporre sé e la propria famiglia in una forma di rappresentazione diversa dal cinema come il teatro di figura, tendenzialmente indirizzata a un pubblico di bambini, permette al cineasta quel distacco che non aveva quando metteva in scena il cinema come arte viscerale e totale. Forse alla sua età, Garrel non ha più la macchina da presa al posto del cuore, come in quella famosa battuta di L’enfant secret. E i burattini evitano di spingere a un ulteriore livello quel complicato gioco di rispondenze tra personaggi reali e loro alter ego sullo schermo, che possono o meno combaciare, secondo riflessioni portate avanti in diversi film del cineasta, come Les baisers de secours o Innocenza selvaggia. In questo caso combaciano Louis e Léna, mentre Esther diventa Martha e lo stesso Garrel si fa interpretare da un attore.

Rimane che ogni volta che nel film si mostrano le rappresentazioni di burattini della compagnia, queste sono quasi sempre viste da dietro la barriera scenografica che occulta al pubblico gli animatori dei pupazzi. Così anche quando la compagnia si presta a un lavoro televisivo: le telecamere stanno sempre di dietro. Viene sempre mostrato il trucco, il retroscena come da sempre Garrel ha fatto nel suo cinema, con i suoi personaggi che appartengono alla sua vita. E il gioco di scatole cinesi della rappresentazione, tra vita, cinema e marionette, è comunque suggerito dalle battute, verso la fine, della celebre scena del metateatro dell’Amleto.

Dopo quasi sessant’anni di carriera, tornano compatti i temi cari al regista francese: l’archetipo del nucleo famigliare, che qui è cristallizzato nella bellissima scena in cui tutti assistono la nonna a letto; ci sono poi i temi della morte, della maternità e della separazione, rivisti in tono molto leggero. Si può avere un figlio da chi non si ama, mentre si ama un qualcun altro che farà da padre. Si va al cimitero sbagliato, o ci si dimentica il nome prescelto per il proprio figlio mentre lo si va a registrare all’anagrafe. E, per rispetto all’ateismo del padre, gli si svita via il crocifisso dalla bara prima di seppellirlo. Garrel si toglie quasi subito di scena, per poi ricomparire alla fine, sempre tramite alter ego. Rimane la nonna a rappresentare la dinastia, che affonda le sue radici, come spiega, agli inizi del Novecento. Il grande carro è in definitiva un grande film sulla trasmissione dell’arte e della vita. La nonna passionaria, che inveisce contro la guerra e il popolo fascista, fatica a comprendere il modo di manifestare delle FEMEN cui ha aderito la nipote. Come i vari membri della famiglia Garrel hanno svolto ruoli diversi nel cinema, così può succedere che la vena artistica si manifesti in via diversa da quella famigliare del teatro di burattini, nel teatro vero e proprio, cui si indirizza Louis, o nella pittura. Si può rinnovare la propria arte per rimanere vivi: lo dice una figlia discutendo con l’altra che invece vorrebbe portare avanti la compagnia con il suo repertorio classico. Rinnovarsi per rimanere vivi è in fondo ciò che sta facendo Philippe Garrel, nonché la miglior risposta a chi lo accusa di non essere più quello di una volta.

Pubblicato su quinlan.it 26/02/2023 di Giampiero Raganelli


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